Fascismo, neofascismo e postfascismo.

Non lasciamoci fregare. Il postfascismo può essere decisamente peggio del fascismo. Si aggiorna in senso deteriore dissimulando una ideologia antidemocratica e antipopolare più subdola e gregaria del liberismo nazional popolare.

Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”? Esistono le “neo-femministe”? Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola. “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo. Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia. La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità; il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene. Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo. ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico. La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato. Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico.“Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo. “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione. È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.

Da non sottovalutare, in questo quadro, c’è la tolleranza o quanto meno l’assenza colpevole di certa sinistra liberaleggiante che forse fa già parte di quell’altra faccia del postfascismo rimeditato negli effetti che non è certo nostalgia ma sicuramente terribile attualità neoliberista come ben scrive Paolo Mottana:

Due righe sul fascismo: oggi, come è evidente, la parola fascismo, ben oltre le sue origine storiche, individua una lista di comportamenti che, genericamente ma correttamente, definiamo fascisti: autoritarismo, violenza verbale e fisica, imposizione, giudizi sommari, crudeltà gratuita, condanne per le idee ecc. ecc. Quindi oggi vorrei celebrare non solo la Liberazione con la L maiuscola, quella che conosciamo perché ci è stata tramandata dai nostri vecchi e che ci parla di libertà da sofferenze inaudite ma anche una liberazione minore, da tutti i fascismi che infettano il mondo: quelli che ci imprigionano in rapporti violenti, quelli del lavoro dove capi e capetti si permettono di insultare e vessare gratuitamente perché hanno uno straccio di potere, dove siamo giudicati in base a invidie e ritorsioni, quelli del tempo che ci viene rubato o castrato, quelli delle deportazioni (quella scolastica o lavorativa per esempio), quando accettiamo di subire ogni tipo di potere sulla nostra vita senza ribellarci, o ribellandoci e venendo immediatamente schiacciati da sanzioni di ogni genere, di quelli che ci indicano cosa fare, come impiegare il nostro tempo residuo e non ci rendiamo più conto che non sappiamo più fare una scelta autonoma perché tutte le nostre scelte sono già predecise altrove (sulle vacanze, sul tempo libero, persino sul riposo e sul fare l’amore), quelli della coppia talvolta, della famiglia troppo spesso, delle code in auto, degli ammassamenti sulle metropolitane, dei centri commerciali, delle spiagge in batteria come polli a cuocere alla griglia, dei programmi televisivi a senso unico, di tutti i fanatismi, buoni o cattivi, religiosi o laici.Vorrei celebrare la liberazione dai fascismi che fanno della nostra vita una vita da schiavi, da sottomessi, laddove spesso siamo noi stessi a non saper leggere il fascismo interno che noi stessi ci rifiliamo pur di non vivere l’ebbrezza spaesante di una vera liberazione.

Fascismo e fascismi dunque, a braccetto insieme e assai più pericolosi e criminali se ben propagandati da una avanzante occupazione culturale multiforme, subdola, a volte sfacciatamente palese e, a volte, anche pericolosamente subliminale.

Giuseppe Campagnoli Aprile 2024




Antisemitismo, sionismo, islamismo

CONTRO LE CORRENTI

I semiti sono un gruppo linguistico del Vicino Oriente che in origine occupava la regione compresa fra i monti Tauro e Antitauro a nord, l’altopiano iranico a est, l’Oceano Indiano a sud, il Mar Rosso e il Mediterraneo a ovest; in epoca storica, in seguito a migrazioni, le lingue semitiche (siriaco, aramaico, arabo, ebraico e fenicio) si sono diffuse nella regione etiopica e in Africa settentrionale.

Il termine semitico (ted. semitisch) fu usato per la prima volta nel 1781 da A.L. Schlözer per designare le lingue parlate dalle popolazioni che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere da Sem, figlio di Noè. Dalle lingue passò in seguito a indicare anche i gruppi umani che le parlano, assumendo un valore etnologico e antropologico, che ha però scarsa consistenza.

Gli scavi condotti a Micene provano che i Filistei erano originari della Grecia (forse Creta o Micene) e che erano giunti in Medio Oriente sul finire dell’età del Bronzo, circa nel 1200 a.C., nello stesso periodo in cui vi erano arrivati gli Ebrei.

Una volta stabilitisi in Palestina, i Filistei si organizzarono in una federazione di cinque città: Gaza, Ascalon, Asdod, Ekron e Gat sono nominate nella Bibbia (1 Re, 6, 17) con descrizioni che trovano in buona parte conferma nelle evidenze archeologiche. La presenza dei Filistei in queste terre è marcata dal ritrovamento di ceramiche caratteristiche, in tutto simili a quelle tipiche della civiltà micenea, riconoscibili per la colorazione gialla e i motivi ornamentali in rosso e in nero raffiguranti forme geometriche e figure di cigni. Le città di Gaza, Ascalon e Asdod hanno conservato tracce di continuità nei secoli, mentre le altre due non sono identificabili con sicurezza, ma gli studiosi ritengono che Ekron possa insistere sul sito di Tel Mikneh, nel Kibbuz Revadim, in Israele.  Questa pentapoli andò presto a confliggere con la nascente nazione di Israele.”

Filistei (palestinesi) ed ebrei sono semiti.

Articoli di RISS e Yovan Simovic su Charlie Hebdo.Traduzione e riedizione di Giuseppe Campagnoli.

Estrema destra: odiare gli ebrei o i musulmani, bisogna scegliere! Dalla Francia in Europa tutto il mondo è paese.

La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese risveglia una febbre antisemita in una parte dell’estrema destra europea. Ma nell’altra parte (vedi Italia) si è voltata pagina da tempo e si sostiene Israele, soprattutto per odio dei musulmani e per convenienza internazionale. Si era quasi dimenticato che prima di cacciare il capretto arabo l’estrema destra gli ha a lungo preferito il «giudeo». Fortunatamente per le nostre piccole e misere memorie, la grande storia torna sempre a ricordarcelo. Così, in occasione della rinascita del conflitto israelo-palestinese, i confratelli negazionista e antisemita non hanno mancato di salutare il «certo coraggio» di Jean-Luc Mélenchon che non si è «allineato incondizionatamente sull’entità sionista». Il patrono ufficioso della coalizione francese do sinistra oggi viene «demonizzato come lo era ieri Le Pen». Jean-Marie naturalmente. Dal momento che vi si dice che il fiore fine dell’antisemitismo francese è uscito per difendere gli islamisti palestinesi: Alain Soral stesso, sul suo sito «Uguaglianza e Riconciliazione», segnalava «il legame tra il terrorismo israeliano e Hamas».

Certo, sono profili quasi «storici» dell’antisemitismo di estrema destra, ricorda lo storico Nicolas Lebourg. E l’attualità internazionale li spinge, logicamente, a posizionarsi dietro i terroristi di Hamas, alleati di circostanza.

Perché nel campo di fronte c’è il nemico giurato: Israele.

Ma è anche un odio tenace dell’imperialismo che può avvicinare le estreme destre europee al terrorismo islamico antisemita. In un articolo di Le Monde, pubblicato il 23 ottobre, si apprende che un ex eurodeputato «nazionale conservatore» proveniente dal Partito della libertà d’Austria (FPÖ), nonché tre vicini della formazione politica, a fine settembre hanno effettuato una piccola visita di cortesia presso i talebani afgani. Ufficialmente, la piccola delegazione veniva «ad organizzare, o almeno a riorganizzare, il ritorno di un certo numero di afghani in direzione del loro paese d’origine», spiega Patrick Moreau, storico e politologo specialista degli estremismi in Europa. «Ma in realtà è anche per la fortissima dimensione ideologica, antiamericana, che li riunisce», si affretta ad aggiungere. Si trattava quindi di venire sul posto a rallegrarsi, in prima fila, del successo di questi talebani che sono riusciti comunque a mettere gli Yankees alla porta.

Da noi stranamente, almeno nella facciata governativa la destra, anche estrema è allineata di fatto con USA e Israele dimenticando che di essere l‘erede di quell‘Almirante mai rinnegato redattore della famigerata antisemita “Difesa della razza“ La Storia recente provocata dalle persecuzoni nazifasciste italotedesche, russe, polacche, ungheresi…”

Un po’ di storia del recente ritorno(?!) degli ebrei in Palestina dopo più di duemila anni

In risposta al crescente antisemitismo contro gli ebrei in Europa, alla fine del XIX secolo dopo secoli di Diaspora (già da prima del tempo dei romani) emerse un movimento sionista che sosteneva la necessità di uno stato ebraico. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si tennero le prime Aliyah che portarono decine di migliaia di ebrei europei a stabilirsi in Palestina; l’immigrazione ebraica nella regione accelerò in seguito alla seconda guerra mondiale e all’Olocausto. Il ritorno in massa degli ebrei in Terra di Israele è una costante della tradizione religiosa ebraica scritta ed orale, in genere associata alla venuta del Messia. Per molti rabbini, e comunque per i laici, il sionismo è appunto l’inizio dell’era messianica. Nel 1950 lo Stato di Israele ha codificato l’aliyah (e la cittadinanza) come un diritto di ogni ebreo nella legge del ritorno. Israele è in effetti un paese di immigrati (per ragioni religiose o, dal 1882, sioniste) o, più propriamente, un paese di profughi (dal 1933).

Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.

Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.

Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì lo aliyah –  cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.

All’epoca circa il 90 per cento della popolazione palestinese era di etnia araba.

Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei.

In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.”

L’occupazione nata con la favoladi una terra promessa da una entità inesistente continuò a discapito delle popolazioni autoctone che scivolarono nel tempo tra le braccia dell’integralismo fanatico religioso e terrorista.

Le religioni appunto, oppio dei popoli e istigatrici di violenza.              

Fonte: Il Post Aprile 2016

IL CONTRALTARE ARABO ISLAMICO

ARABI VS ARABI

QUESTE MORTI CHE NON CI SERVONO A NIENTE

 Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra in Siria tra il 2011 e il 2022? Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra nello Yemen tra il 2014 e il 2017? Probabilmente no. Per contro, conoscete il numero di civili uccisi nella striscia di Gaza, grazie ad Hamas, che ci ha comunicato le sue cifre: 9.770 (nel momento in cui siamo in stampa). Hamas sarebbe quindi diventata un’agenzia di stampa più affidabile dell’AFP e della BBC. In fondo, non importa, perché ciò che conta è che siano gli israeliani, e più precisamente gli ebrei, ad essere responsabili della morte di queste vittime civili, per di più quando si tratta di bambini. Questa accusa ne ricorda una più antica, tipica della propaganda antisemita, secondo la quale gli ebrei mettevano a morte dei bambini non ebrei per fare del pane azzimo con il loro sangue.

D’altronde gli esperti sono formali: le bombe lanciate da Tsahal sui combattenti armati di Hamas uccidono i civili nelle vicinanze, il che costituisce, nel peggiore dei casi, un «genocidio», almeno un «crimine di guerra». A sentire loro, sembrerebbe che a Gaza vi siano solo civili e che gli islamisti di Hamas siano scomparsi. Il trattamento dei civili in altri conflitti, come in Siria o nello Yemen, è sempre stato così delicato? Bisogna dire che la sorte delle popolazioni di questi paesi non ha mai avuto tanta attenzione.

Curiosamente, quando i popoli arabi si massacrano tra di loro, gli attivisti di guerra si fanno discreti. 200.000 civili arabi massacrati dai soldati arabi appare meno grave di 2000 civili uccisi nei bombardamenti dai soldati ebrei di Tsahal. Con conflitti come quelli dello Yemen e della Siria, infatti l’attivista propalestiniano-anticolonialista non può servirci la sua zuppa antioccidentale poiché nessun ex paese colonizzatore vi ha svolto un ruolo determinante e nessun israeliano, nessun ebreo, vi ha partecipato. Con questi conflitti che contrappongono popolazioni arabe e musulmane tra loro, impossibile gridare «morte agli ebrei! » nei campus americani. Quindi, le donne e i bambini massacrati, gasati, decapitati dai soldati arabi durante questi conflitti saranno nascosti sotto il tappeto, perché non hanno alcuna utilità ideologica per i militanti acritici e a senso unico.

Per la cronaca, il numero di civili uccisi durante la guerra in Siria ammonta a 306.000. Nello Yemen sarebbero morte 380.000 persone, di cui 227.000 a causa della carestia e della malnutrizione causate dal conflitto. Per quanto ne sappiamo, nessun generale siriano, yemenita o saudita è sotto processo. Nessuno darà loro fastidio e proseguiranno la loro bella carriera dopo aver fatto passare dalla vita alla morte centinaia di migliaia di civili del loro stesso popolo. Bashar al-Assad, che ha fatto gasare la sua popolazione, è ancora libero, e nessuno lo ha portato davanti alla giustizia internazionale per aver liquidato migliaia di civili arabi e musulmani del suo paese. Ne ha il diritto, perché è proprietario del suo popolo? Ne ha il diritto perchè non è ebreo? E che dire dei curdi?

Questa settimana abbiamo visto un capo houthista eruttare contro Israele davanti al suo microfono. Questo triste signore si indignava per l’offensiva israeliana, proprio lui, il cui esercito ha partecipato a una guerra, che ha ucciso oltre 380.000 arabo-musulmani.

Non si tratta assolutamente di firmare un assegno in bianco all’esercito israeliano e di passare sotto silenzio gli abusi terrificanti che sta commettendo ma si constata che, guarda caso, ci sono civili uccisi durante alcuni conflitti che sono utili e altri che non lo sono. La vostra morte sotto le bombe servirà alla distruzione di Israele o no? Da ciò dipenderà il vostro posto nella storia?”

21 Aprile 2024




Petitions

Non solo il fascismo nostalgico ma i postfascismi multiformi

Si intensificano le petizioni, gli appelli, gli articoli e i saggi sul crescendo pericoloso di idee illiberali, totalitarie e in parte post fasciste (leggi anche “Fascismo, Neofascismo E Postfascismo”)un po’ dovunque nel mondo. Oltre al recente appello globale di AVAAZ proprio oggi un articolo di Libération (la stampa italiana ne parla poco e male) sulla censura e sulla prevaricazione del governo italiano rispetto alle voci di dissenso.

Adrien Naselli Libération. Traduzione Giuseppe Campagnoli

“Uno storico perseguitato da Giorgia Meloni: un caso gravissimo.
Per aver definito la presidente del Consiglio dei ministri italiano «neonazista nell’anima», Luciano Canfora è stato citato in giudizio martedì. La italica governante divide il paese e attacca tutti i contro-poteri, avverte un collettivo di un centinaio di intellettuali e giornalisti.

BOLOGNA, ITALY – JUNE 09: Italian historian and author Luciano Canfora attends the RepIdee Festival at Palazzo Re Enzo on June 07, 2019 in Bologna, Italy. (Photo by Roberto Serra – Iguana Press/Getty Images)

In un momento in cui le libertà accademiche sono minacciate in tutto il mondo, noi storici, filologi, filosofi, editori, giornalisti vorremmo allertare l’opinione pubblica su un caso estremamente grave.
Il 16 aprile si terrà a Bari un processo senza precedenti in Europa dal 1945. Lo storico Luciano Canfora, uno dei più grandi intellettuali italiani, viene attaccato per diffamazione, a 81 anni, da nient’altro che la leader del governo, Giorgia Meloni.
Ecco i fatti che gli vengono rimproverati: due anni fa, durante una conferenza in un liceo, Luciano Canfora ha definito Giorgia Meloni «neonazista nell’anima». Alludeva al fatto che il partito che dirigeva, Fratelli d’Italia, avesse le sue origini storiche nella «Repubblica di Salò» (1943-1945), una sorta di protettorato nazista governato da un Mussolini Gauleiter del III Reich, e che fece regnare nell’Italia settentrionale un regime di terrore che gli italiani chiamano comunemente «nazifascismo». Questa filiazione è incontestabile. E di fatto, Fratelli d’Italia sfoggia ancora la fiamma tricolore del Movimento Sociale Italiano (MSI), il cui nome riprendeva il titolo di Salò: Repubblica Sociale Italiana (RSI).
Il fondatore di questo partito, Giorgio Almirante (1914-1988), affermava ancora nel 1987 che il fascismo era «il fine ultimo» («il traguardo») del suo partito. Queste origini non sono mai state rinnegate da Giorgia Meloni, che recentemente celebrava Giorgio Almirante – redattore della rivista razzista e antisemita Difesa della Razza (1938-1943), poi capo di gabinetto di un ministro di Salò – come «un politico e un patriota, un grande uomo che non dimenticheremo mai », né del resto da nessuno dei membri del suo partito, a cominciare dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, che si vanta di avere a casa dei busti di Mussolini.

I veri intellettuali meloniani!

Tutti, sistematicamente, rifiutano di definirsi antifascisti: è come se in Francia un governo rifiutasse di rivendicare l’eredità della Resistenza. Da qui scene penose, come quella in cui Ignazio La Russa, in visita al Memoriale della Shoah in compagnia di una sopravvissuta dei campi, la senatrice Liliana Segre, risponde ai giornalisti che gli chiedevano se in quel giorno si sentisse «antifascista»: «Non sminuiamo queste occasioni.»
Giorgia Meloni non ha mai condannato le recenti manifestazioni neofasciste, in particolare quella che ha avuto luogo recentemente a Roma, Via Acca Larentia, né le violenze neofasciste come il pestaggio degli studenti delle scuole superiori a Firenze lo scorso anno, e si è persino concessa – che è la prima volta in Italia – di criticare il Presidente della Repubblica, il molto moderato Sergio Mattarella, perché, conformemente alle sue funzioni di custode della Costituzione, aveva protestato contro l’inaudita violenza con cui la polizia aveva represso le manifestazioni pacifiste degli studenti a Pisa e a Firenze.
Lontana dall’immagine moderata che proietta sulla scena internazionale, Giorgia Meloni sta, in realtà, mettendo l’Italia in una situazione di estrema illiberalità. Non nasconde assolutamente la sua intenzione di far evolvere l’Italia verso i modelli della Polonia di prima e dell’Ungheria. «Si pensa che sia inconcepibile, ma potrebbe accadere»,ha dichiarato all’inizio dell’anno Giuliano Amato, ex primo ministro e presidente emerito della Corte costituzionale. Poco dopo, e per caso, il Ministero della Giustizia annullava all’ultimo minuto una presentazione del suo ultimo libro davanti ai detenuti di una prigione… È che questa politica include una parte “culturale” che non risparmia nemmeno un cartone animato come Peppa Pig (un episodio mostrava un giovane orso polare cresciuto da una coppia di lesbiche). Si tratta, come afferma protervamente Gianmarco Mazzi, segretario di Stato alla Cultura, di «cambiare la narrazione del paese».
Tutti i contro-poteri di garanzia costituzionale possibili sono presi di mira: giudici, stampa non asservita,media pubblici, istituzioni culturali, animatori e star, giornalisti investigativi e, naturalmente, intellettuali. Una recente trasmissione ha registrato un numero impressionante di processi (e l’elenco non è esaustivo): il ministro dello Sviluppo economico, Adolfo Urso, attacca la Repubblica e Report; il ministro della Difesa Guido Crosetto attacca Il Giornale; il segretario di Stato Giovanbattista Fazzolari attacca Domani, la Stampa e Dagospia.
La sorella di Giorgia Meloni ad una festa di destra cita in giudizio un vignettista del Fatto Quotidiano.Le due sorelle si sono addirittura associate per perseguire ciascuna dalla propria parte Brian Molko, il cantante del gruppo britannico Placebo… Si apprende ora che il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni, persegue una professoressa di filosofia de La Sapienza, Donatella di Cesare, ma anche il rettore dell’università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari.

«Hanno la pelle delicata»,ironizza Pier Luigi Bersani politico di sinistra.
È in questo contesto che Giorgia Meloni ha fatto condannare il grande scrittore Roberto Saviano a 1.000 euro di danni in primo grado (ne chiedeva 75.000) per aver osato chiamare «bastardi»la Prima Ministra e il suo vice Primo ministro Matteo Salvini dopo la morte di un bambino su una nave di migranti: «Giorgia Meloni mi considera un nemico»,spiegava lo scrittore. La sua volontà e quella dei suoi associati al governo è di annientarmi. [… ]. Hanno portato in tribunale la parola, la critica politica. Hanno costretto i giudici a definire il perimetro in cui è possibile criticare il potere»,spiega a Libération Luciano Canfora, che gode di un’immensa notorietà nel suo paese e che è quindi il prossimo bersaglio. «Uno dei successi di Giorgia Meloni», faceva osservare Federico Fubini, del Corriere della Sera,«è che è riuscita a rendere quasi maleducato chiedergli cosa pensa del fascismo».Proprio questa maleducazione ha osato commettere lo studioso ellenista.
Siamo lontani dal condividere tutte le posizioni politiche di Luciano Canfora. Siamo solo più liberi di affermare il suo diritto assoluto di esprimerli. È il nostro dovere. Come così fortemente formula uno dei più grandi giuristi del secolo scorso, Oliver Wendell Holmes (1809-1894): «Se c’è un principio […] che esige più imperiosamente di ogni altro di essere rispettato, è il principio del libero pensiero – non la libertà di pensiero per coloro che sono d’accordo con te, ma la libertà per il pensiero che odi.» Freedom for the Thought That We Hate: questo è il titolo di un grande libro di Anthony Lewis. Diventa più che urgente tradurlo.
Tutte e tutti, martedì 16 aprile, saremo presenti anche virtualmente al tribunale di Bari, accanto al professor Luciano Canfora.
Vincent Azoulay EHESS Maurizio BettiniUniversità di Siena Philippe BorgeaudUniversità di Ginevra Johann ChapoutotUniversità della Sorbona Jean-Michel DavidUniversità Paris-I Panthéon-Sorbonne Georges Didi-HubermanEHESS Firenze Ponte UniversitÓ ParigiLuc Fournet Collège de France Renaud GagnéPembroke College, Cambridge Anthony Grafton Università di Princeton François HartogEHESS Paulin Ismard Università di Aix-Marseille Pierre Judet de la CombeEHESS André Università della Sorbona Claudia Maria Maria Maria AttilaJosé MondzainCNRS Dmitri NikulinNew School, New York Robin OsborneKing ’s College, Cambridge Vinciane Pirenne-Delforge Collegio di FranceGabriella PirontiEPHE Adriano Prosperi Scuola Superiore di Pisa Marwan Randa Unità della Sorbona Aldo Schiavone, Roma Claudine Tiercelin Collegio di Francia Pierre VesperiniCNRS Patrick Weil CNRS…


L’elenco completo dei firmatari
oltre 900 personalità del mondo della cultura, della stampa, dell’arte..

(da oggi anche il sottoscritto)

LUCIANO CANFORA: «SONO PROFONDAMENTE GRATO PER QUESTA ONDATA DI SOSTEGNO»
L’INTELLETTUALE COMUNISTA ITALIANO, ACCUSATO DI DIFFAMAZIONE DA GIORGIA MELONI, SPIEGA CHE SI SENTE «MOLTO TRANQUILLO».
di ADRIEN NASELLI
«Un caso estremamente grave»,giudica in una petizione un collettivo di un centinaio di accademici europei, affiancati da decine di colleghi ogni giorno. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, un capo di governo cita in giudizio un accademico. E non una cosa qualsiasi: Giorgia Meloni affronta Luciano Canfora, 81 anni, illustre filologo classico (studio delle lingue e della letteratura greca e latina) riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo, comunista rivendicato. Pubblicati in francese, i suoi lavori più noti analizzano la democrazia e il potere, attingendo all’antichità materia per illuminare il tempo presente (l’Impostura democratica: dal processo di Socrate all’elezione di G. W. Bush, Flammarion, 2003;la democrazia: storia di un’ideologia, Seuil, 2006;la Natura del potere, le Belle Lettere, 2010).
Nel 2022 Canfora interveniva in un liceo della sua città natale in Puglia e qualificava la presidente del Consiglio dei ministri come «neonazista nell’anima». Meloni, che non era ancora in carica, aveva minacciato di portarlo davanti alla giustizia, cosa che alla fine ha fatto. Ma questo processo di diffamazione non spaventa lo storico.
Qual è il suo stato d’animo alla vigilia del processo intentato da Giorgia Meloni?
Essendo convinto della legittimità della mia ipotesi sulla «psicologia delle profondità» della mia denunciante, sono abbastanza tranquillo, pur essendo stupito dell’azione giudiziaria che ha intrapreso. Sono profondamente grato per l’ondata di sostegno che si manifesta in tutta Europa. Me ne rallegro: ci sono ancora persone di spirito!
Qual è lo sguardo dello storico della democrazia che siete su questo attacco contro un ricercatore, inedito dal 1945?
In qualità di ricercatore da sempre interessato alla storia della democrazia in Europa, ho constatato più volte che l’intolleranza si manifesta soprattutto in un clima di guerra. Un archetipo nella storia occidentale: penso a Cleone, demagogo ateniese, contro Aristofane, autore drammatico nel bel mezzo della guerra del Peloponneso nel V secolo a.C. Certo, è spesso il caso quando il potere tratta gli intellettuali come nemici: È il caso di Bismarck, cancelliere imperiale di Germania, contro lo storico Theodor Mommsen nel 1882. Condannato alla prigione, abbandonò il suo posto di deputato.
In che misura i suoi impegni comunisti l’hanno resa un bersaglio privilegiato del Primo Ministro?
Dal 1998 la stampa di destra ama attaccarmi a causa della mia candidatura sulle liste di un partito che si chiamava comunisti italiani. Questa tendenza leggermente maniacale alla polarizzazione mi ha sempre divertito. Si tratta di un fenomeno interessante. È la dimostrazione del fatto che le categorie politiche operano su due livelli: il livello biografico immediato, «puntuale», contingente, e il livello metaforico, riguardante le grandi correnti del pensiero molto più durature dei partiti politici. Nel nostro caso, questo permette di attaccare sia individui che interi gruppi.
Nella stampa francese, in particolare, il partito di Meloni è definito «post-fascista». Perché non attacca anche coloro che la impiegano?
La mia ipotesi è che l’estrema destra italiana, fin dal suo inizio alla fine del 1946 (nascita del Movimento Sociale Italiano, fondato da Giorgio Almirante, ex funzionario della Repubblica filo-nazista di Salo), cerchi di cancellare il legame profondo che esisteva tra la Repubblica di Salò (Repubblica Sociale Italiana) e i suoi protettori hitleriani, da qui l’intolleranza che si manifesta quando qualcuno sottolinea questo legame indelebile. La Repubblica Sociale Italiana è esistita grazie al sostegno degli eserciti nazisti che occupano l’Italia del Nord dal settembre 1943 alla fine dell’aprile 1945. Era dunque uno «Stato-satellite» del III secolo sia nella pratica, con la persecuzione degli ebrei, sia nel preteso «socialismo nazionale». E il Movimento sociale italiano, partito di nascita di Giorgia Meloni mantenuto nelle idee nelle successive varianti (Alleanza Nazionale e Fratelli d’Italia) si ricollega, nel suo nome come nei suoi programmi ma anche nelle persone stesse dei suoi dirigenti, proprio a questa «Repubblica Sociale».”




Ma questo è un bel manifesto!

« Ma questo è un bel manifesto »Ha esclamato un’amica qualche tempo fa  leggendo questi appunti di un nostro collaboratore pensati per avviare la società ad un futuro vicino all’equità, alla libertà ed alla fratellanza tra gli uomini. Come sostenevano tanti pensatori in epoche diverse,   tutti i mali sono venuti dal possesso e dalla esclusione  ed è per questo che è proprio l’economia a fare la differenza tra uno stato di sfruttamento, di povertà e ricchezza contrapposte ed uno stato di libertà. Nella nostra Italia martoriata da tempo, giusto fin dalla sua “non-unità” una delle caratteristiche più eclatanti è che siamo da tanto un paese  povero e allo stremo, con servizi collettivi al collasso mentre tanti cittadini sono più meno ricchi e accumulatori di beni e patrimoni. Non vi fa venire in mente qualcosa di lapalissiano questa constatazione?

« Il fondamento della vita in comune è l’educazione ed è tempo di una vera e propria rivoluzione in campo educativo: educazione incidentale, libera, senza muri e orari, senza competizione, forte e aperta a tutti i saperi, senza discriminazioni e separazioni di sorta e rivolta in parallelo a tutte le età. 

Il fondamento dell’equità è la lotta allo sfruttamento e alle diseguaglianze che generano ricchezze e povertà. Occorre ridurre queste disuguaglianze agendo sulla forbice tra redditi e ricchezza personale o collettiva  con un tassazione che riduca gradualmente e sensibilmente la differenza tra redditi e patrimoni minimi e massimi. Qualsiasi profitto serve a garantire una vita dignitosa e deve essere per forza reinvestito per la ricerca, il sociale e ridurre la dipendenza della vita dal lavoro.Sarebbe auspicabile arrivare gradualmente a concepire produzione e lavoro (finché sopravviverà) in forma di cooperazione pura, eliminando a piccoli passi ma decisi padroni e sottomessi, imprenditori e impresi, soprintendenti  e dipendenti. Le pratiche eccellenti di gestione collettiva di attività più o meno grandi si stanno dimostrando più efficienti, efficaci, eque ed ecologiche perfino nei paesi inventori del capitale. 

-Le libertà ed i diritti civili conquistati con tante lotte e sacrifici nei secoli sono intoccabili e vanno ampliati (aborto, divorzio, unioni civili, concetto obsoleto di famiglia, lotta alle discriminazioni sessuali, di religione, di provenienza geografica…) 

-Nazioni, patria e  frontiere sono concetti di altri tempi e dei tempi delle guerre. La solidarietà  collettiva e individuale tra umani e soprattutto  verso le persone vittime di guerre, fame, carestie e danni provocati direttamente o indirettamente da colonizzazioni, predazioni multinazionali e mercanti e impresari di paesi diventati ricchi sulle spalle del terzo mondo è una legge di civiltà per tutti, in Italia, in Europa, nel mondo.

-La gratuità e l’accesso totale alle cure  di qualità  per tutti in qualsiasi situazione personale, geografica  e anagrafica sono diritti fondamentali. Occorre sottrarre al mercato la salute e la medicina.

-Occorre togliere gradualmente al mercato  ed alla speculazione anche altri beni e servizi fondamentali e vitali come agricoltura, cibo, acqua, casa, educazione, ambiente, trasporti…

-E’ fondamentale, in attesa della liberazione dalla schiavitù del lavoro, l’ istituzione di un reddito minimo (e di un limite anche massimo per equità)  e di un reddito universale per chi è realmente  impossibilitato o alla ricerca guidata di un lavoro congruo, con fondi tratti dalla tassazione e dalla riduzione di redditi e patrimoni che eccedono la regola equa (e implicitamente scritta per chi sapesse leggere e comprendere anche in Costituzione negli articoli sul lavoro e l’impresa)

-È essenziale la tutela globale dell’ambiente naturale e di tutti gli esseri viventi e auspicabile la graduale abolizione di allevamenti intensivi per il mercato dell’ iperproduzione.

-La religione è un fatto personale. La società  e lo Stato sono laici. 

Et coetera…

È ora di farla finita di agire solo sugli effetti di cause da tempo note e radicate  e di cui si conoscono bene i colpevoli e anche i rimedi. È ora altresì di chiudere con la repressione indiscriminata ,con la violenza mascherata da difesa o la creazione di ghetti urbani e insulae privilegiate. A livello locale, che dovrebbe essere il livello  privilegiato per una gestione della vita collettiva fondata sull’equità, la fraternità e la vera libertà, oltre che il rispetto dell’ambiente, si assiste invece alle guerre tra bande delle destre retrive e violente contro le finte sinistre élitarie, con in mezzo le lobbies mascherate di una pletora di talune « liste civiche » (per fortuna non tutte) che spesso di civile e di libertario hanno poco o nulla, tutte protese, attraverso programmi di poche righe, superficiali e generici, verso la tutela di celati interessi personali o corporativi, autoreferenziali e di poca o nulla valenza collettiva.

I cittadini infatti dovrebbero essere portati a prendere una quantità maggiore di decisioni in ambienti nei quali prima abbiano validi incentivi ad educarsi e a diventare bene informati. Occorre seriamente pensare ad una limitazione drastica dei poteri pubblici e privati nazionali ed internazionali in favore di un decentramento e diffusione capillari dei poteri, quasi fino ad una virtuosa accezione anarchica organizzata. In una fase transitoria anche di lungo termine una sorta rieducazione  diffusa e il progressivo moltiplicarsi della partecipazione alle decisioni sono obbiettivi da perseguire se si vuole salvare per ora la stessa democrazia (che in via provvisoria sarebbe il minimo per una certa libertà) dalle logiche plebiscitarie e populiste, dall’oclocrazia o da un crescente astensionismo dalla vita civile e sociale.




I podcasts di ReseArt

È iniziata la produzione di una serie di podcasts dedicati all’architettura ed all’educazione diffusa a cura della redazione di ReseArt. Troverete i primi episodi nell’apposita pagina:




I tabù dell’educazione

Una recensione di Stefania Squadroni 

“Per una pedagogia della rabbia così com’è. 

I tabù dell’educazione di Paolo Mottana è un libro pungolatore, denudante e in lotta con tutte le nostre ipocrisie. Non aspettatevi carezze, né baci e abbracci, ma tanti schiaffi. Ricevere schiaffi è il destino dell’uomo, è il destino dell’educatore.

Il fine del libro, credo, sia quello di risvegliare, si è infatti soliti dare piccoli colpetti in faccia all’uomo svenuto. Prima ancora di leggerlo sapevo che sarei stata colpita dalle parole in esso contenute, infatti ho avuto il coraggio di aprirlo molti mesi dopo averlo acquistato, ma questa per me è una regola che vale per tutti i libri dell’autore. 

Questo libro dovrebbe rientrare nel novero dei testi obbligatori per chi desidera svolgere la professione di educatore, e cestinarne altri (uno a caso “la storia delle Barbie”). Le parole devono suscitare emozioni e pensieri tra loro sempre contrastanti (mantenere il molteplice nell’unità), le parole interpretano, smontano, creano e trasformano i pensieri e le immagini. Ma veniamo al dunque. 

Sono tre i tabù di cui subisco il fascino: Eros, violenza, morte.

Questi tre tabù condividono molte emozioni tra le quali primeggia la rabbia, almeno per me, e forse anche per gli adolescenti. 

Il mio sguardo ora va a loro, a tutti quei ragazzi che hanno trascorso un po’ della loro vita con me. Penso alla scuola, ma soprattutto ai reparti psichiatrici. La rabbia è pane quotidiano, sia a scuola che in comunità. La rabbia è pane quotidiano anche nella mia vita.

“Perché elaborare l’aggressività non è probabilmente o principalmente neutralizzarla a forza di buoni sentimenti, esercizi di intelligenza emotiva, ma assumerla nella sua specificità, riconoscerla come una pulsione degna di considerazione, di dignità e di una peculiare e non allopatica elaborazione. L’aggressività si educa anche con l’aggressività, la violenza cieca con una violenza vigile, la forza con una disciplina della forza e della difesa”. Questa parte incarna quanto ho spontaneamente praticato in questi ultimi dieci anni di lavoro educativo con costanti sensi di colpa, continue incertezze e critiche. Sarà per un tratto costituzionale, culturale, educativo…ma nel lavoro e nella vita non posso fare a meno della mia rabbia, che a volte si è dimostrata un vero salvavita. I ragazzi questo me lo leggono negli occhi, come io leggo la rabbia nei loro occhi e ci riconosciamo. Non ho mai avuto paura delle infinite aggressioni fisiche e verbali subite, alle quali ho sempre reagito con altrettanta forza. 

Ogni volta che ho cercato di “gestire” la mia e l’altrui rabbia ho sempre fallito (il controllo delle pulsioni per mano di un agente esterno è sempre castrante e trasforma tutto in perversione). Nemmeno i farmaci ci riescono…provare o vedere per credere. Vuoi rompere tutto?Per me lo puoi fare. Posso insegnarti a fare la guerra? Non credo, la guerra è già dentro di te, potrai però conoscere il limite che incontrerai a causa dell’attrito sulla massa, il mondo esterno, la strada (l’asfalto offre maggiore attrito), sarà questo limite che ti trasformerà, forse, e non sappiamo se in bene o in male. 

Posso assicurarvi che non è scontato non avere paura della rabbia (propria e altrui) che si manifesta a noi così nuda e cruda con tutta la sua ferocia e non c’è Buddha che possa contenerla, perché la rabbia (così come la guerra) è incontenibile e ineducabile, se si sceglie di agirla la si deve trattare per quello che è, senza mezzi termini o imbellettamenti. 

Quindi che fare? Niente, sperare che l’impatto con i limiti interni ed esterni non sia troppo doloroso, perché se per un attimo dimentichiamo, per un delirio di onnipotenza, che la vita è nera sarà lei a ricordarcelo. 

Sono altre le manifestazioni di violenza che mi spaventano, quelle che non si palesano, “le violenze invisibili”, agli occhi poco allenati…perché è questo il vero esercizio educativo, rendere l’occhio esperto per cogliere l’essenza delle cose (il seme quando è ancora in potenza). Le donne dovrebbero maggiormente esercitarsi in questa arte, perché è sotto gli occhi di tutti la nostra incapacità di non saper prevedere l’ovvietà di certi decorsi. 

Ci si chiede se queste guerre invisibili non siano il risultato di un’educazione castrante e oscurantista, guerre abbellite da un’educazione ipocritamente pacifista, ma forse, ed è questa la mia riflessione, anche da un’educazione alla guerra giusta, una guerra sublimata in senso costruttivo, positivo, che si trasforma in una guerra sotto traccia. L’arte di fare la guerra cerca di arginare un fiume in piena, così come l’arte dell’amore cerca di addomesticare il desiderio (è impossibile catturare una stella), con conseguenze spesso disastrose. Perfettamente congruente con la società dell’immagine che ci vuole sempre belli e con il sorriso, è l’apprendimento di nuove modalità per fare la guerra. La rabbia non fa parte di queste nuove strategie, nemmeno l’invidia, la gelosia, l’avidità, il potere…o almeno in apparenza, perché queste non si mostrano per quelle che sono, perché sono appunto sublimate,celate (troppo brutte da mostrare). Sembra di vivere in una società dove trionfa l’io, un io che non  lascia spazio all’inconscio che, montandosi dal basso, deve essere anestetizzato con urgenza. L’essere di una cosa non deve necessariamente esistere, ma se deve esistere lo faccia senza maschere. 

Questo libro è come un grande specchio rivolto verso il suo pubblico, coglie l’universalità catturando l’immagine tragica dell’essere umano, permette di osservarsi a una certa distanza, alleggerendo il dolore…è in fin dei conti un libro magnanimo.”

Il libro.

I tabù sembrano materia vetusta, eppure esiste una provincia del sapere e delle pratiche estremamente delicata e sensibile che ne è ancora afflitta gravemente. Questa provincia è quella dell’educazione (soprattutto italiana, ma non solo) e della pedagogia. Tutta la popolazione incappa nei tabù, ma soprattuto quella fetta che tutt’oggi ne incontra necessariamente un uso istituzionalizzato, ovvero i bambini e i ragazzi. In questo libro, con piglio controeducativo, se ne propone un elenco e un tentativo di elaborazione, senza farsi mancare il sale e il pepe d’autore, già da tempo impegnato a fare il contropelo a una cultura che, ancora capitanata in buona sostanza da monsignor Della Casa e tata Lucia, appare tra le più arretrate e muffose. Qui vengono dunque passati a fil di spada i tabù che concernono il sacro materno, il sesso dei bambini, la morte, il fallimento, quel curioso costrutto micidiale definito scuola, il piacere, l’ozio e diversi altri che ancora incutono tremori nel tapino volgo pedagogico.




L’EUROPA MERITOCRATICA

“La  storia ha  inizio più di dieci anni fa al termine di un percorso di studi secondario. La passione e il risultato ottimo della maturità, oltre ad alcune sofferte economie  familiari non supportate da agevolazioni del diritto allo studio riservate a chi evadendo tasse e rubando a man bassa dichiara meno dei dipendenti pubblici o privati, spinge il nostro protagonista ad intraprendere gli studi coerenti con il liceo appena frequentato.

Superate, bene o male, le prove di ammissione in due atenei,  sceglie l’università italiana sede di una prestigiosa scuola specialistica di tipo umanistico e tecnico e quindi   inizia così l’anno accademico insieme ad un immeritato calvario. Gran parte della preparazione viene lasciata all’iniziativa del singolo studente che deve barcamenarsi attraverso indicazioni generiche, riferimenti confusi, pochi interventi correttivi e di vero insegnamento proprio come l’università di quasi mezzo secolo fa, insieme ad una competitività parossistica e feroce alimentata a volte sotto traccia dagli stessi docenti.

Il percorso triennale termina con il massimo dei voti. Dopo una ulteriore preparazione estiva “matta e disperata”, tesa a colmare la carente preparazione propedeutica al percorso magistrale della stessa università, sostiene l’esame di ammissione per il biennio specialistico. Nello stesso periodo, solo in base all’esame approfondito e certificato del suo curriculum e non in una specie di test breve e dominato dal caso e dal tempo, viene ammesso anche ad una prestigiosa scuola dello stesso tipo in un altro paese europeo. La scelta deve però cadere giocoforza sull’Italia, per ovvi motivi economici. Da qui ricomincia un percorso ancora peggiore di quello del triennio, per la feroce competitività e per una sorta di crescente inadeguatezza pedagogica e didattica. Un percorso ad ostacoli indegno di un paese civile dove la scuola e l’università dovrebbero lasciare indietro meno studenti possibile se fossero pedagogicamente e didatticamente all’altezza del loro compito istituzionale. Dopo una parentesi proficua di studio e lavoro all’estero  termina il corso biennale magistrale notando con un po’ di rammarico (forte dello studio rigoroso, delle valutazioni e degli elogi ricevuti all’estero) come in patria non sia stato proprio un profeta nel finire inopinatamente al disotto delle aspettative “metriche” e anche con un immeritato antipatico strascico personale. Consolerebbe solo il fatto che il giudizio dell’Università sia stato poi smentito da una esperienza sul campo all’estero in un organismo di fama internazionale nonostante degli imprevisti ed improvvisi ostacoli sopraggiunti abbiano in seguito portato ad escludere con estremo rammarico proprio il percorso di professionista. Da allora, non avendo potuto contare su un realmente efficace servizio di orientamento, il nostro eroe è alla disperata ricerca di un lavoro all’altezza del curriculum, delle capacità e delle aspirazioni sperando di non dover essere costretti a penosi e umilianti ripieghi come ahinoi, sta già avvenendo, a dispetto dei trionfalistici dati della propaganda nella sua. Manda centinaia di CV in tutta Europa e nel mondo dove pare che i “neofiti” debbano avere almeno un quinquennio di esperienza altrimenti cestinano subito le tue candidature. Riceve una unica risposta positiva e interessata da un direttore di ricerca per un dottorato alla Sorbonne cui forse non si potrà neppure candidare per mancanza di una borsa di studio con la quale potersi mantenere visto che gli sponsors familiari avevano finito le riserve e che per svolgere un’attività accademica così impegnativa occorreva il tempo pieno.

La storia non finisce ancora e subisce una certa evoluzione. In concomitanza con un incarico di insegnamento in scuole statali all’estero il nostro eroe vince una borsa per un dottorato di ricerca, incentrato su un personaggio letterario di fama mondiale in letteratura, presso una Università italiana.

Il dottorato diventa una  cotutela con una prestigiosa università di una capitale europea, dove nel frattempo si impegna anche nei famigerati e impossibili (tanti autori famosi lo hanno tentato più volte senza esito) concorsi per l’insegnamento (italianizzando:l’Aggregazione o il Capes-(tro) Il dottorato si sviluppa per 4 anni in parallelo con l’ingresso nella comunità internazionale dei ricercatori e critici dell’opera di un  famosissimo letterato, partecipando anche come relatore a diversi seminari, convegni ed eventi di un certo prestigio. Terminato il percorso ottiene il doppio diploma di dottore di ricerca, rilasciato dall’università italiana e da quella partner, con lode  e  nel frattempo vince anche entrambi i concorsi come docente nelle scuole secondarie italiane dove avvia, in attesa di sviluppi accademici, l’attività di insegnamento da fuori sede, depredato della metà dello stipendio dai ladroni del  mercato immobiliare ormai abbandonato alla speculazione selvaggia e viziato dalla caccia al profitto turistico. Proseguono le attività di saggistica e di intervento nei convegni dedicati allo scrittore di cui è diventato de facto esperto. Gli viene dato anche un incarico di prestazione autonoma da una università italiana naturalmente di corsa e sottopagato mentre viene contattato anche per una possibilità di lavoro di ricerca in una università tedesca ed in una italiana sempre nel suo campo disciplinare con tante incertezze e precarietà, comunque con emolumenti nettamente insufficienti per vivere.Ultima perla,un assegno di ricerca di un anno,anch’ esso sotto pagato che accetta nella speranza (ultima e improbabile dea) di una carriera accademica che nei fatti « meriterebbe ». Comunque sia con una sorta di incredulo sgomento deve constatare che dopo la bellezza di 13 anni dall’avvio del percorso universitario resiste ancora una fortissima precarietà, soprattutto nel percorso universitario auspicato, dove vige ancora la baronia, la raccomandazione, gli sponsors e tanto altro con l’unica rara eccezione di qualche mentore che ancora resiste ma ha pochissimo potere e spesso deve adattarsi giocoforza al clima clientelare che vige nell’ambiente. Anche l’establishment accademico sia esso italiano che europeo soffre degli stessi malanni.

La meritocrazia e i suoi inganni resistono ancora coniugati con l’iniquità delle dispari opportunità, della competizione sfrenata e disonesta, delle sponsorizzazioni ad usum delphini, delle cattiverie gratuite.Si è precari o sotto occupati ad libitum. Chi è fortunato e sponsorizzto si sistema non prima dei quarant’anni.Non si va avanti senza la scrittura parossistica di articoli su articoli purché sia, sottoponendosi a revisioni con esiti spesso contraddittori se non opposti nei giudizi. Gli interventi, spesso apprezzati a convegni anche prestigiosi e internazionali in genere sono gratis et amore dei con rari rimborsi spese a meno che non si sia un “luminare” non sempre conclamato dell’argomento con il criterio ormai miseramente assodato della pioggia sul bagnato e di quel successo di cui ben scrisse Victor Hugo nei suoi Miserabili. E pensare che si chiacchiera ancora di merito, di talento o di fughe di cervelli (anche queste diventate difficili, per lo meno in Europa). Il falso mito della meritocrazia è dimostrato anche da tanti racconti come questo che purtroppo sono all’ordine del giorno anche in altri campi di studio, perfino in quelli scientifici che sono ancora di moda solo perché assai appetiti dal capitalismo industriale e tecnologico. Per pudore non addentriamoci su quello che è il mondo del lavoro pubblico e privato dove il merito è strumento di potere, di ricatto, di esclusione, di iniquità, di nepotismo ed impari opportunità.  

Cosa dovrebbero fare i giovani in scenari rivoltanti come questi? Con chi prendersela per avere un po’ di soddisfazione? Perché i media e la politica non preparano un bel dossier degli infiniti casi come questo che sono le perle testimoni di quanto la miseranda meritocrazia sia l’ennesimo regime trasversale e diffuso da destra ahimè fino alla sedicente “sinistra” che continua a blaterare a vanvera di equità sociale.Viene da piangere o da combattere con tutte le forze.

PS: L’Odissea per un futuro finora ha toccato Trieste, Saarbrucken, Brussels, Parigi, Urbino, Caen, Rimini,Cagliari,Fidenza,Aosta..

La Redazione di ReseArt

Febbraio 2024




Da Rousseau a…

Tra postmarxismo,mutuo appoggio e svuotamento “da dentro” del capitalismo.

A partire da Rousseau per arrivare ad una realtà futuribile di equità sociale vi può essere una fase transitoria tesa a smantellare gradualmente -attraverso la contribuzione e la regolamentazione del profitto e del possesso, forme di reddito universale d’emergenza, la cooperazione vera al posto dell’impresa mono o oligarchica, il capitalismo dello sfruttamento e della globale disuguaglianza dogmatica.

“ Le premier qui, ayant enclos un terrain, s’avisa de dire : Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guerres, de meurtres, que de misères et d’horreurs n’eût point épargnés au genre humain celui qui, arrachant les pieux ou comblant le fossé, eût crié à ses semblables : Gardez-vous d’écouter cet imposteur ; vous êtes perdus, si vous oubliez que les fruits sont à tous, et que la terre n’est à personne. Mais il y a grande apparence, qu’alors les choses en étaient déjà venues au point de ne pouvoir plus durer comme elles étaient ; car cette idée de propriété, dépendant de beaucoup d’idées antérieures qui n’ont pu naître que successivement, ne se forma pas tout d’un coup dans l’esprit humain. Il fallut faire bien des progrès, acquérir bien de l’industrie et des lumières, les transmettre et les augmenter d’âge en âge, avant que d’arriver à ce dernier terme de l’état de nature. Reprenons donc les choses de plus haut et tâchons de rassembler sous un seul point de vue cette lente succession d’événements et de connaissances, dans leur ordre le plus naturel.”

“Il primo che, avendo recintato un terreno, si preoccupò di dire: questo è mio, e trovò gente abbastanza semplice da crederci, fu il vero fondatore della società civile. Quanti crimini, guerre, omicidi, miserie e orrori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pali o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno. Ma c’è una grande evidenza: allora le cose erano già arrivate al punto di non poter più durare come erano. Questa idea di proprietà, dipendente da molte idee precedenti che non hanno potuto nascere che successivamente, non si formò improvvisamente nella mente umana. Fu necessario fare molti progressi, trasmetterli e aumentarli di età in età, prima di arrivare a quest’ultimo termine dello stato della natura. Riprendiamo dunque le cose dall’inizio e cerchiamo di riunire sotto un solo punto di vista questa lenta successione di eventi e di conoscenze, nel loro ordine più naturale.”

« Il ne doit y avoir, ni chez quelques-uns des citoyens une intolérable pauvreté ni chez d’autres une grande richesse, attendu que cette double cause produit ce double effet [désunion et sédition]. »

“Non ci deve essere, né in alcuni dei cittadini, una povertà intollerabile né in altri una grande ricchezza, poiché questa doppia causa produce un duplice effetto di disunione e sedizione.”

PLATON Les Lois

Da OpenEdition journals

Traduzione di Giuseppe Campagnoli

Il libro è un saggio sulla giustificazione di un massimale dei redditi. La tesi sostenuta è che il reddito più alto non dovrebbe essere più di 12 volte superiore al più basso nella società.

A tal fine, gli autori hanno mobilitato numerose opere e teorie economiche dalle quali estraggono gli elementi utili alla loro dimostrazione. Leggendo il fattore 12, si ha diritto ad un’ottima rassegna di letteratura economica. La presentazione, spesso molto chiara e suggestiva, sarà apprezzata dai neofiti.

Tuttavia, gli elementi teorici a volte si accumulano e trascurano l’idea guida iniziale, a volte costringe il lettore a ritrovare da solo il filo dell’argomentazione. Si avranno così numerosi passaggi sul funzionamento della finanza, sulla crisi finanziaria, sulla crisi ecologica o sulla deglobalizzazione. Queste deviazioni rimangono sempre istruttive se ci si lascia prendere. Cosa si trova in questo vasto giro d’orizzonte che propongono Gaël Giraud e Cécile Renouard?

In primo luogo, c’è una critica al livello dei salari più alti con una contestazione della loro efficacia economica. C’è un divario tra retribuzione e valore reale del lavoratore. I consigli di amministrazione che fissano gli stipendi degli amministratori delegati (proprio come i mercati finanziari) funzionano in gran parte con la convinzione e una relativa opacità: se si crede che i dirigenti abbiano qualità eccezionali e meritino di essere pagati profumatamente, diventa una profezia che si auto-realizza nelle pratiche retributive. È la stessa cosa nel mondo del calcio: un calciatore produce 1000 volte più valore aggiunto di un idraulico?

Il mercato dei dirigenti è peraltro un mercato chiuso in cui la concorrenza è debole. Invocare la legge del mercato come principio per la fissazione delle remunerazioni richiederebbe innanzitutto la reintroduzione della concorrenza in questo mercato molto imperfetto rispetto ai canoni liberali.

Un’elevata remunerazione avrebbe anche lo scopo di garantire che i manager siano in linea con gli azionisti, ma è impossibile entrare nella testa di un manager e le sue decisioni potrebbero rivelarsi non ottimali per lo sviluppo e la sostenibilità a lungo termine dell’azienda.

In secondo luogo, vi è una giustificazione per aumentare i salari più bassi. Gli autori mostrano che i paesi emergenti sono sempre più autosufficienti e che il loro arricchimento non andrà a beneficio delle esportazioni europee in futuro. Pertanto, è giunto il momento di rivalutare la domanda interna europea come motore di crescita. Sarebbe possibile anche una ridistribuzione tramite le amministrazioni pubbliche.

In terzo luogo, i più ricchi sono i detentori di titoli del debito pubblico. È giunto il momento di imporre loro di più dopo averli trasformati in prescrittori della gestione degli Stati. Gli autori si battono anche affinché le banche centrali possano nuovamente concedere prestiti agli stati per prosciugare il reddito generato dal possesso di titoli di stato. I fondamentali economici dell’Unione Europea devono essere rivisti.

Gli autori fanno una piccola deviazione piuttosto stimolante. Secondo loro, il rimborso dei prestiti è compromesso dalla minore produttività del sistema produttivo. Finora la produttività si è basata sul progresso tecnico e sulla quantità sempre crescente di energia mobilitata. Tuttavia, con la crescente rarità dei combustibili fossili, questa produttività non sarà più in grado di decollare come durante i Trenta Anni Gloriosi. È quindi urgente passare a una produzione senza emissioni di carbonio, istituendo barriere doganali ecologiche e aumentando i salari europei per sviluppare un nuovo modello di crescita.

In quarto luogo, dobbiamo limitare il reddito dei più ricchi perché hanno uno stile di vita che ha un forte impatto sull’ambiente (emissioni di carbonio e impronta ecologica). Con una parte significativa del resto della società che cerca di emulare questo stile di vita, c’è un urgente bisogno di agire in nome dello sviluppo sostenibile.

In quinto luogo, la limitazione del divario salariale ha una relazione con la felicità e il benessere nella società. Ciò ridurrebbe la frustrazione e l’invidia. Oggi avere un reddito elevato consente l’accesso a dimensioni diverse dal semplice consumo di mercato: il successo scolastico, l’accesso all’arte e ai viaggi e genera logiche di accumulazione. Questo primo aspetto deve essere ridotto e devono essere sviluppate altre modalità di accesso in modo che possano avvantaggiare un numero più ampio di individui.

Infine, gli autori presentano le modalità pratiche di applicazione di questo fattore 12 alla società. In un periodo in cui i divari si allargano, la tesi di limitare il divario reddituale è ardita e assume tutto il suo significato. Il libro è abbondante e mostra una versione del pensiero critico contemporaneo in economia.

La stessa idea andrebbe applicata ovviamente anche alle rendite e ai patrimoni.

La proprietà esisterebbe ancora equamente per i bisogni minimi primari del cibo, dell’abitare, della mobilità, della salute, dello studio.. e pure del diritto al tempo libero e allo svago anche conseguentemente ai limiti posti in basso e in alto a redditi e patrimoni.

Giuseppe Campagnoli Gennaio 2024




Napoleon: l’ultima sconfitta.

Cyprien Caddeo l’Humanité

24 Novembre 2023

“Poteva essere quasi una garanzia. Affidare a un britannico il compito di realizzare il film biografico su Bonaparte era rassicurante: Ridley Scott non poteva realizzare sicuramente un’agiografia dell’imperatore francese. A 85 anni, il vecchio “Rid” affronta la montagna di Napoleone, con l’intenzione dichiarata, almeno in fase di promozione, di farla finita con il suo mito glorificato. Il generale corso (di origini toscane ndr) interpretato da Joaquin Phoenix non è certo l’eroe di un romanzo nazionale. Bambino capriccioso e pieno di arroganza, cocco di mamma, malato geloso, estraneo al valore della vita umana, goffo golpista salvato dalle armi, Napoleone è tutto questo in Scott. Come un bambino che ha fatto durare un po’ troppo il suo gioco di soldatini, spargendo le sue figurine sulla mappa di un’Europa messa a ferro e fuoco.

Viene la tentazione di riconoscere in questo Napoleone un lontano cugino di David, l’androide genocida di “Alien: Covenant”, recente opera di Ridley Scott caratterizzata dalla stessa fascinazione-repulsione per la figura del male. L’idea sarebbe affascinante se non fosse affogata in un film destinato al fallimento, soprattutto quando intende abbracciare l’intera vita dell’imperatore. Un’impresa titanica su cui lo stesso Stanley Kubrick si spezzò negli anni ’70, mentre ci vollero quasi cinque ore di pellicola per sintetizzarla, nel 1927, al francese Abel Gance. La versione trasmessa nelle sale dal 22 novembre, della durata di 2 ore e 40 minuti, non è il montaggio finale voluto da Ridley Scott, che dura più di 4 ore e uscirà successivamente, esclusivamente sulla piattaforma Apple TV+.

Un successo solo hollywoodiano

Anche la versione cinematografica dà la sgradevole sensazione di rientrare nelle aspettative napoleoniche. In pochi minuti le campagne d’Egitto e di Russia sono finite, e l’esilio all’Elba è appena accennato. Ridley Scott, tuttavia, si concede alcuni sbalzi piuttosto angoscianti quando dipinge una folla rivoluzionaria e un Robespierre che muore in modo assai caricaturale in una sequenza del tutto superflua per la trama.Dopo la visione, ci chiediamo cosa intendesse davvero raccontare Ridley Scott oggi, nel 2023 con il suo “Napoleone”. Forse il regista britannico, come il suo soggetto, ha ceduto alla sua arroganza, alla prospettiva di orchestrare grandiose sparate. Il film ruota principalmente attorno a due momenti salienti, le battaglie di Austerlitz e poi di Waterloo, dove il regista dimostra di avere ancora qualcosa da insegnare.

“Napoleon” rimane un blockbuster furiosamente hollywoodiano, che costituisce l’altro suo limite, come questa insistenza sulla storia d’amore tossica con Joséphine de Beauharnais. La loro storia d’amore è descritta come la quasi unica forza trainante della sua azione, la materializzazione delle sue manie di grandezza. Napoleone quindi non è mai veramente razionale, mai politico. Non governa, è solo il desiderio di conquistare, guidato dalla fede nel proprio destino. Troppo hollywoodiano per i suoi detrattori e troppo mostruoso per i suoi elogiatori, il Bonaparte di Scott fluttua tra i ricordi. La versione lunga forse correggerà la situazione. Nel frattempo, Ridley Scott si unisce al grande esercito di coloro che non sono riusciti a conquistare Napoleone.”

ReseArt 2023




Le religioni abramitiche. Fondamenti di iniquità?

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Nella eterna diatriba su che cosa sia di sinistra o di destra, liberista o liberale o meglio ancora fondato su libertà di pensiero ed equità sociale proviamo a declinare e classificare in termini di equità e giustizia i precetti delle tre religioni che oggi dominano su molte idee e anche. ahimè, su molti fatti della vita quotidiana, della storia e della politica. I testi sono riportati in ordine cronologico: la Bibbia, i Vangeli, il Corano. Infine il testo della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.

Tralasciando la storia del passato e i fatti tremendi che l’hanno scandita anche per colpa di tutte le religioni, oggi che senso hanno questi precetti ad eccezione del non uccidere, del non perseguitare, del garantire libertà e pari ricchezza e dignità a tutti? Penso che tutto ciò che confligge con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, coniugata con una rigorosa società di eguali, sia da mettere subito e senza indugi fuori legge.

EBRAISMO

Io sono il Signore Iddio tuo che ti feci uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano
Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.

Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti dà(2).

Non uccidere.

Non commettere adulterio.

Non rubare.

Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”

CRISTIANESIMO

Io sono il Signore, tuo Dio… Non avere altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine… Non ti prostrerai davanti a quelle cose…

Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio…

Osserva il giorno di sabato per santificarlo…

Onora tuo padre e tua madre…

Non uccidere.

Non commettere adulterio (poi trasformato in “non commettere atti impuri”).

Non rubare.

Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

Non desiderare la moglie del tuo prossimo.

Non desiderare la casa del tuo prossimo… né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.

ISLAMISMO

Primo pilastro: accettazione di Dio (Allah)
“Non esiste divinità all’infuori di Dio (Allah), e Maometto è il Suo profeta”.

Secondo pilastro: Ṣalāt, ovvero preghiera quotidiana (الصلاة)[modifica | modifica wikitesto]
I musulmani eseguono la preghiera rituale, o ṣalāt, cinque volte al giorno. Un musulmano può pregare praticamente ovunque, anche sul lavoro o a scuola. È raccomandato però che si metta una stuoia pulita a terra dove pregare e di rivolgersi in direzione (qibla) della Mecca durante la preghiera.

Terzo  pilastro: Zakat (الزكاة), ovvero elemosina legale (الصدقة)
Uno dei principi fondamentali dell’Islam è il credo che tutte le cose appartengano a Dio e che il benessere appartiene solo agli uomini meritevoli di fiducia.

Quarto pilastro: Sawm (الصوم), ovvero digiuno nel dì del mese di Ramadan.

Quinto pilastro: Hajj, ovvero pellegrinaggio alla Mecca e ai suoi dintorni (الحج) nel mese di Dhu I-Hijja

Nulla si dice nei pilastri dell’islam dell’omicidio, della guerra, dell’adulterio…..Chi è ricco è perché se lo merita (??) a chi è povero va dato il contentino dell’elemosina!

DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 2

Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella
presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.

Articolo 6

Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

Articolo 7

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Articolo 8

Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.

Articolo 9

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.

Articolo 10

Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.

Articolo 11

  1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.
  2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.

Articolo 12

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Articolo 13

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

Articolo 14

  1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
  2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

Articolo 15

  1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
  2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della suacittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

Articolo 16

  1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare
    una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento.
  2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
  3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

Articolo 17

  1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
  2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.

Articolo 18

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

Articolo 19

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Articolo 20

  1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
  2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

Articolo 21

  1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
  2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
  3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.

Articolo 22

Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Articolo 23

  1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
  2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
  3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
  4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Articolo 24

Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

Articolo 25

1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.

Articolo 26

  1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
  2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
  3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.

Articolo 27

  1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
  2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.

Articolo 28

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

Articolo 29

  1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
  2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.
  3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite.

Articolo 30

Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Chi è contro l’umanità e i suoi diritti?

Chi parla di proprietà o possesso di beni naturali e artificiali, persone, mogli, familiari, territori?

Chi vuole lasciare i poveri e i ricchi che li hanno resi tali al loro posto facendo ai poveri solo una misera elemosina?

Chi dice ai “poveri di spirito”di parlare a nome di una entità da favola sapendo bene che di fatto non esiste?

Chi ha improntato i principi del mercimonio, dello sfruttamento, della schiavitù, dei colonialismi e dei capitalismi di ogni forma?

Chi ha preteso di limitare i diritti e le libertà naturali in nome di principi, credenze e dogmi artificiosi ed artificiali?

Chi e come?

Giuseppe Campagnoli

Gennaio 2016-Novembre 2023

Poco i nulla è cambiato. Anzi.




Il Corano ( .القرآن ) e gli altri libri sacri sono i libri di testo della sottomissione e del potere?

Una riedizione quanto mai attuale, da CH e dal Bataclan ed altri attacchi islamisti al terribile incubo di oggi di massacri di popoli e di idee di libertà a causa di orrende superstizioni e poteri a caccia di ricchezze, territori e dominio da ogni parte.

 

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Some words are very dangerous words written by dangerous men.

 

Il Corano ( .القرآن ) e gli altri libri sacri sono i libri di testo della sottomissione e del potere. Se qualcuno provò, da rivoluzionario e non da profeta, a riscrivere regole di eguaglianza e di libertà oltre che di fratellanza, fu tacciato di impostore e rivoluzionario sedizioso e messo al patibolo. Quando provò a dire che non doveva esistere ricchezza e povertà e che l’elemosina era il segno dell’iniquità fu rinnegato e   imprigionato. Nella mente dei suoi adepti risuscitò. In realtà è il suo messaggio rivoluzionario che sopravvisse alla triste e violenta realtà finche non fu strumentalizzato, distorto e adoperato a fini di potere.

 

Ed ecco a titolo di esempio la più buffa e ridicola delle regole che poteva valere tra le tribù del deserto. Ma è apprezzata molto dal mondo suino che dall’islam non ha nulla da temere mentre nell’occidente civile è ai primi posti delle mattanze di esseri viventi.

 

“[134] Allah (gloria a Lui l’Altissimo) ci proibisce tutto quello che è un male per noi. In moltissime lingue il maiale è sinonimo di sporcizia fisica e morale. Maiale, maialata, porco, porcheria, porcata, porcile, troia, troiata: quanto di peggio possa esprimere il comportamento umano viene espresso con colore ed efficacia per mezzo di questi termini. Basterebbe questa semplice considerazione per rendere l’idea della ripugnanza che dovrebbero ispirare le carni suine. Purtroppo la grande convenienza economica dell’allevamento fa sì che i non musulmani se ne cibino, con grave pregiudizio per la loro salute fisica e spirituale” (sic!)

In questi tempi terribili dove l’esclamazione di ancestrale memoria “mamma li turchi!” sembra tornata attuale, non solo per i credenti cristiani o ebrei o di altre religioni  (tutte più o meno colpevoli insieme al potere secolare e mercantile di tutte le orrende disgrazie del mondo) ma anche per chi si dice continuamente ateo od agnostico, occorre saper discernere con freddezza e scienza oltre che coscienza tra ciò che è generato da rivendicazioni di torti coloniali, guerre e calamità indotte dalle multinazionali occidentali e non solo e ciò che invece è generato da un presunto orgoglio di superiorità indotto a partire dal 600 dopo Cristo da un crescendo di potere, prima militare e confessionale e poi anche economico ( la turpe tratta degli schiavi la complice sudditanza dal petrolio) che ha portato alla conquista dell’occidente prima in forma militare, poi  finanziaria e ora, forse anche geografica e fisica con una serie di invasioni non sempre costrette dal disagio, attraverso le subdole azioni di cui il Corano, chiaro e trasparente come l’acqua, parla ad ogni piè sospinto, senza bisogno di alcuna intermediazione linguistica o culturale. L’ essenza del libro e delle regole per i suoi adepti non è mai mutata  nel tempo, così come per certi aspetti anche per l’antico testamento ancora in voga in altri lidi. Non nascondiamoci dietro un dito. Ce lo insegna bene, prima vittima sacrificale per aver detto la verità, Charlie Hebdo che non perde occasione, non certo da destra, di metter il mondo (non solo il perfido occidente) in guardia da certi pericoli  estremamente sottovalutati in nome di una integrazione che tutti sappiamo bene impossibile perché auspicata a senso unico. Il massimo che si potrebbe ottenere senza danni è una convivenza pacifica parallela,  distante e diffidente.

 

Abbiamo letto durante l’infanzia (giocoforza) la Bibbia e i Vangeli; li abbiamo riletti in adolescenza insieme ai filosofi classici, dell’umanesimo dell’illuminismo e dell’idealismo fino a Marx. Abbiamo letto più volte anche il testo orginale del Corano (tradotto dalla lingua araba senza commenti e interpretazioni).Ora siamo convintamente agnostici ma i tempi che corrono ci invitano ad approfondire le “norme” di una religione che è ridiventata drammaticamente d’attualità, nel bene e nel male. Abbiamo selezionato poche ma significative  frasi originali di alcuni versetti del Corano , molti dei quali  si ripetono come un mantra ad ogni piè sospinto, quasi dovessero ipnotizzare il lettore. Questi versi, così come sono trascritti, potrebbero avere riflessi devastanti sulla vita civile e sociale e sui diritti umani in generale mentre altri, contraddittoriamente, smentiscono platealmente qualsiasi guerra santa, rinviando ogni castigo per i “miscredenti” al giudizio universale. Sono testi che non sembra debbano  essere interpretati, a meno che le metafore non siano talmente criptiche da non essere affatto immediate. Queste parole sono rimaste intatte nel tempo senza una evoluzione e  a volte appaiono, a vista. poter costituire un problema per la libertà e la democrazia del mondo moderno e civile anche se, a tratti, per le palesi ambiguità potrebbero essere “girate” ad uso e consumo di chi vorrebbe giustificare guerre sante e violenza soprattutto contro chi non avrebbe capito che Mosè e Gesù non erano altri che i due primi messaggeri della divinità, in seguito corretti e superati definitivamente da Muhammad. Noi non siamo dei teologi ma sappiamo leggere. Si capisce bene anche, ad ogni riga, ad ogni citazione e ad ogni esempio, che il testo si rivolge ad una platea di tribù di pastori per incitarli anche alla difesa-offesa contro i nemici di quei luoghi in quei tempi. Si capisce bene qua e là  il saccheggio culturale da testi di religioni precedenti fin da Zoroastro. Studi linguistici accurati avrebbero anche mostrato come il Corano non sarebbe altro che la miscellanea di diversi testi biblici ed evangelici diffusi all’epoca di Maometto (che non era affatto illetterato, come invece miracolisticamente si vorrebbe far credere) in medio oriente.

 

Da molti versetti  per le tematiche più attualizzabili abbiamo tratto poche frasi e concetti  inequivoci e chiarissimi. Anche la Bibbia del Vecchio Testamento e il Talmud riportano molti concetti simili perché legati ai tempi in cui furono scritti o detti. In verità non il Vangelo, altri testi filosofici e il Capitale di Marx che mirabilmente moderni coincidono e si integrano in epoche così distanti.

 

Ecco la superbia dell’uomo obnubilato dalla paura e dall’hascisc…

 

Questo è il Libro su cui non ci sono dubbi, una guida per i timorati.”

 

«Non adorerete altri che Allah”

 

“Ad Allah appartengono l’Oriente e l’Occidente. Ovunque vi volgiate, ivi è il Volto di Allah. Allah è immenso e sapiente.
Dicono: «Allah si è preso un figlio». Gloria a Lui! Egli possiede tutto quello che è nei cieli e sulla terra. Tutti Gli sono sottomessi.”

 

“La carità non consiste nel volgere i volti verso l’Oriente e l’Occidente, ma nel credere in Allah e nell’Ultimo Giorno, negli Angeli, nel Libro e nei Profeti e nel dare, dei propri beni, per amore Suo, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti diseredati, ai mendicanti e per liberare gli schiavi; assolvere l’orazione e pagare la decima. Coloro che mantengono fede agli impegni presi, coloro che sono pazienti nelle avversità e nelle ristrettezze, e nella guerra, ecco coloro che sono veritieri, ecco i timorati.
O voi che credete, in materia di omicidio vi è stato prescritto il contrappasso: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna. ““Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti. Se però cessano, allora Allah è perdonatore, misericordioso.”

 

 

“Non c’è costrizione nella religione. La retta via ben si distingue dall’errore. Chi dunque rifiuta l’idolo e crede in Allah, si aggrappa all’impugnatura più salda senza rischio di cedimenti. Allah è audiente, sapiente.”

 

“Signore, non imporci ciò per cui non abbiamo la forza. Assolvici, perdonaci, abbi misericordia di noi. Tu sei il nostro patrono, dacci la vittoria sui miscredenti.»”

 

“E castigherò di duro castigo quelli che sono stati miscredenti, in questa vita e nell’Altra, e non avranno chi li soccorrerà.”

 

“Nessuno muore senza che Allah lo voglia. Quando e come vuole lui.”

 

“Sposate due o tre o quattro donne che vi piacciono se temete di essere ingiusti con gli orfani”

 

 

“Bisogna sposare donne credenti e libere” ma “vanno bene anche schiave nubili e credenti”

 

“ci vuole sempre il consenso delle loro genti per sposarle!”

 

“non invidiate l’eccellenza che Allah ha dato a qualche uomo: lo avranno meritato”

 

“Gli uomini sono preposti alle donne a causa della preferenza che Allah concede agli uomini”

 

“Se le donne si ribellano lasciatele sole nei loro giacigli e battetele finché non vi obbediscano”

 

“avrà una immensa ricompensa chi combatterà per la causa(?) di Allah  e sarà ucciso o vittorioso”

 

“I miscredenti combattono per la causa degli idoli”

 

“Non uccidete i miscredenti se si mantengono neutrali e abbassano le armi contro di voi”

 

“Il credente non deve uccidere il credente”

 

“Chi crede e fa del bene avrà l’ingresso nei Giardini dove scorrono i ruscelli” (Il deserto è pesante…)

 

“da condannare chi pratica l’usura e ruba i beni degli altri”

 

“unici animali permessi sono quelli dei greggi” ( e di seguito una serie di divieti, dal porco in poi….)

 

Non bisogna uccidere un uomo (credente?) che non abbia ucciso: sarà come uccidere l’umanità intera. Chi ne salverà uno salverà l’umanità intera”

 

Poi tutta la serie delle leggi del taglione di biblica memoria, dell’occhio per occhio, dente per dente e la cautela nel trattare con giudei e cristiani che credono che i loro profeti siano delle divinità.I poveri restino poveri e bisogna fare loro la carità. E molte eccezioni e controeccezioni, ripetizioni e minacce di Fuoco Eterno.

 

“Voi che credete non fate domande \su cose che, se fossero spiegate vi dispiacerebbero”  VI saranno spiegate a tempo debito. (Comodo no?)

 

Seguono regole pratiche e norme di comportamento , sui beni e le proprietà ( con le donne), su bestiame, frutta e verdura e ammonimenti ad ogni vers

 

E se fra un po’ capitasse un altro messaggero di dio per dire che tutti i precedenti (da Abramo a Maometto) si erano sbagliati? Credo che potrebbe capitare: l’uomo ama molto le favole nuove. E poi tutto è relativo.

 

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Perseverare è naturale

https://educazionediffusa.net/2023/10/27/ya-basta/



Minculpops

Oggi ho letto l’articolo di Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano, che condivido nella sua intera sostanza, dedicato al film “Comandante” che ha aperto la saga veneziana per essere chiaramente e spudoratamente in linea con l’imprimatur fascista delle sue origini nel 1932.

Una premessa è necessaria per inquadrare il fatto, non unico di questi tempi e neppure raro, e per farlo ricorro ancora ad una riflessione linguistica e semantica trovata sul giornale Libération qualche tempo fa:

Il premier italiano Giorgia Meloni è “neo” o “post”-fascista?  Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”?  Esistono le “neo-femministe”?  Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola.  “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo.  Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia. La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità;  il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene.  Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo.  ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico.  La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato.  Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico.“Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo.  “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione.  È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.

L’analisi di Montanari mi pare ineccepibile soprattutto in certi passi fondamentali:

Al di là delle circostanze casuali (il ben altro film di Luca Guadagnino bloccato da cause di forza maggiore), e delle intenzioni di regista, sceneggiatore, attori di Comandante (che abbiamo finora saputo antitetiche ad ogni revisionismo), la forza del dato di fatto è impressionante. Ed è prova di una egemonia culturale che, se non è ancora tascista, certo non è più antifascista.

ll comandante era uno che combatteva insieme ai nazisti: per le stesse cause, che includevano il più violento razzismo mai visto nella storia, e l’Olocausto tutto intero. In Germania, la Berlinale si potrebbe aprire con l’apologia di un nazista buono? Se da noi è potuto accadere è perché ci siamo convinti che ci fosse una gran Scorciatoia Il film celebra giustamente il salvataggio dei naufraghi belgi, ma occulta il contesto di una guerra atroce scatenata dai regimi totalitari come l’Italia fascista differenza tra il tedesco nazista (cattivo) e l’italiano fascista (ravo): ma una intera stagione storiografica ha dimostrato esattamente il contrario. Eppure, l’autoassoluzione collettiva (che inizia ancor prima della Liberazione, con un cedimento significativo del fronte antifascista, comprensibilmente preoccupato che l’Italia non venisse trattata come la Germania), l’idea crociana del fascismo “parentesi” in una in una storia italiana “virtuosa” continua a confondere molti.Come ha scritto Cristina Piccino in una splendida stroncatura del film uscita giovedì scorso sul Manifesto, il comandante interpretato da Pierfrancesco Favino,come ogni vero uomo, ama l’arte della guerra ed è un po’ dannunziano, un po’ nietzschiano, un po’ uomo e macchina di marinettiana memoria, oltre a possedere quel bagaglio, tipico del fascistello, di filosofie orientali, cabale, esoterismi”.

Todaro ebbe anche delle medaglie e non rinnegò mai le sue idee aderendo perfino ai criminali di guerra della XMas.

Per rafforzare i concetti propongo alcuni passi della citata recensione di Cristina Piccino sul Manifesto:

Eccoci qua, italiani brava gente, questa retorica insopportabile specie oggi che ha accompagnato anni e anni di commedie, di farse sui colonialismi buoni, di auto-assoluzioni che sì, vabbè si è stati fascisti ma mica cattivi come i tedeschi. Peraltro la parola fascista, a parte da chi in quel bell’idillio osa ribellarsi – e per questo viene picchiato dagli uni e dagli altri, ma come hanno osato a fronte di tanta bontà? – quasi mai viene pronunciata dal comandante e dai suoi uomini. Cosa ci vogliono dire allora de Angelis e Veronesi? Che la legge del mare è antica, sacra e imprescindibile e che persino in guerra tra i fascisti c’è chi l’ha rispettata? È un messaggio al governo Meloni e ai suoi proclami sui respingimenti contro i migranti di adesso? Però la storia è storia e invece che fabbricare santini a effetto nella distanza temporale sarebbe bene mantenere un po’ di onestà intellettuale perché il passo falso è in agguato – qui direi è già scattato – insieme alle infinite ambiguità di offrire sponde – e ce ne sono numerose – per autocelebrazioni e strizzate d’occhio ai poteri «nuovi» di cui non si sente proprio il bisogno. Non basta cullarsi tra droni e meduse che sembrano sirenette; De Angelis non va mai in profondità e quegli spazi, qui corpi sott’acqua, quei nemici che poi si sfioreranno con odio appaiono privi di spessore. Eppure nelle sue intenzioni in quel sottomarino c’è l’Italia, «si fa» l’Italia delle diverse regioni e dialetti che imparano a convivere – anche questo – grazie alla guerra, all’idea comune, all’allenamento al sacrificio. È ancora legge del mare o è qualcos’altro? Tra accumuli di citazioni casuali, il suo sottomarino non si rifa a esempi importanti come “Gli uomini sul fondo” (1941) di De Robertis – Rossellini ma neppure stilisticamente al K-19 di Bigelow. La patina di cui ammanta la visione distorta del protagonista è compiaciuta, priva di un punto di vista, accarezza quell’essere, quelle modalità, si culla negli stereotipi: pasta- pizza-mandolino (e patatine fritte per i belgi) che si fanno convivenza. Sarà questo effetto cartolina a avere determinato la scelta? Resta il fatto che oggi risulta goffa nel suo effetto finale malgrado le «buone intenzioni. E appellarsi genericamente alla «legge del mare» non basta. Non più.

Oltre a questo, nell’episodio veneziano da non sottovalutare, c’è la tolleranza o quanto meno l’assenza colpevole di certa sinistra liberaleggiante che forse fa già parte di quell’altra faccia del postfascismo rimeditato negli effetti che non è certo nostalgia ma sicuramente terribile attualità neoliberista come ben scrive Paolo Mottana:

Due righe sul fascismo: oggi, come è evidente, la parola fascismo, ben oltre le sue origine storiche, individua una lista di comportamenti che, genericamente ma correttamente, definiamo fascisti: autoritarismo, violenza verbale e fisica, imposizione, giudizi sommari, crudeltà gratuita, condanne per le idee ecc. ecc. Quindi oggi vorrei celebrare non solo la Liberazione con la L maiuscola, quella che conosciamo perché ci è stata tramandata dai nostri vecchi e che ci parla di libertà da sofferenze inaudite ma anche una liberazione minore, da tutti i fascismi che infettano il mondo: quelli che ci imprigionano in rapporti violenti, quelli del lavoro dove capi e capetti si permettono di insultare e vessare gratuitamente perché hanno uno straccio di potere, dove siamo giudicati in base a invidie e ritorsioni, quelli del tempo che ci viene rubato o castrato, quelli delle deportazioni (quella scolastica o lavorativa per esempio), quando accettiamo di subire ogni tipo di potere sulla nostra vita senza ribellarci, o ribellandoci e venendo immediatamente schiacciati da sanzioni di ogni genere, di quelli che ci indicano cosa fare, come impiegare il nostro tempo residuo e non ci rendiamo più conto che non sappiamo più fare una scelta autonoma perché tutte le nostre scelte sono già predecise altrove (sulle vacanze, sul tempo libero, persino sul riposo e sul fare l’amore), quelli della coppia talvolta, della famiglia troppo spesso, delle code in auto, degli ammassamenti sulle metropolitane, dei centri commerciali, delle spiagge in batteria come polli a cuocere alla griglia, dei programmi televisivi a senso unico, di tutti i fanatismi, buoni o cattivi, religiosi o laici.Vorrei celebrare la liberazione dai fascismi che fanno della nostra vita una vita da schiavi, da sottomessi, laddove spesso siamo noi stessi a non saper leggere il fascismo interno che noi stessi ci rifiliamo pur di non vivere l’ebbrezza spaesante di una vera liberazione.

Fascismo e fascismi dunque, a braccetto insieme e assai più pericolosi e criminali se ben propagandati da una avanzante occupazione culturale multiforme, subdola, a volte sfacciatamente palese e, a volte, anche pericolosamente subliminale.

Giuseppe Campagnoli Settembre 2023




When I’m seventeen 🎶🎶

Senza commenti di sorta proponiamo l’articolo di Elisabeth Franck-Dumas su Libération del giugno scorso che dedichiamo al compleanno del regista cercando di eludere gli incensi dei delusi della sinistra nostrana o le accidie grottesche della altrettanto nostrana destra malamente resuscitata per colpa di quella stessa sinistra.

Prendendo in prestito l’approccio dinoccolato di Nanni Moretti, di cui richiama anche gli sfoghi infantili e i broncio da alter ego del passato, da Bianca ad Aprile, Giovanni è un regista che è stato superato dal suo tempo. Ne nasce un affresco storico nella periferia di Roma, che ripercorre la procrastinazione etica di una parte del PC italiano ai tempi della rivolta di Budapest del 1956. Si immagina il dilemma morale del capo della sezione Antonio Gramsci (interpretato da Silvio Orlando) che ha invitato un circo ungherese come dimostrazione di sostegno mentre i carri armati russi arrivano per reprimere la rivolta. Giovanni insiste nei minimi dettagli del suo set, fino alle bottiglie d’acqua con il logo Rosa Luxemburg ma percepiamo che è interessato solo per metà a ciò che ha progettato, sognando invece di mettere in scena decenni di vita di coppia sullo sfondo di canzoni popolari italiane. La moglie Paola (Margherita Buy), produttrice di tutti i suoi film, lo abbandona per le riprese di una pellicola ultraviolenta di un giovane regista e finisce anche per lasciarlo e prendere un appartamento altrove. Sua figlia Emma (Valentina Romani) sta per sposare un settantenne, cosa che, dopo il primo shock, Giovanni arriva a comprendere, lasciando intendere che i giovani in fin dei conti siano davvero poco rilevanti. Gli scenari d’epoca del suo affresco, costantemente invaso da gadget del tempo, come la sala stampa di un giornale dove si vedono rotative su rotative, il circo che esegue il suo numero felliniano, il fascino retrò di una vera vita di quartiere e tutto nell’universo che ha allestito, sottolinea la malinconia e il rimpianto. Il soggetto stesso del film lascia da parte i giovanissimi della sua squadra, convinti che i comunisti in Italia non ci siano mai stati. “Il tuo film è la fine di tutto!” concludono alla fine i suoi nuovi produttori coreani. La scoperta sembra renderli felici.

“Verso un futuro radioso” traduzione franzosa del sedicesimo lungometraggio di Nanni Moretti, dal titolo evidentemente ironico, mette fine alle utopie del passato, politiche, cinematografiche, intime. Il gesto è un po’ stanco, nostalgico, a volte, non tante, divertente, soprattutto durante un esilarante confronto con Netflix, che lamenta l’assenza di un momento «what the fuck» nella sua sceneggiatura che non è mai tagliente. Giovanni, il protagonista alias di Nanni è infelice e affatto combattivo. La vita lo doppia sulla corsia di sorpasso mentre lui la concepisce solo con una serie di alzate di spalle affrante. Il suo gesto più eclatante, interrompere a lungo le riprese del film rivale, arrabbiato per la sua estetica troppo trita, non avrà alcun effetto, se non quello di farci sorridere. Vediamo anche Giovanni, strizzando l’occhio al film Diario, fare il giro di una piazza di Roma ancora e ancora su uno monopattino elettrico, di notte, con il suo produttore innamorato e strambo (Mathieu Amalric) e poi nuotare in una piscina, come in Palombella Rossa , rimpiangendo di non essere abbastanza grande da girare un adattamento del racconto di John Cheever: The Swimmer.

Tanto che il personaggio (e con lui anche Moretti?) darà l’impressione di operare in tre modalità: stop, rewind, segnare il passo. Piroetta letteralmente su se stesso, braccia spalancate come un derviscio, subito imitato dal resto della sua squadra. Dell’idea di “girare”, Giovanni sembra così aver conservato solo l’accezione del girare in tondo. Il suo cinema serve prima di tutto a cambiare il passato, come nei film di Tarantino, per fantasticare su un PC italiano che avesse denunciato per tempo le azioni dell’URSS. Nanni Moretti, con lo stesso stratagemma, permette a Giovanni di tornare sui propri passi verso il suo io giovane, compiaciuto e irremovibile, che ruttava al borghese, dopo aver visto “La dolce vita” con la sua bella, quando invece avrebbe potuto tenere tutt’altro discorso, più innamorato e meno stupido.

Come il suo sosia, Moretti a volte dà qui l’impressione di essersi lasciato scivolare sul pilota automatico, riprendendo un po’ pigramente i codici del suo cinema, il suo personaggio di spilungone che gioca a calcio e funziona solo per rituali immutabili come mangiare un gelato davanti a Lola. Un po’ troppo scontroso, un po’ troppo carino. La sfilata finale, che riunisce sotto il sole gli attori dei suoi film passati, non fa altro che volgere uno sguardo retrospettivo per stuzzicare il cuore.

Il Circo ungherese

Moretti non si fa certo ingannare da questo, e rileggeremo nell’invito al circo, nel momento in cui si scatenano le forze oscure della storia, una mise en abyme del suo stesso gesto, che può sembrare, a seconda di dove ci si trovi, magnificamente derisoria, un po’ vanitosa, o al contrario espressione di una specie di ottimismo di resistenza.

La redazione di ReseArt Agosto 2023




Venezia, la luna e tu

Non andiamo più a Venezia!
A causa del sovraffollamento che subisce durante tutto l’anno, la città dei Dogi potrebbe entrare a far parte della lista UNESCO dei patrimoni in via di estinzione. Non ci sono più soluzioni per salvarla: devi smettere di visitarla.

DI RODOLPHE CHRISTIN SOCIOLOGO su Libèration.

Revisione della traduzione: Giuseppe Campagnoli

Venezia va male, e non è una novità. La città, nel 2021, era già sfuggita di poco alla classificazione dell’Unesco come “patrimonio mondiale in pericolo”. Di fronte a questo possibile disconoscimento, le autorità avevano poi adottato diverse misure che andavano dal controllo del numero dei visitatori alla tutela e ristrutturazione urbana, passando anche per il divieto di avvicinamento per le navi da crociera dalla stazza troppo elevata: troppa massa e potenza e troppe emissioni, che minacciano la salute e le architetture. Le onde destabilizzano gli argini, indeboliscono gli edifici e tormentano un intero ecosistema: città, acque, isole. Alle grandi onde abbiamo quindi preferito quelle più piccole: quelle delle imbarcazioni più modeste e gli innumerevoli motoscafi che assicurano il trasporto dei passeggeri tra le navi e la città. La sfida è solo una: non perdere un solo visitatore.

Le gondole non passano più sotto i ponti.

Ovviamente, non era abbastanza. La minaccia ritorna perché il turismo post-pandemia è tornato con una vendetta. E Venezia ancora non migliora, potrebbe assomigliare sempre meno alla Venezia eterna, città d’arte e di storia dove si esprime parte del genio dell’umanità. Inoltre, l’acqua sta salendo. Venezia ci arriva fino alle ginocchia e le gondole non passano più sotto i ponti.
Venezia classificata come capolavoro in pericolo. Per non aver fatto abbastanza per preservare la città dalle trasformazioni sia locali che universali, legate al riscaldamento globale? Per aver perseguito solo il profitto illimitato? In ogni caso, se non si interviene, la città potrebbe essere simbolicamente punita con la rimozione a settembre dalla World Heritage List dell’UNESCO, nella quale figura dal 1987. La motivazione: non aver soddisfatto i criteri che ne fanno un “sito culturale di valore universale”.

E se invece proprio questo apparente disonore di “demarketing” forzato contribuisse al salvataggio di Venezia? Ricordiamo che il successo del turismo si basa su un sistema che associa tre grandi categorie di attori: gli attori privati che promuovono e vendono prodotti turistici, gli attori pubblici che sono i registi dell’attrattività territoriale e i turisti che obbediscono alle influenze delle due categorie precedenti .
In questo trio, la classificazione UNESCO accontenta tutti: giustifica il viaggio circondando di prestigio la città, onora gli amministratori locali e arricchisce gli uomini d’affari. Da parte loro, le ONG e le associazioni sono più o meno soddisfatte delle misure di protezione che l’etichetta UNESCO prevede e imporrebbe. Tra questi attori si raggiunge facilmente un consenso poiché tutto sarebbe fatto in nome del Bene. I motivi per rallegrarsi sembrano, infatti, numerosi se si spera in qualche guadagno economico e simbolico.
Ma di fatto l’Unesco, organizzazione favolosa, censendo e classificando un sito alimenta il marketing turistico dei luoghi su cui punta come una strega Carabosse travestita da principessa. Davvero i suoi esperti non sanno che tutto contribuisce allo sviluppo dell’industria del turismo, accompagnato da tutti i suoi derivati, il cui elenco sarebbe lungo e tedioso, ma dimostrerebbe quanto il turismo metta in atto una serie di settori economici (speculativi e mercantili)? Come stupirsi, se nel 2023, anche chi vive di turismo a Venezia si lamenti?

Si sta organizzando il declino

Questo è vero per tutti i territori iperturistici. In alcuni luoghi ci viene detto di lottare contro l’eccesso promuovendo un turismo quattro stagioni, come se l’alta stagione dell’inferno turistico da sola non bastasse! Venezia è di fatto, nel tempo, diventata un santuario abbandonato dai suoi abitanti storici. È una città già morta. La vita sociale relegata alla sua periferia, le classi lavoratrici senza più i mezzi per mettervi piede e viverci.
Piuttosto che gestire i fastidi senza eliminarli, bisognerebbe organizzare democraticamente il declino del turismo, a Venezia e altrove, sia per liberarne i luoghi dalla sua perniciosa morsa che per affrontarne e scongiurare le ripercussioni sul cambiamento climatico. Occorre prendere a modello, per una volta, il fatto che l’ipermobilità non è un segno di successo sociale.
Dovremmo porci delle semplici domande mentre visitiamo quei luoghi: di cosa sono sintomo tante frenesie ? Cosa stiamo cercando altrove che non potrebbe essere trovato qui? Come migliorare la vita di questi luoghi?

Per salvare Venezia bisogna dimenticarla. Smettiamo di metterla in vendita . Quando il turismo diminuirà drasticamente (o sarà interamente sostituito dal viaggio raro e consapevole) la vita tornerà a Venezia.

Aggiungerei che tutto ciò varrebbe per tante altre città, Parigi compresa.

Mi viene in mente un bel progetto del 2020 che, come accade spesso in Italia, è naufragato presto nell’acqua alta, per i soliti beceri dissidi di natura bassamente ideologica. L’idea era assai buona e poteva essere un modesto ma potente seme ben piantato ai fini del salvataggio della città lagunare. Tanti gli attori coinvolti: cittadini, associazioni, municipalità, università, scuole. Eccone un estratto:

“La situazione di degrado e aumento di povertà, in una città come Venezia che ha fondato la sua economia su una monocoltura turistica si è acuita in questo anno di pandemia che è stato preceduto dalla seconda “Acqua Granda” della storia (novembre 2019). Questo progetto nasce dallesigenza di valorizzare e promuovere nuove modalità di convivenza eterogenea per una comunità resiliente attraverso pratiche di: economia del dono, comunicazione empatica ed educazione diffusa.

Lex Convento può diventare un punto di riferimento per l’intero quartiere che, per le sue caratteristiche popolari, ha diverse zone senza servizi e luoghi di ritrovo (la Giudecca è un“isola nellisola” abitata storicamente dalla popolazione della città con meno risorse economiche).

Obiettivo di questo progetto è proprio quello di mettere in atto una serie di pratiche virtuose per costruire un processo democratico partecipato che valorizzi lutilizzo degli spazi comuni in unintegrazione sociale di tutti i cittadini. Cercando di coinvolgere tutte le parti, approntando dei percorsi di formazione ad hoc vorremmo mettere laccento su pratiche metodologiche inclusive, che costruiranno le basi per sviluppare un forte senso di appartenenza alla comunità, una comunità che diventa “educante”. Attraverso i principi dellEducazione Diffusa si vuole sviluppare un innovativo metodo di apprendimento che metta in relazione la città (dal punto di vista culturale ed economico) con i più giovani, città che diventa luogo di scoperta, città che si apre alla scuola, che si trasforma in scuola “di vita” a tutti gli effetti, città che da subito diventa accessibile e trasformabile dalle nuove generazioni. Il Convento potrebbe diventare un esempio virtuoso ed un modello riproducibile, potenzialmente ricchissimo dal punto di vista sociale, artistico e culturale che ha solo bisogno di essere valorizzato adeguatamente.”

Una parte di città educante poteva nascere alla Giudecca e magari,nel tempo, contaminare virtuosamente altri contesti urbani. Peccato. Gli individualismi ed i corporativismi sono il male diffuso di questi tempi.

La redazione

I disegni sono dell’arch. Giuseppe Campagnoli. I fotomontaggi e rendering dell’arch. Stanislao Biondo.

La mappa colorata è tratta da un disegno di Antoine Corbineau.

Immagini di quadri di Claude Monet




Dispersione. Non tutti i mali vengono per nuocere?

https://educazionediffusa.net/2023/07/27/dispersione/



Educazione diffusa.Proviamoci ancora per oltrepassare la scuola

https://educazionediffusa.net/2023/08/03/educazione-diffusa-malgre-tout-et-tous/



Marx ecologista

Di Nicolas Celnik su Libération. Tradotto da Giuseppe Campagnoli

Kohei Saito «Karl Marx ha fornito la chiave per riconciliare ecologia e lotta di classe

Autore di un inaspettato best-seller in Giappone, il giovane filosofo ha analizzato gli scritti tardivi di Marx dove pensatore del comunismo appare preoccupato per l’esaurimento delle risorse naturali.

Il Giappone ha riscoperto Karl Marx, grazie al primo libro di un giovane accademico che teorizza il comunismo decrescente. Questo bestseller , che in pochi mesi ha venduto oltre 500.000 copie nel sesto paese più produttore di CO2 del mondo, «è un nonsenso», riconosce volentieri Kohei Saito, Professore associato all’Università di Tokyo, improvvisamente trasformato in una stella dell’ecologia nell’arcipelago.

Il libro ha anche ottenuto un premio, nominato nella lista dei migliori libri asiatici dell’Asia Book Awards nel 2021, ed è stato tradotto in diverse lingue (la Seuil dovrebbe pubblicarne una versione francese prossimamente). La NHK, la televisione nazionale, ha dedicato a Kohei Saito due ore di documentario, mentre un team del canale concorrente, TBS, ha partecipato alla nostra intervista per mostrare l’interesse della stampa internazionale per il giovane autore. La tesi del libro ne ha abbastanza per far sollevare alcune sopracciglia: studiando gli scritti tardivi di Karl Marx, Kohei Saito scopre che il padre del comunismo si è innamorato tardi delle scienze naturali, e che la sua visione del mondo per questo è stata in parte sconvolta. Avrebbe quindi voltato le spalle all’idea che occorresse concentrarsi a sviluppare le forze produttive e sarebbe maturato invece un pensiero preoccupato per la sostenibilità delle società e dell’ambiente concepita come condizione essenziale per la riduzione delle disuguaglianze. Karl Marx avrebbe allora ri-fondato la sua critica del capitalismo su argomenti che assomigliano strettamente a quelli portati dai pensatori contemporanei dell’ecologia. Sperando di riconciliare «rossi» e «verdi», questo libro vuole convincere i nuovi attivisti ambientalisti, che non sempre hanno il marxismo in mano, che si tratta invece di uno strumento di prim’ordine per rispondere alle sfide attuali.

Si potrebbe avere l’impressione che tutto sia già stato detto su Marx. Perché proporre una nuova lettura oggi?

Sono stato a lungo un marxista molto classico, preoccupato solo della lotta di classe. All’università avevo partecipato a creare un sindacato che militava per migliorare le condizioni di lavoro dei giovani. Era dopo la crisi economica del 2008, quando molti lavoratori precari avevano perso il lavoro, erano stati espropriati, ecc. Poi c’è stato il disastro di Fukushima. L’analisi marxista tradizionale, che sostiene la necessità di sviluppare le forze produttive per lottare contro le disuguaglianze, non mi sembrava più pertinente all’epoca delle catastrofi nucleari. Così mi sono chiesto come Marx avrebbe analizzato il problema delle centrali nucleari ed altro ancora in fatto di sostenibilità. Nello stesso periodo, stavo lavorando su dei taccuini inediti che Marx aveva riempito di appunti alla fine della sua vita. Ho scoperto che leggeva molto di scienze naturali e che era interessato allo sfruttamento del suolo in Irlanda o del carbone in Inghilterra. Leggeva trattati di geologia mentre Friedrich Engels [con il quale aveva scritto il Manifesto del Partito Comunista, ndr] lo pressava per scrivere gli ultimi volumi del Capitale. Da questi testi mi è sembrato che Marx stesse sviluppando un’analisi estremamente pertinente della produzione capitalista in una prospettiva ecologica.

La Cina o l’URSS, sedicenti comunisti, hanno provocato disastri ecologici cercando di sviluppare la produzione a tutti i costi. È stata una lettura sbagliata di Marx?

Credere che l’innovazione tecnologica e l’aumento della produzione risolveranno i problemi sociali e ambientali è non voler far fronte alle proprie responsabilità ed è un modo per relegare questo compito agli esperti e ai politici. Mi sembra, al contrario, che si abbia bisogno di una società più democratica anche allo scopo di stabilire una società più sostenibile. Questo è il principio della «giustizia ambientale». Ora, il marxismo (quello portato da molti sindacati, da accademici o da economisti marxisti) è molto orientato verso le tecnologie. Oggi è anche la tentazione degli eco-modernisti, che pensano che accelerando lo sviluppo tecnologico troveremo una soluzione alla crisi ambientale. Non credo sia così.

Lei identifica un concetto chiave per lo sviluppo di questa analisi: la «faglia metabolica». Di che si tratta?

L’idea è molto semplice: le interazioni tra gli esseri umani e la natura sono alla base delle nostre condizioni di vita. Il capitalismo organizza queste relazioni in un modo da sfruttare le risorse della natura senza prendere in considerazione il lungo termine. Si crea dunque una sorta di faglia metabolica quando si utilizza, in due secoli, la maggior parte delle risorse fossili che si sono costituite nel corso di diversi millenni. Questo evidenzia due caratteri essenziali. In primo luogo, c’è una posta in gioco di ritmo: quello del capitalismo (che peraltro si accelera) è incompatibile con quello della natura e delle condizioni materiali della sua riproduzione. È la tensione alla base del modo di produzione capitalista. L’altro elemento è che il capitalismo si preoccupa solo del valore – che Marx definisce come la quantità di lavoro incorporato in una merce. Ma il valore è solo un aspetto astratto e restrittivo del lavoro, che implica processi di scambio di energia e risorse. Questa analisi rende Marx ancora fondamentale oggi.

Nei suoi diari si apprende che si è ispirato anche alle società precapitaliste o non occidentali. Cosa ne ha ricavato?

All’inizio degli anni 1870 si interessò agli studi dello storico Georg Ludwig von Maurer (1790-1872) sui comuni germanici del XVIII e XIX secolo, che avevano raggiunto una forma di economia stazionaria [dove i movimenti di crescita e decremento economico sono deboli, ndr].  Ne è derivata una profonda crisi della sua visione del mondo e una concezione totalmente nuova di quella che dovrebbe essere una società alternativa. Georg Ludwig von Maurer mostra come queste società avevano istituito meccanismi di regolazione del consumo, della produzione e dell’accumulo di ricchezza. Alcuni comuni organizzavano una rotazione della proprietà delle terre: ogni tre anni gli abitanti utilizzavano aree diverse; questo garantiva che le terre più fertili non fossero sempre nelle mani della stessa persona. Queste società avevano adottato queste organizzazioni non perché fossero primitive, contrariamente a quanto avrebbe potuto scrivere Marx qualche anno prima, ma perché avevano deciso consapevolmente di evitare i rapporti di dominio indotti dallo Stato stesso. Negli ultimi anni della sua vita, Marx si rese conto che le sfide della sostenibilità e dell’equità sociale erano strettamente collegate. Oggi si giunge alle stesse conclusioni quando si denuncia il fatto che sono le persone più ricche a emettere più gas a effetto serra. Karl Marx ne dedusse che bisognava cambiare il sistema, ma non sviluppando ulteriormente le forze produttive. Proponeva piuttosto di tornare a vecchie forme di produzione, pur utilizzando alcune delle tecnologie più recenti – quelle che ci permettono di raggiungere l’obiettivo di organizzare la produzione in modo sostenibile. Per lui si trattava di pensare ad una società che non più motivata dalla crescita economica. Ho definito questa una «società di comunismo decrescente». In questa logica, seguendo il suo pensiero, mi sembra di poter dire che gli obiettivi di sviluppo sostenibile che si pongono dentro il recinto capitalista, sono il nuovo oppio del popolo, perché fanno credere a un futuro migliore senza proporre radicali cambiamenti strutturali.

Questa modalità di produzione sarebbe basato sull’associazione piuttosto che sulla cooperazione. Di che si tratta?

Il capitalismo organizza la cooperazione dei lavoratori in modo che essi non possano più lavorare in modo autonomo e indipendente: si tratta di una forma particolare di cooperazione, nell’ambito della divisione del lavoro. Karl Marx mostra che l’aumento delle capacità produttive da parte del capitalismo non porta all’emancipazione dei lavoratori, perché porta solo a rafforzare il potere del capitale su di loro. Se oggi i lavoratori si impadronissero dei mezzi di produzione, come una fabbrica di automobili, non sarebbero in grado di fabbricare neppure una automobile, perché non controllano ogni fase della catena di produzione. Di fronte a questo, Marx si interessa a un altro modo di cooperazione, che chiama «associazione», e che suppone che i lavoratori decidano collettivamente ciò che vogliono produrre, e come vogliono farlo. È un processo di produzione più lento, quindi meno efficiente, ma più democratico. In effetti, la democrazia non è sempre il metodo più efficiente, ma è quello che porta alla riduzione delle disuguaglianze. E questo rallentamento della produzione permette di chiudere una delle faglie metaboliche aperte dal capitalismo. Ciò consentirebbe anche di ridurre l’orario di lavoro – che Marx considerava un prerequisito per raggiungere la libertà – e di adottare ritmi come la settimana di quattro giorni – un modello da cui siamo molto lontani per esempio da noi in Giappone.

Karl Marx disegnava anche una strategia politica per riprendere il controllo dei mezzi di produzione. Come si spera di ottenere un comunismo decrescente?

È abbastanza difficile, a causa dell’esternalizzazione dell’inquinamento: il governo giapponese finanzia attualmente delle centrali a carbone in Bangladesh! Di conseguenza, molte persone, soprattutto in Giappone, continuano a non collegare il consumo all’inquinamento. È qualcosa che è stato rimesso in discussione durante la pandemia, dove si è presa coscienza dell’importanza dei cosiddetti lavoratori essenziali ma la parentesi, ahinoi, è stata chiusa molto rapidamente. Il primo scoglio da superare in Giappone resta dunque questa presa di coscienza che è meno solida che in Europa. Occorre senza meno proporre delle alternative. Non solo proposte concrete, come ad esempio chiedere finanziamenti per l’educazione o per le infrastrutture pubbliche ma anche avere delle utopie che vendano sogni prima o poi realizzabili.. Infine, occorrono tante iniziative locali: credo che verranno sicuramente dal ritorno delle azioni comuni. Insieme ad alcuni amici ho comprato un pezzo di foresta, e stiamo cercando di mantenerlo in modo collettivo, di sviluppare una comunità intorno a questo luogo. Mi sembrava importante perché in Giappone esistono forme di comuni tradizionali, ma non possiamo accontentarci di ciò che ereditiamo; occorre anche esplorare nuovi usi comuni e inventare insieme nuovi modelli democratici.”

C’è da dire che anche l’anarchismo aveva da tempo considerato questo aspetto ma con una auto organizzazione capillare dal basso senza il bisogno di uno Stato centralista che il comunismo ha sempre mantenuto e ancora manterrebbe come sostituzione di un potere con un’altro. Ricordiamo per inciso l’idea del mutuo appoggio di Kropotkin e i suoi studi sulla natura. « L’ecologia di Kropotkin » è anche un libro di Brian Morris sull’argomento. Altri tra saggi, articoli e interventi hanno ricordato il legame tra anarchismo e tutela della natura e dell’ambiente. Noi stessi abbiamo scritto di recente un articolo sulla ineluttabilità del verde insieme al rosso e nero.




L’educazione e la città

https://educazionediffusa.net/2023/07/24/educazione-e-citta/



L’educazione diffusa a settembre

https://educazionediffusa.net/2023/07/22/settembre-con-leducazione-diffusa/



Divide et impera

https://educazionediffusa.net/2023/07/13/divide-et-impera/



Sofismi popolari e didascalici

Tra le righe di Chatgtp molte verità.

“Ah, I see! Popsophia refers to an annual cultural event held in Italy, specifically in the city of Pesaro. Popsophia combines elements of popular culture, philosophy, and entertainment. It features various activities such as conferences, workshops, exhibitions, performances, and discussions that explore the intersection of pop culture and philosophy. The event aims to engage people in thought-provoking discussions while embracing the appeal of popular culture.”

“Pop philosophie” refers to the application of philosophical ideas and concepts to popular culture. It involves analyzing and interpreting elements of popular culture, such as movies, music, literature, and media, through a philosophical lens. This approach allows for a deeper understanding and exploration of the underlying ideas, values, and messages conveyed in popular culture. Pop philosophie often seeks to bridge the gap between academic philosophy and the general public by making philosophical concepts accessible and relatable in the context of popular culture.”

Quest’anno un articolo interlocutorio, distante, distopico e costruito con interrogativi su questa manifestazione della cultura che, innocua per il potere, a volte ondivaga, vale per tutte le stagioni (pecunia non olet) visti anche gli sponsors bipartisan o monopartisan nel piatto panorama parlamentare. Il Ministero del Merito ci indurrà a condividere questo articolo con i nostri partners che operano in campo educativo. Cercheremo di decifrarne, ammesso sia possibile, i “meriti” proprio in campo pedagogico.

Il titolo di questa edizione è decisamente azzeccato per etimo e forse anche un po’ autobiografico. Vale la pena esserci o solo immaginare di esserci tra l’ovvio dell’ovvietà e del déjà vu et entendu?

Voce Dizionario Bonomi
Programma e complici di Popsophia 2023

Merita come sempre una lettura in diagonale, come suggeriva qualcuno per taluni libri e qualche sbirciata, soprattutto per morceaux, di arcinoti racconti di costume culturale. Cominciammo nel lontano 2014 a recensire le edizioni di questa saga di gestione domestica erculea. A volte pur solo criticando senza denigrazione fummo anche censurati e bannati a vita dai socializzatori. Chapeau ai sofisti popolari! Eravamo quindi già influenti e sovversivi! Un onore.

Visto che uno dei patrocinanti è l’ineffabile Ministero dell’istruzione e del merito occorre ben concentrare l’attenzione sull’aspetto “educante” e leggere la storia dell’evento dal 2014 fino all’attualità anche attraverso questa lente. È singolare come ne sia stato autorizzato il riconoscimento per i docenti come attività di formazione (sic!) e come in passato il mondo scolastico, con talune complicità istituzionali, sia stato anche coinvolto e sfruttato per manovalanza gratisetamoredei con la scusa dei soliti ipocriti crediti e tirocini. I manovali, non gli ospiti di un’esperienza. Chissà se le figure nere vaganti e divaganti di quest’anno saranno ricompensate con il nulla o solo con il mero onore di esserci stati?

Contaminations

Quale idea idea di educazione emerge da questa storia? A quali mostri didascalici della realtà si allude? Forse al qualunquismo di ritorno insieme ad una strisciante restaurazione? Ai miti dedicati ad un popolo che si intende mantenere tale e quale? Che comunque è bene che resti da borghesuccio benestante o povero in canna, nel recinto aulico dei già citati pani e circhi, chiese, spettacoli e spettegoli?

I prodromi narrati in questa antologia storica popsofistica 2014-2023 possono essere utili per capire i mostri di ieri e di oggi e capire quanto di realmente educativo mettessero in campo.

https://researt.net/?s=popsophia&paged=5?s=popsophia&paged=2?s=popsophia

Cronistoria popsofaica per immagini da ReseArt

Mentre percorriamo erranti il programma, pieno zeppo di carneadi (cosa che finalmente di per sé non sarebbe un male), immaginiamo solo per carenza di pecunia per i soliti noti vips vaganti indifferentemente da destra a sinistra, seguiamo diagonalmente, pure con l’apporto della mitizzata IA, gli eventi. Immaginiamo le motivazioni culturpop degli sponsors patrocinanti, guidati dalla Regione di estrema destra, dal sindaco piddino già renziano e la sua città della “cultura”, dall’ineffabile duo Valditara e Sangiuliano degni membri di un rieditato Minculpop.

Ma i mostri qui, oltre a quelli citati, sono evocati, rappresentati, raccontati o mirabilmente e fisicamente presenti ? È un fatto che oggi certo non mancano dovunque ci si giri. Anche qui.

In una teoria di aforismi e allusioni si esplica l’essenza del nostro scritto folle e impressionista attraverso la parola chiave “educazione” durante le fasi principali dell’evento, salvo sentire “un radiatore che fuma” ogni tre minuti…e…darsi subitaneamente ad una fuga precipitosa.

GIOVEDI 6

La “Mostra” di riciclo multimediale. Le TIC nell’ educazione come bricolage pedagogico? Fricchettoni del web e narcisisti dell’effimero? Stupire per intontire ed intortare? Paraarte? Tanta, tanta aria fritta. E il fritto, si sa bene non fa. Di fatto platee rare di giovani. E forse è fonte di speranza, purché l’alternativa non sia Ticche Tocche!!

Involution

CICLI E RICICLI. REPETITA IUVANT?

2023
2021

VENERDI 7

“Mostri e mostriciattolə” Parità di genere mostruoso? Memorie pop? Oscure presenze trans silvane? Tarallucci e vino?

In vino veritas?

SABATO 8

“Mostri gossippari e spiritati de la médiocratie del mediorock nostrano”.

Il clou delle serate un po’ scialbe a nostro avviso. Forse sarebbe stata ad hoc la vecchia location di Rocca Costanza, assai familiare anche per il diskettaro nato con la camicia vilpop che all’epoca avrebbe dovuto forse trattenersi nel maniero per non far danni non d’erba ma di note, urla roche e stereotipi paratrasgressivi. Ahi Victor quanto avevi ragione sul successo e sul talento di mostri costruiti per mode e stereotipi di massa o anche di “società stretta” direbbe un mio amato concittadino. Spero che i giovani in formazione non prendano tutto questo sul serio e tanto meno i loro mentori. Sarebbe l’ennesimo periglioso bricolage pedagogico.

E che dire dei poveri malamente strattonati Proust e Nietzche, sempre citati e ricitati, che perfino il dotto Blasco avrebbe letto per intero e profondamente capito fino ad infondere la sua “filosofia” tesa anche a ritenere utopico (nella sua accezione volgare) inutile ed illusoria qualsiasi velleità di rivoluzione? Perfino l’anfitriona popsofistica ne avrebbe fatto il fucro della sua filosofia pop. Quanta disistima per il popolo, quello vero, non quello del pane e dei circhi vari. Vasco a nostro avviso fa parte dei de gustibus di un bravo artigiano checché ne dica il suo fan amico dal palco. Il gruppo musicale pure è un godibile rassemblement di bravi artigiani. Altra cosa come già scritto era la Compagnia di Musicultura.

LA BANALITÀ DEL MOSTRO RE DI ROCCA COSTANZA

Foto di classe

DOMENICA 9: “Various positions ”

Vi risparmiamo la dissertazione disneyana. Il mostro dei mostri del disegno animato non è mai stato, crediamo, un bell’esempio pedagogico. Tutt’altro.

Niente toccata, solo fuga!!! Cara “Pop Sophia” sappi che il popolo vero non può essere il volgo che gode solo di frivolezze e provocazioni tanto da ridere (come ieri) più per il turpiloquio e le volgarità che per l’ironia a volte emergenti, forse a caso, anche da recite assai intellettuali. È questo che si vuol contrapporre al radical chic o all’attuale prevalente restoration choc? Così non si educa nessuno. Anzi. Si tratta del solito ben collaudato panem et circenses ad usum dei consueti delfini.

Fuga di cervelli mostruosi

La redazione di ReseArt 2014-2023

Post Scriptum: gli avventurosi lettori (pochi credo ma buoni) di questo pezzo per contestualizzare il tutto ripassino l’excursus storico popsofaico proposto:

https://researt.net/?s=popsophia&paged=5?s=popsophia&paged=2?s=popsophia




Conformismi

https://educazionediffusa.net/2023/06/28/conformismi/



Fascismo eterno. Oltrepassiamo la parola verso la sostanza.

Al di là delle definizioni e delle partigianerie sento l’esigenza di prendere spunto da due scritti, uno “storico” e uno attuale, per esprimere qualche riflessione sul tema. L’abuso de termine al di là dei suoi significati storicamente collocabili e significativi oltre che singolari nelle loro varietà (i fasci littori, i fasci rivoluzionari francesi, i fasci anarchici dei lavoratori agrari, i fasci di combattimento..)ha superato tutte le etimologie fino a definire idee, comportamenti, politiche decisamente collocate a destra, alla destra estrema che viene definita anche con tanti prefissi (neo, post,..)

Fasci variegati

Su questa ultima tematica, in un’ottica linguistica, ha ben scritto Libération di recente:

Il premier italiano Giorgia Meloni è “neo” o “post”-fascista? Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”? Esistono le “neo-femministe”? Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola. “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo. Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia.La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità; il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene. Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo. ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico. La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato. Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico. Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo. “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione. È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.

Si va dalle nostalgie che tendono a riproporre una serie di idee e prassi in forma diversa (vedi Costituzione italiana, Disposizioni finali XII ) alle organizzazioni politiche che pur senza richiamarsi ad un periodo preciso o a determinate esperienze storiche ripropongono di fatto presupposti, dogmi, ideali e prassi coincidenti con il pensiero ultraconservatore o reazionario.

Lo scopo è conservare i concetti anche retrogradi della tradizione storica e delle religioni e insieme reagire a qualsiasi forma di innovazione, di tutela di diritti e libertà, sociali, civili ed etiche. Ma c’è anche un pensiero invasivo e diffuso che va oltre la terminologia ma preserva anche bipartisan idee che ormai non sono più solo appannaggio della cosiddetta cultura di destra ma anche della cosiddetta cultura di centro e ahimè anche di una sorta di sinistra senza più distinzioni. Ha fatto riflettere molto a tal proposito, a torto o ragione, il saggio di Umberto Eco “Fascismi eterni”:

Una riflessione ancora più centrata, espressa progressivamente in diversi articoli, è stata quella del mio amico Paolo Mottana sul suo blog di controeducazione:

Ora, per chiarezza, forse occorre ritornare alle radici e per definire le cosiddette culture di destra, di sinistra, liberale, liberista etc… si dovrebbe pensare solo all’insieme di categorie che le caratterizzano ed ai comportamenti che le mettono in pratica. Il capitalismo, il libero mercato, lo sfruttamento, la speculazione, le gerarchie, la meritocrazia, la competizione, l’istruzione obbligatoria e rigidamente regolamentata dallo Stato, l’ineluttabilità della ricchezza e della povertà determinate dal merito e dalla volontà, il diritto alla difesa ed all’offesa, i fondamentali intoccabili delle civiltà (occidentali od orientali che siano): dio, patria e famiglia, l’intangibilità dei confini delle “nazioni”, la superiorità di certe etnie rispetto ad altre, i limiti alla libertà di migrare e tanto altro ancora sono da attribuire senza esitazione alla destra. Tutto il contrario, esattamente il contrario per la vera sinistra accanto ad una via di mezzo al centro e nella falsa sinistra (ormai unica forse, almeno nei parlamenti). La cultura, o quanto meno chi la fa (artisti, scrittori, musicisti, educatori, scienziati, filosofi, poeti…) checché se ne dica non sfuggono affatto a queste categorie, magari non in maniera tranchant, con chiari e scuri, evoluzioni ed involuzioni, e nel loro agire rispecchiano palesemente o subliminalmente la loro idea del mondo e della vita o la loro immagine del mondo e della vita, a dispetto di quanti predicano una presunta assoluta sublime ed empirea estraneità dei geni dell’arte, della musica, della letteratura dalla vita reale e dalle sue contraddizioni. Recenti diatribe senza uscita mi hanno coinvolto nei cerchi magici di adepti, cultori e sedicenti esperti per i casi di Wagner, Proust, Lecorbusier, Céline…

Quale cultura è più utile all’umanità? Quella che la divide in classi, caste, gruppi di potere, superstizioni e spiritismi, fisionomie e fisiologie, terre dei padri e delle madri, giustificando differenze, intolleranze, discriminazioni, competizioni, supremazie, gerarchie e proprietà dell’accumulo o quella che si oppone a tutto questo se possibile non con la violenza ma con una sottile rivoluzione e con una nuova visione dell’educazione liberamente critica e fondata sull’esperienza e l’erranza?

Quale cultura è più utile all’umanità’ ? Quella che la sta convincendo che è conveniente lasciar governare una specie di oligarchia e farsi gli affari propri, magari non andando a votare, in una specie di mal comune mezzo gaudio? Se in tante parti del mondo al massimo il 30 per cento di cittadini elettori decide delle sorti di un intero paese, non siamo già ad una cultura di destra dominante a tutti gli effetti e ad una teoria crescente di dittature palesi od occulte?

Chiudo citando Eco che cita Franco Fortini:

Sulla spalletta del ponte

Le teste degli impiccati

Nell’acqua della fonte

La bava degli impiccati

Sul lastrico del mercato

Le unghie dei fucilati

Sull’erba secca del prato

I denti dei fucilati

Mordere l’aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d’uomini

Mordere l’aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d’uomini

Ma noi s’è letto negli occhi dei morti

E sulla terra faremo libertà
Ma l’hanno stretta í pugni dei morti

La giustizia che si farà.

Giuseppe Campagnoli estate 2023.




Buio, buio, buio…

L’arte della moda e la moda dell’arte a Forlì.

Perdersi tra luci, ombre e strade incerte. Il Mister linea ripescato creativamente a Nantes nel 2014 per guidare nelle vie artistiche e museali urbane sarebbe stato forse una bussola possibile.

Scultura in filo ricotto La Linea Osvaldo Cavandoli, La linea, cartone animato, filo art

Non so se i curatori e gli allestitori abbiano visitato in lungo e in largo nel tempo e nello spazio il mondo delle mostre. Non mi è parso proprio. Parrebbe che la moda prevalga sul buon senso e sulla perizia.

Dall’inizio alla fine è un continuo chiedersi e chiedere alle “maschere”, per la verità molto pronte e cortesi, quale sia la via coerente da seguire insieme al mio amico e collega architetto e artista Claudio, oltre che uno strabuzzare con gran disagio gli occhi da miopi e catarattati per distinguere quadri e scritti immersi nel buio quasi pesto. Non sarebbe anche questa una barriera architettonica?

Colpisce in tutta la compagnia di visitatori la ridondanza e la percepita confusione profusa di pezzi, quadri, oggetti, scritti in un percorso stremante e non chiaramente coerente, se non per una sottile cronologia, di avanti, indietro, a destra, a manca, sopra e sotto suggerito con grande impegno e palese fatica dalle giovani guide a volte un po’ insofferenti.

C’erano con noi anche delle esperte docenti di arte della moda e di storia del costume che hanno rilevato vuoti evidenti di contenuto nell’excursus storico, soprattutto concentrati nel periodo contemporaneo in relazione alle grandi firme italiane e straniere, insieme a sorprendenti ridondanze invece di qualche nome (Germana Marucelli ndr) pur apprezzando alcune scelte di accostamenti pittorici con stili e confezioni d’epoca. Resta impresso comunque l’impatto architettonico e logistico dell’allestimento non proprio azzeccato se si fa eccezione per alcuni indovinati dettagli che forse sono riusciti, si immagina, non proprio intenzionalmente.

Nelle foto che costituiscono il corpus di questo scritto si è cercato di illustrare l’impressione che abbiamo percepito come in un vagabondare (forse anche provocatoriamente originale) tra secoli, forme, colori, corridoi, penombre (o forse meglio ombre) e scoperte di angoli improvvisi, percorsi chiusi, stanze senza vie d’uscita, ricorsi di strade già sperimentate, interventi di mentori in divisa e guide indiane in extremis. Ultimo, ma non ultimo, l’ascolto dei sibili degli allarmi pronti a redarguire all’avvicinarsi dell’occhio, nel tentativo di decifrare le didascalie spesso illeggibili anche a brevi distanze per carenza di illuminazione. Non verrà in mente a qualcuno, fatte salve le tutele (spesso a dire il vero esagerate) delle opere, che la luce naturale, ben dosata e calibrata, sarebbe la soluzione migliore per la visione di tanti capolavori che comunque, al limite, in una accezione futuribile, sarebbero meglio fruibili e comprensibili nei luoghi della loro dimora abituale (ammesso che ne abbiano una), in una specie di mostra diffusa come accade sempre più per il museo diffuso? Alla fine della giostra, stremati per la lunghezza, le giravolte, gli andirivieni nella semi oscurità, e la sofferenza oculare purtroppo c’è stato un sospiro corale di sollievo. Non ce l’aspettavamo, anche per le precedenti esperienze nel bel locus artistico.

Giuseppe Campagnoli

Giuseppe Campagnoli, architetto ricercatore e saggista operante nel campo dell’educazione, dell’architettura per l’educazione e la cultura. Già docente e direttore di scuole artistiche a Macerata, Cagli, Pesaro e Riccione. Responsabile dal 2000 al 2006  dell’Ufficio Studi e Ricerche presso la Direzione Scolastica Regionale per le Marche del MIUR. Fino al 2012 nella lista degli esperti dell’ Education, Audiovisual and Culture Executive Agency della Commissione Europea e dell’UNESCO nel campo della cultura dell’education e della creatività. Fondatore e Amministratore nel 2013 del Blog multidisciplinare ReseArt.com dove scrive di scuola, architettura, arte, politica e varia umanità.Coredattore fin dal 2016 e firma del “Manifesto della educazione diffusa” pubblicato nel 2018.Numerose le pubblicazioni in campo educativo e sui luoghi dell’apprendere.  Collaboratore, tra le altre, della rivista on line Comune-info.net, della Rivista dell’istruzione, Education2.0, Terra Nuova, Innovatio educativa, Le Télémaque. 




L’Italia del cambiamento. Silvio torna a farci ridere! Il padrino è morto aprendo la strada al post fascismo.

Last minute.

Oggi

Il padrino Silvio Berlusconi è morto.

Gérard Biard. Pubblicato il 12 giugno 2023.

Silvio Berlusconi, l’ex capo del governo italiano e miliardario sulfureo, è morto il 12 giugno all’età di 86 anni. Un breve testo per omaggiarlo… a modo nostro.

*

È appena morto l’uomo più famoso d’Italia. No, non il Papa, l’altro: Silvio Berlusconi. Resta la domanda scottante: dove sceglierà – sì,potrà scegliere – il Cavaliere per trascorrere la sua eternità? Se sarà il paradiso, finalmente sapremo il sesso degli angeli, perché Berlusconi si è applicato tutta la vita per essere l’incarnazione del maschio latino in tutto il suo splendore e tutta la sua arroganza. Se invece sarà l’inferno, è meglio che Satana si aggrappi al suo trono e controlli le sue truppe, perché sta arrivando un serio concorrente e potrebbe esserci un colpo di stato nell’aria sulfurea.

Per sfuggire al giudizio, anche all’ultimo, Berlusconi è capace di tutto. Lo ha ampiamente dimostrato nel corso della sua interminabile carriera politica, iniziata nel 1994, all’indomani dell’Operazione Mani Pulite. Ironia della sorte, questa “spazzata giudiziaria” mirava a recidere il cordone ombelicale che legava alcuni partiti politici italiani – la Democrazia Cristiana, ovviamente, ma anche il Partito Socialista – alla mafia siciliana. Senza fortuna, ha spianato inconsapevolmente la strada al più mafioso, al più corrotto, al più abile e al più disinibito di tutti. Imprenditore a tutto campo – immobiliare, cinema, televisione, editoria, finanza, pubblicità, telefonia, calcio… – Berlusconi è diventato in un batter d’occhio uno dei pilastri fondamentali della politica italiana degli ultimi trent’anni. Tutto questo nonostante più di 30 cause legali per evasione fiscale, corruzione, falsi bilanci, finanziamento illecito di partiti politici, appropriazione indebita di fondi pubblici, associazione mafiosa, prostituzione minorile…

Se il suo ultimo mandato da Presidente del Consiglio (2008-2011) non è stato altro che un lungo vaudeville di merda, punteggiato essenzialmente da affari non sempre importanti e feste da “bunga bunga”, il suo ingresso in politica è stato di tutt’altro profilo, con conseguenze che sono andate ben oltre i confini dell’Italia. È stato il primo miliardario ad entrare in politica, scolpendo nella pietra l’idea che lo Stato è un business come un altro e che il cinismo può servire da moralità, aprendo la strada a una sottile schiera di avatar, tra cui Trump è senza dubbio il più vincente. Fu il primo, indagato a tutto campo  dalla giustizia, a parlare di “giudici rossi” e a teorizzare il “complotto” dei magistrati. Soprattutto è stato il primo a “sdemonizzare” l’estrema destra, governando, fin dal suo primo mandato, con i postfascisti di Alleanza Nazionale e con i regionalisti xenofobi e antieuropeisti della Lega Nord.

A Charlie si è scritto molto su Silvio Berlusconi. Anche senza seguire da vicino la scena politica italiana, per molti anni è stato molto arduo da trattare ,soprattutto per un giornale satirico a cui piace ridere di cose non necessariamente divertenti. Ci mancherà? NO. E tanto meno oggi che abbiamo molto a che fare con la sua eredità. Parce sepulti sed…mancherà molto alla satira internazionale. Ricordo un articolo divertente di qualche anno fa su Charlie Hebdo. Speriamo che manchino i suoi danari alla destra.

Nel 2018

Tra cugini non ci si ama molto ma ci si conosce a fondo e  ci si dice la verità. Così Charlie Hebdo ci vede oggi. Fa le pulci ferocemente tutti i giorni a Macron, al suo governo e ai suoi ministri e ora tocca a noi vicini di casa.Non ci offendiamo. Non è null’altro che la verità vista da  un parente disinteressato abbastanza lontano da capirci e da non essere coinvolto emotivamente (come i nostri fratelli spagnoli o greci, per esempio)

Di Gerard Biard. Traduzione di Giuseppe Campagnoli.

“Non ci giriamo troppo intorno. Chi potrebbe credere che il governo appena insediato in Italia possa essere una cosa seria con il suo presidente del Consiglio prestanome, i suoi due vice capibanda Salvini e Di Maio e il suo patchwork di provinciali violenti di estrema destra, di anti parlamentari 2.0 e di grigi tecnocrati? Non ci nascondiamo dietro un dito. Solo un uomo potrà salvare l’Italia è restituirle il suo spirito naturale: Silvio Berlusconi. Ora, riabilitato, è pienamente disponibile. In questi tristi tempi non sputiamo su una buona occasione per divertirci. Ecco i diversi motivi:

  • È una garanzia di stabilità perchè ormai dal 1991 è stato tre volte presidente del Consiglio e non ha mai lasciato la scena.
  • Assicurerà una credibilità internazionale grazie alla sua solida amicizia con Putin. Anche lui gli offerto un letto a baldacchino!  Con Trump sarà culo e camicia nel condividere contatti di escort e serate bunga-bunga.
  • L’unione europea sarà rassicurata perchè saranno meglio le sue barzellette sporche nei summit e le corna nelle foto ufficiali che una minaccia permanente di Italexit!
  • Non è per nulla cambiato: in una recente riunione locale del suo partito ha dato il meglio di sè: quando una ragazza gli ha donato una crosta di un artista locale ha esclamato: ” se potessi scegliere prenderei te” e al dirigente regionale del partito che gridava  : ” ma è mia figlia!” ha risposto con : ” tu hai proprio buon gusto”
  • Infine, cosa più importante, è che gli elettori della Lega e del M5S non si crederanno traditi. Infatti i punti più importanti dell’accordo di governo sono esattamente nella linea di destra di quello che ha fatto o sognato il Cavaliere negli ultimi anni. La flat tax? Lui l’ha proposta fin dal 1994 ma non è mai riuscito a farla approvare. I migranti fuori? Aveva personalmente trattato con Gheddafi per trasformare la Libia in una specie di secondo confine per fermare le flotte di migranti: esattamente ciò che fa l’UE oggi con Erdogan. Tutto questo è la prova del suo talento visionario.Il suo sistema di contenimento dei migranti fu ripreso dal centro sinistra ed è tuttora sostanzialmente in vigore. 

Anche per il sud   ha fatto moltissimo anche con i suoi dinamici rappresentanti (Cosa Nostra, Camorra, Ndrangheta…). Si è impegnato a lungo per una giustizia più semplice ed efficace. Durante i suoi interminabili  mandati non si è mai così tanto adoperato per riformare la giustizia! Il riavvicinamento alla Russia? I suoi legami con Putin sono noti.

Vista dall’esterno come dall’interno la politica  italiana appare come una lunga serie di barzellette. Non si immaginava che si sarebbe prolungata per tanto tempo fino a incarnarsi, un po’ cambiata ma certamente esasperata e manifesta , nel fumoso governo tricefalo del “cambiamento”. Ridiamo allora perché è tutto quello che resta da fare…”

E io aggiungo: finché non ci resterà null’altro che piangere.

Nel 2022 non ci restò null’altro che ribellarci. Ma forse non tutti i mali ( in generale) vengono per nuocere. E se ora la destra rimanesse senza sghei?

Giuseppe Campagnoli

8 Giugno 2018-12 Giugno 2023




Un militare, una spia, un consulente della Casa Bianca, un attivista contro tutte le guerre

Daniel Ellsberg on Nuclear War and Ukraine 16 Agosto 2022

Editor’s note: Ellsberg’s 6/18/22 interview with TheAnalysis.News can be viewed here. An excerpt follows from the full transcript.

Traduzione Reverso documenti. Revisione di G. Campagnoli.

L’invasione russa dell’Ucraina ha reso il mondo molto più pericoloso, non solo nel breve periodo. Le modalità possono essere irreversibili. È stato un attacco tragico e criminale. Stiamo vedendo l’umanità al suo peggio. Finora, dal 1945 non abbiamo visto la guerra nucleare.

Davvero, è stato inaspettato. Quando ero adolescente, negli anni ’40, ’50 o ’60, penso che quasi nessuno che conoscevo si aspettasse che saremmo andati 70 anni dopo Hiroshima e Nagasaki verso un’altra esplosione atomica sugli umani. Oggi potrebbe invece benissimo accadere. Ci siamo stati molto vicini, incredibilmente vicini. Eppure, finora è successo qualcosa che non era facilmente prevedibile: che ciascuna delle superpotenze, Stati Uniti e Russia, si sono lasciate finora bloccare o sconfiggere senza tornare alle armi nucleari. Credo che quasi nessuno contemplasse questa possibilità.

Certo, oggi questa possibilità in un modo diverso si ripresenta. In situazioni passate di stallo, quando una superpotenza si è confrontata con una potenza molto più piccola – che si trattasse di Corea, Indocina, Vietnam, Laos o i russi che andavano in Afghanistan – si è stati in grado di accettare la sconfitta senza usare armi nucleari, sia in Vietnam che in Afghanistan per esempio. In sostanza, noi americani abbiamo subito una sconfitta in Iraq, anche politicamente parlando, come hanno fatto i russi in Afghanistan. In diverse occasioni, falsi allarmi durante le crisi passate avrebbero potuto innescare la guerra nucleare non verificatasi solo per la prudenza dei governanti. Il mondo pendeva dalle decisioni rischiose di persone come Arkhipov nella crisi dei missili cubani o il colonnello Petrov nella crisi del 1983. Una situazione simile potrebbe verificarsi nella guerra in corso in vari modi. Se gli ucraini utilizzassero i sistemi missilistici che ora forniamo loro, che danno loro la possibilità di rispondere agli attacchi russi sul suolo ucraino con attacchi ucraini sul suolo russo, si verificherebbe una grave escalation, probabilmente fuori dal controllo statunitense o di altri contendenti per procura. Ancora una volta, se una possibile sconfitta nel Donbass delle forze russe inducesse Putin, o i suoi comandanti, ad attaccare i punti di rifornimento in Polonia, implicando così direttamente la NATO, potremmo trovarci con gli Stati Uniti e la NATO direttamente in guerra con la Russia. Un rischio che è stato finora evitato.

Mappa fonte Limes.

Ogni leader – Biden, da un lato, e Putin dall’altro – in passato si è astenuto da atti che avrebbero portato i nostri paesi in un conflitto armato diretto. In questo hanno mostrato una sorta di prudenza. Eppure è anche il caso che stiano giocando con rischi evidenti, a causa di ciò che ciascuno sta facendo con ciò che l’altra parte sta facendo. Questo ci sta portando in un territorio completamente nuovo, qualcosa che non è successo negli ultimi 70 anni: l’imminente possibilità di un conflitto armato tra gli Stati Uniti, o la NATO, e la Russia (o, in precedenza, l’Unione Sovietica). Tuttavia, qualcosa che non abbiamo ancora visto, qualcosa che non è ancora stato testato, è la volontà del leader di una superpotenza di perdere o di essere bloccato dall’altra superpotenza. Ciò comporterebbe una perdita di prestigio e una perdita di influenza nel mondo come non è accaduto nelle guerre precedenti.

Per gli Stati Uniti ritirarsi dal Vietnam o dall’Afghanistan on ha inciso affatto direttamente sulla loro capacità di essere una grande potenza o una superpotenza nel mondo. Tuttavia, perdere direttamente contro la Russia o perdere contro gli Stati Uniti è un’altra questione. Non è mai successo prima, e invece potrebbe facilmente accadere ora. Questa è la scommessa di entrambe le parti a questo punto, proprio come entrambe le parti giocavano d’azzardo nella crisi dei missili cubani, in cui io stesso fui coinvolto a un alto livello. Dopo 50 anni di studio, e avendo partecipato direttamente alla crisi, credo che né Kruscev né Kennedy intendessero portare avanti le loro minacce di conflitto armato. Credo che entrambi stessero bluffando. Eppure ognuno di loro stava facendo mosse, dispiegando eserciti minacce e atti solo allo scopo di migliorare i termini di un accordo negoziato che ognuno di loro si aspettava di concludere con condizioni favorevoli. Erano comunque a un passo dalle azioni dei loro subordinati che avrebbero potuto condurre direttamente al conflitto armato.

Un risultato negoziato quanto prima in Ucraina, almeno entro i prossimi mesi, sarebbe molto importante, ma non è purtroppo probabile. Mentre la guerra continua, la possibilità di un’escalation cresce seppure i politici cerchino di evitare un’ulteriore crescendo o un costoso stallo. Quindi stiamo parlando di una lunga guerra in cui vite ucraine vengono distrutte, centinaia di migliaia di vittime sul lato ucraino, così come pure, comparabilmente dal lato russo.

Questa è una situazione tragica per l’Ucraina come per il popolo russo ( a causa delle sanzioni) e per il resto del mondo in merito alle forniture alimentari dall’Ucraina, soprattutto per le popolazioni in Africa minacciate sempre più dalle carestie e dalla fame. Le prospettive di continuare semplicemente a questo livello, anche senza escalation, sono alte. Si scopre che i leader al potere rischieranno e persino sacrificheranno qualsiasi numero di esseri umani per evitare sconfitte a breve termine, disastri o umiliazioni per loro personalmente e per il loro paese. La storia dell’ultimo mezzo secolo, che ho analizzato (avendone partecipato in alcuni dei peggiori aspetti durante mia vita), mi dice che piuttosto che subire una sconfitta umiliante, un leader come Putin è disposto ad alzare la posta in gioco, ad aumentare, a recuperare i fallimenti precedenti, e raddoppiare gli interventi che non tengono conto affatto del costo delle vite umane.

Il rischio che entrambe le parti si assumano l’onere di scatenare la guerra nucleare, anche se rimane ancora in qualche modo limitato, è potenzialmente vicino e disastroso.




Viaggiatori

Il maledetto turismo di massa. L’ennesima storia di una sòla che ormai sta diventando una regola.

Viaggio e coraggio. Tutto il mondo è paese per il turismo selvaggio delle multinazionali, i loro scagnozzi e il povero viaggiatore anche non turista spesso costretto a servirsene.

Dopo altre disavventure, già raccontate, con le multinazionali del turismo di massa (Hertz, Airbnb…) che molti stanno abbandonando già da un po’ con qualche disagio, visto che monopolizzano, insieme ad altri, quasi l’intero mercato di quei servizi, ora è la volta di Booking. Non è un caso che l’opinione pubblica e non solo si stiano ribellando ovunque a questi monopoli residenziali che oltre a distruggere tanti centri storici e realtà paesaggistiche in ogni parte del mondo hanno alterato anche la fruizione di un bene essenziale come l’abitare di fatto escludendone del tutto l’aspetto sociale a favore del mercato incontrollato a fini turistici o di business.

Questa l’ennesima storia. Tale e quale. Giudicate voi.

Nell’Aprile 2023 una famiglia prenota tramite la piattaforma una sistemazione a Roma. Viene proposta una soluzione nel complesso accettabile nel mare magnum di offerte supercostose tipiche della capitale di tutto, nel bene e nel male. Una certa “Trevi Rooms in Rome” in via delle Quattro Fontane offre attraverso Booking una stanza in centro per tre notti a circa 400 euro.

Il cliente prenota come fece altre volte con lo stesso servizio, senza problemi. L’unica condizione (a dir la verità un po’ capestro e che avrebbe dovuto mettere in allarme gli aspiranti clienti) era quella della impossibilità di cancellazione in ogni caso della prenotazione da parte del cliente ( a occhio decisamente fuori dalle garanzie europee del diritto dei recesso). In caso di emergenza dunque si sarebbe perduto per intero l’importo versato. Nonostante si fosse anticipato il pagamento, come al solito, poco prima della partenza, si va alla ricerca dell’indirizzo preciso della struttura di cui stranamente è presente solo la via ma non il numero civico. Allora si telefona al numero presente in rete per contattare il gestore dell’alloggio e con sorpresa si viene invitati con una certa stizza nella voce ed un fare estremamente maleducato a non chiamare il numero (peraltro indicato come contatto) ma a servirsi della piattaforma Booking. Il cliente acconsente e si adopera per conoscere esattamente il posto dove recarsi anche per prenotare un taxi per tempo (a Roma!)ma non riceve alcuna risposta. Allora si reca nella parte del sito Booking relativo alla struttura per leggerne le recensioni e con grande sorpresa viene fuori una caterva di opinioni estremamente negative del tipo: “terribile, truffa, proprietario scorretto, sovrapprezzi non dovuti, stanza sporca, camera non trovata all’arrivo, estremo disagio per chi è riuscito ad accedere al servizio in tempi ragionevoli, nessuna assistenza da Booking…) Nel collage qui sotto solo una minima parte dei commenti

A questo punto il cliente ritelefona direttamente al gestore per avere delucidazioni circa la mancanza di un indirizzo esatto e la caterva di recensioni negative. Non l’avesse mai fatto! Viene aggredito al telefono sostenendo tra l’altro che non si sarebbe dovuto telefonare a quell’ora e tante altre amenità compresa quella che l’indirizzo per strane ” ragioni di sicurezza” sarebbe stato fornito all’ultimo momento il giorno stesso dell’arrivo (!!). Mettendo insieme tutti i pezzi e le informazioni il cliente manifesta l’impressione di trovarsi difronte ad una truffa ricordando che è un crimine e chi la perpetrasse sarebbe pertanto un criminale. In questo caso pur mantenendo la prenotazione il cliente afferma che se ci si fosse trovati in una qualche emergenza all’arrivo si sarebbero interpellate seduta stante le forze dell’ordine. Il gestore diventa sempre più aggressivo e maleducato e dopo aver detto che il cliente non sarebbe stato ospite gradito chiude repentinamente la conversazione. Una successiva telefonata fatta da un familiare serve solo a ribadire i concetti evidenti nella prima e si conclude sempre con la dichiarazione del gestore che i clienti non sarebbero stati graditi. Da qui l’annuncio ovvio del cliente di cancellare la prenotazione e richiedere, vista l’eccezionalità della situazione, il rimborso dell’intero importo non escludendo una richiesta di danni.

Si procede immediatamente e contestualmente viene fatta una segnalazione all’assistenza clienti della piattaforma Booking che rinvia tutta la responsabilità di effettuare o no il rimborso sul proprietario della struttura che naturalmente non dà alcun cenno di risposta. Nell’ultimo contatto tra i tanti ripetuti messaggi, Booking consiglia per l’ennesima volta di attendere il responso del gestore dell’alloggio che però non arriverà mai. Non sappiamo come andrà a finire ma una cosa è certa: verrà coinvolta un’associazione di consumatori per la tutela legale e si farà tutta la possibile pubblicità dell’accaduto. I viaggiatori si ricorderanno naturalmente della Via delle Quattro Fontane e del fatto che, costretti in extremis a prenotare altrove, per non perdere la spesa di viaggio già affrontata, si sono ritrovati a pagare oltre il doppio del dovuto per alloggiare.

L’aria che tira ahimè oggi non è proprio favorevole. Anzi. Chi ne fa le spese sono coloro che viaggiano per diversi motivi e si trovano di fronte ad una offerta alterata e vessatoria, dannosa anche per le città ed i territori. Chi fa affari invece spesso viene difeso da governi che amano la proprietà che sfrutta e la speculazione quasi esentasse.

Una soluzione ci sarebbe: class actions oppure un boicottaggio diffuso prima delle piattaforme e poi del mercato speculativo turistico di alloggi, stanze, appartamenti, loft etc…Quel mercato è estremamente dannoso per il fabbisogno sociale di famiglie in cerca di casa, di studenti, lavoratori, senza tetto oltre che per i centri storici e l’ambiente in generale.

DA STORIE COME QUESTA, CHE SONO ORMAI MIGLIAIA, FACCIAMO NASCERE UN TURISMO DIVERSO, RISPETTOSO DEI BISOGNI ABITATIVI SOCIALI, DEI CENTRI STORICI, DEI LITORALI, DELLE CAMPAGNE , DELLE MONTAGNE, DELL’ AMBIENTE IN GENERALE. OGNUNO NEL SUO PICCOLO. ATTIVIAMO COOPERATIVE NO PROFIT COME UNA SPECIE DI MUTUO SOCCORSO TRA CHI VIAGGIA PER CONOSCERE E CONDIVIDERE.

Turismo infatti. Non si ricominci come prima. Il turismo di massa è sotto processo. È urgente cambiare per non distruggere la natura, le città, i popoli. Dalla Carta del turismo sostenibile del 1995 non è cambiato nulla, anzi. Il profitto prima di tutto, la cementificazione, la ressa dei trasporti e dei servizi inutili. Una delle colpe più gravi è la complicità con il sistema del turismo globale anche di quelle organizzazioni che avrebbero il compito di tutelare l’ambiente e il patrimonio dell’umanità. Il turismo crea ricchezza sfruttando e speculando mentre trasforma e distrugge la natura, i luoghi e gli ambienti antropici. C’è una via di mezzo? Forse. Resta la costruzione del turismo di massa che, con la scusa di favorire forme di rispetto degli altri e di sostenibilità modulando le offerte tra ricche ed economiche, ha invece prodotto un temibile effetto perverso: il completamento della conquista mercantile della terra attraverso il moltiplicatore del turismo stesso nelle sue varianti popolari e d’élite. C’è poi anche l’impostura di questo paradigma vacanziero incoraggiato dalle istanze internazionali del turismo che, per combattere la forma massificata, invitano le autorità locali a scaglionare le presenze nello spazio, soluzione certamente concepibile nel caso dei territori del «sottosviluppo»ma che, in quelli del «super turismo», non migliorerà la vita degli ultimi superstiti abitanti dei centri storici e rovinerà quella degli abitanti delle periferie ancora risparmiate.

Così va il mondo del turismo che spesso finge di ignorare che, mentre propaganda la vulgata anti-turismo di massa, partecipa alla diffusione dell’impostura di un turismo sostenibile mentre non fa che contribuire ad un sistema che giungerà presto al termine del suo ciclo portandosi dietro territori, città, persone. Occorre, con urgenza, reinventare un turismo che concili il viaggio, la vacanza e la cultura con la transizione ecologica, un turismo che rifiuti le illusioni di un mondo passato, un turismo finalmente riflessivo e compatibile con la vita.

Racconto raccolto e commentato da Giuseppe Campagnoli per ReseArt




Maltempo, alluvioni, responsabilità.

Ho scritto dei fatti drammatici provocati dagli eventi meteorologici nelle Marche e altrove in Italia più e più volte e ora mi ritrovo a riproporre pari pari quello che scrissi giusto un anno fa. Di chi sarà la colpa? Forse di tutti: governi, amministrazioni locali, protezione civile, ma da ultimo e non per ultimi anche i cittadini e le imprese che spesso desiderano la botte piena e la moglie ubriaca. Se non ho curato il mio campo, il mio fosso, la mia scarpata non posso prendermela con il comune o con il meteo. Se ho voluto spendere i miei risparmi per i miei diletti invece di provvedere a regolare le acque nel mio giardino e a rispettare le norme sismiche e idrogeologiche della mia casa, non posso andare in piazza a protestare contro il sindaco e dare la colpa ad altri.

Se in Italia, come altrove, si costruisce per speculazione quasi il triplo del fabbisogno abitativo (peraltro drammaticamente non soddisfatto) ovunque e senza regole di prevenzione e protezione chi è responsabile? Se si è buttato  a  mare il trasporto pubblico per vendere auto, trasportare beni su ruote e costruire autostrade su autostrade, ponti su ponti, chi è responsabile? Se per produrre e consumare scelleratamente si è fatto degenerare il clima, si sono alterati e ingigantiti i fenomeni estremi, di chi è la colpa?

 Nessuna previsione ormai, in questo clima alterato e reso estremo,  potrà mai dire con certezza assoluta cosa accadrà dopodomani. La scienza fatica a prevedere certi fenomeni anche entro poche ore! Educazione e  coscienza della prevenzione ci aiuterebbero molto. Ma è proprio in questo campo che le risorse sono state tagliate ampiamente. I cittadini debbono conoscere qual’è la loro parte nella salvaguardia del territorio e debbono sapere come comportarsi prima, durante e dopo gli eventi calamitosi. I cittadini debbono essere messi in grado di valutare bene i rischi che corrono,  ad esempio, quando colpevolmente estorcono permessi (attraverso i TAR, i contenziosi con i Comuni etc..) di costruire e produrre in aree da sempre a rischio. I cittadini debbono contribuire attivamente alla prevenzione ed alla tutela dei beni comuni a partire dal proprio ambiente domestico e dal proprio intorno territoriale cercando di capire che le seconde, terze e quarte case per speculare e investire oltre ad essere una enorme ingiustizia sociale sono una parte prevalente dello scellerato consumo del suolo e della cementificazione cui anche strade e autostrade danno un pesante contributo.

Gli eventi meteo straordinari sono ormai una realtà ma sono una realtà anche l’abbandono delle campagne agli agriturismo e ai pannelli solari, la speculazione edilizia, la speculazione finanziaria e l’ottusità imprenditoriale e politica che hanno creduto che l’Italia fosse un paese per l’industria pesante, per l’ipercommercio e per un turismo invadente,  estremamente massificato e solo godereccio. E’ colpevole però anche l’atteggiamento dei cittadini che protestano per le antenne e non rinunciano a tv e cellulari, che urlano contro la TAV ma si lamentano dei ritardi dei treni, che stigmatizzano l’inquinamento ma non fanno due passi senza auto, allestiscono impunemente tavernette abusive al di sotto del livello stradale, imperversano negli airBnB, nei resort, nelle invadenti ed invasive strutture delle coste, delle montagne, dei centri storici.  Chi è senza peccato scagli la prima pietra e duole constatare come tra le foto di cronaca si notino sindaci e assessori con la pala in mano ad uso e consumo della propaganda non ricordando che il proprio dovere va fatto sempre senza clamore magari dandosi da fare per contrastare i fenomeni della speculazione, del turismo selvaggio, del degrado dei trasporti pubblici, della mala o nulla educazione dei cittadini in fatto di prevenzione e protezione.

 24 Maggio 2015-18 Maggio 2023

Giuseppe Campagnoli




L’école de demain doit rompre tout lien avec le travail

Uno spunto e piccoli passi…

UN BRANO DA UN ARTICOLO DI EMANUELE COCCIA FILOSOFO, DOCENTE PRESSO LA SCUOLA PER GLI STUDI SUPERIORI IN SCIENZE SOCIALI DI PARIGI (EHESS). PICCOLI PASSI…

« La scuola di domani deve recidere ogni legame con il lavoro »

Di fronte a un mondo trasformato e soggetto a un’accelerazione dell’informazione, il lavoro sta scomparendo. Nuovi luoghi di apprendimento, più liberi, collettivi e degerarchizzati, saranno essenziali per orientarci nel mondo. Il termine “scuola” deriva da una parola greca che significa “mancanza di occupazione”. In latino lo stesso concetto era espresso dal vocabolo otium, “ozio”, assenza totale di mestiere, affari, incombenze, commerci. La scuola non è stata così per secoli. È uno spazio dove la conoscenza è un dovere, un lavoro, e dove ogni conoscenza deve preparare gli studenti al lavoro. La scuola non ha mai avuto voglia o bisogno di ritornare all’idea espressa dal suo stesso nome.

L’ordine geopolitico continua a essere sconvolto. Viviamo in un mondo in cui il lavoro sta scomparendo. Non solo nel senso che sta diventando sempre più una merce rara. Soprattutto, è l’ideale stesso del lavoro che scompare. Quella che negli Stati Uniti viene chiamata “la grande rassegnazione”, la rinuncia a fare del lavoro l’orizzonte definitivo ed esclusivo della propria identità, è ormai un fenomeno onnipresente nelle società occidentali. Non è una moda delle giovani generazioni: la ricchezza non si produce più con il lavoro, e il lavoro non porta più la prosperità che aveva sempre promesso. Qualsiasi lavoro, qualsiasi occupazione è diventata tossica perché rinchiude l’individuo in una forma di schiavitù mal pagata. In un tale contesto, è più che urgente riformare la scuola, tutte le scuole, ma soprattutto le università. Tutti i legami con il lavoro devono essere recisi. La scuola deve tornare ad essere uno spazio in cui ogni professione è sospesa, ogni idea del mondo messa in discussione, ogni sapere decostruito e riformato.

Le università dovrebbero finalmente ammettere che le conoscenze che abbiamo ereditato e custodito non ci permettono più di orientarci nel mondo. Il pianeta che abitiamo è cambiato: la natura non risponde più agli stessi ritmi di un tempo, l’ordine geopolitico continua a essere sconvolto, le tradizioni culturali sono state travolte dall’arrivo dei nuovi media che permettono a qualsiasi idea di circolare istantaneamente e di vivere solo quando circola. Invece di continuare ad illuderci che esista una classe di conoscitori del mondo il cui ruolo è quello di introdurre i più giovani all’esperienza del pianeta, dovremmo renderci conto che tutti abbiamo ancora bisogno di studio, e che l’unico modo per farlo è incontrarsi , regolarmente e collettivamente produrre conoscenza.
Non ci devono più essere insegnanti da una parte e studenti dall’altra: ci sono solo studenti, alcuni dei quali possono essere più esperti di altri, e che si fanno carico dello studio collettivo. Dobbiamo anche smettere di vedere l’università come il luogo in cui le generazioni si separano, dove i vecchi insegnano ai giovani. Le università devono diventare lo spazio della mescolanza delle generazioni, l’esercizio del loro reciproco apprendimento di cose che ancora non conoscono.
Occorre cambiare ritmo. Vedersi due ore alla settimana era forse una misura opportuna vent’anni fa: in una settimana non succedeva niente, e soprattutto le informazioni ricevute o prodotte avevano il tempo di assestarsi. Una settimana oggi sono tre mesi di qualche anno fa: gli tsunami di informazioni ed esperienze che ci travolgono ogni giorno rendono il ritmo settimanale del tutto obsoleto. Bisognerebbe vedersi per un’intera settimana, tutti i giorni, in modo flessibile e non statico per tante ore al giorno per fare un’esperienza significativa dal punto di vista umano e cognitivo.

Occorre cambiare la forma stessa della produzione del sapere: dobbiamo abbandonare il feticismo delle parole che ha trasformato tutte le università in templi dove il saggio detiene l’unica forma di verità. Oggi viviamo consumando immagini e comunicando attraverso le immagini: è imperativo che le università e non solo riconoscano che qualsiasi oggetto è in grado di trasmettere verità e che una performance, uno spettacolo teatrale, un videogioco, una fotografia, un film, un video o un’opera plastica hanno la stessa potenza e la stessa precisione di un saggio accademico.
Dovremmo finalmente sbarazzarci della più sterile delle strutture: la divisione tra scienze umane e scienze naturali, l’illusione che lo studio della natura (esseri viventi, fisica, chimica, informatica, matematica) implichi una visione diversa dell’umanità e della sua storia. L’essere umano non è una sfera separata dal cosmo. Siamo fatti della stessa materia del cosmo. Contrariamente costringiamo chi studia matematica o informatica a non sapere nulla di letteratura e continuiamo a pensare che chi studia sociologia possa fare a meno di un’idea precisa di cosa sia l’acido desossiribonucleico. Resiste una forma di snobismo ottocentesco che non possiamo più permetterci.
Chiudiamo le scuole e le università attuali. Creiamo qualcosa di nuovo.. Solo allora potremo orientarci nuovamente su questo pianeta.”

Traduzione e adattamento di Giuseppe Campagnoli




L’architettura di una città educante

L’ARCHITETTURA DI UNA CITTÀ EDUCANTE

INCONTRO SU ZOOM CON GIUSEPPE CAMPAGNOLI IL 5 MAGGIO 2023 ALLE ORE 21:

SI PREGA DI DARE CONFERMA DELLA PARTECIPAZIONE IN ANTICIPO A REDAZIONE@EDUCAZIONEDIFFUSA.NET

Oppure iscriversi qui:

QUI IL LINK: https://us02web.zoom.us/j/83573362362?pwd=TlF4WEVpS3J5dllxT3d1TThrWjNhUT09

ID riunione: 835 7336 2362
Passcode: 306804

OLTREPASSARE L’EDILIZIA SCOLASTICA

I LUOGHI DELL’EDUCAZIONE DIFFUSA

L’ARCHITETTURA DI UNA CITTA’ EDUCANTE

LE BASI E I PORTALI




Un portale per l’educazione diffusa

L’educazione diffusa è un vero manifesto politico che prefigura un mondo radicalmente diverso. L’educazione è alla base di tutte le idee.

Finalmente si avvia il progetto di una “base” web, un’ unica piazza virtuale e reale, da cui partire per comunicare più efficacemente, condividere, raccogliere idee ed esperienze, allo scopo di costruire passo dopo passo un sistema dell’educazione diffusa e superare tante incomprensioni in buona o mala fede sull’essenza della nostra idea e del nostro progetto.

Come ribadisce Paolo Mottana: ” Introdurre l’educazione diffusa nella società, come già molte volte sottolineato, non significa semplicemente portare i ragazzi e i bambini fuori dalla scuola a fare esperienze necessarie alla loro formazione. Significa prendere il mondo come oggi si presenta in tutte le società occidentali e occidentalizzate e rovesciarlo da capo a fondo.
Quello che noi ci proponiamo è che la presenza rinnovata di una parte assai cospicua della popolazione fino ad oggi relegata dentro gli istituti di soffocamento e educastrazione che chiamiamo scuole e che -come ci han ben spiegato Althusser, Foucault e Goodman (tra altri) sono sistemi di soggiogamento e addestramento all’accettazione dei sistemi di potere, in virtù del trattamento dei corpi e delle menti che in essi si praticano-, cambi radicalmente il nostro modo di vivere.
I bambini e i ragazzi che rientrano nella vita sociale, a partecipare, a contribuire, a offrire il loro punto di vista e a imparare, debbono costringere tutta la compagine sociale a interrogarsi su come offrire a questi suoi figli occasioni vitali di presenza piena, di condivisione, di vita intensa insieme a tutti gli altri. Le vie esperienziali che Giuseppe Campagnoli ed io abbiamo suggerito, e cioè servizio sociale, lavoro, cultura simbolica, indagine, corporeità, natura fan sì che bambini e ragazzi entrino nel vivo della società e non siano semplici spettatori.
Ciò significa che il loro sguardo e la loro sensibilità, da sempre più acuti e ancora non intaccati dal ricatto del denaro e del lavoro salariato, non possano non influire sull’andamento della vita generale.
La loro presenza influirà sulla forma delle città, della viabilità, dell’architettura, costringendo a pensare territori che siano in grado di ospitarli non per fare improbabili città dei bambini ma città a misura di tutta la popolazione nella sua integrità e differenziazione.

E ancora:

“Però l’educazione diffusa non è mandare studenti a fare scuola in città (FARE SCUOLA!!!), è totalmente altro ed è scritto nero su bianco nei nostri libri, sorretti da una filosofia politica forgiata in lunghi anni di esperienza e di studio di cui sono testimonianza molti altri volumi e conferenze e battaglie, sulla controeducazione, la gaia educazione e l’antipedagogia. So che questo non piace, mica mi illudo, sono anni che non vengo invitato a uno convegno dalle beghine dei miei colleghi di pedagogia né da quasi nessun altro. Per carità una fortuna perché quei convegni sono la peggior perdita di tempo che a uno possa capitare. Però questo è il segno. Siamo sulla strada giusta. Quando così tanti culi di piombo nel mondo ci ostacolano e ci ignorano vuol dire che noi voliamo alto. E prima o poi qualcuno se ne accorgerà.

“Per connettere e condividere esperienze come ad esempio quelle della Scuola Elfica di Cagliari o dell’Officina del fare e del Sapere di Gubbio e tante altre note ed ignote ispirate all’educazione diffusa occorrerebbe a mio parere costruire finalmente una rete, un portale libero, autonomo, aperto e pubblico, per non disperdersi, agire insieme, diffondere e formarsi per avviarsi sul serio sulla strada della costruzione di un vero sistema dell’educazione diffusa capace di contribuire anche a cambiare radicalmente la realtà.

Durante i nostri incontri di formazione siamo venuti a conoscenza di tante esperienze fuori dal coro, spesso timide e parziali ma da ritenere comunque decisamente affini quando non esplicitamente ispirate all’educazione diffusa. Far conoscere e diffondere quanto più possibile queste esperienze, sparse per l’Italia e a volte nascoste, anche per farle dialogare tra loro è di vitale importanza al fine di sensibilizzare le persone e i gruppi verso un’idea sicuramente più libera ed efficace di educazione, anche allo scopo di organizzare, dopo i tanti incontri in giro per l’Italia, nuovi eventi ricchi di testimonianze e racconti, approfittando anche dell’imminente uscita del volume di Paolo Mottana “Il Sistema dell’educazione diffusa” Tutte le iniziative in campo rappresentano in qualche modo le eccezionali avanguardie di un progetto che varrebbe la pena mettere in rete ed estendere per quanto possibile in forma sperimentale nella cosiddetta scuola pubblica, utilizzando anche le strade offerte dalle norme poco e malamente utilizzate sull’autonomia didattica ed organizzativa delle scuole nella loro attuale configurazione sistemica.

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A partire dal testo del Manifesto del 2017 e dai successivi aggiornamenti in libri, articoli e saggi, si possono infatti aggregare persone, insegnanti, amministratori, associazioni, interessati o in qualche modo già operanti in linea con l’idea di educazione diffusa. Il portale oltre a censire in qualche modo le esperienze, offrire strumenti documentali e bibliografici, attivare iniziative di formazione, può costituire un eccezionale strumento di condivisione e comunicazione collegato anche alle pagine o ai gruppi social già attivi da tempo. La proposta di una rete ed un portale oltre che l’ipotesi di una qualche forma associativa tesa anche ad agevolare burocraticamente le iniziative di formazione, era stata ventilata nell’incontro intitolato “Facciamo il Punto” del maggio 2022 e ripreso durante il seminario a Rimini del settembre scorso. Ora credo sia venuto il momento di individuare un piccolo gruppo di studio per discutere della necessità di pensare ad un portale e alla costituzione della rete. Si accettano interventi, proposte e contributi come commento a questo appello oppure intervenendo sui social già attivi (o scrivendo a researt49@gmail.com) per arrivare al più presto ad un incontro ristretto che attivi una discussione sul tema.

In tempo reale aggiungo solo una chiosa dedicata a chi avesse ancora perplessità o riserve sull’idea dell’educazione e sulla sua efficacia anche per contribuire a cambiare radicalmente la realtà a partire dal rendere protagoniste nella vita le attuali e prossime giovani generazioni. Nel concetto di educazione diffusa non ci sarebbe già un’idea rivoluzionaria del mondo? Non emerge in modo chiaro quali mondi nuovi, Il manifesto dell’educazione diffusa già prefigurava a suo tempo? Quante volte questa idea è stata da noi spiegata e ripresa fino ad oggi?

Cito solo due esempi a caso tra le decine di pubblicazioni tra libri, saggi, articoli sull’argomento.

Da Comune-info. Almanacco di una scuola immobile. Giuseppe Campagnoli 7 febbraio 2020

Tutti d’accordo che la scuola vada cambiata, pochi convinti che debba essere rifondata dalle basi del concetto di educazione magari anche dal di dentro e con coraggio. Il gotha presunto della scuola continua da tempo a pontificare senza offrire una via reale di cambiamento alla radice dei mali. Io soliti nomi e cognomi che si rincorrono nei media e nella letteratura del settore che blatera di scuola elogiando spesso ricette autoreferenti e pannicelli caldi sparsi qua e là nell’empireo delle sperimentazioni miracolose e miracoliste che hanno sempre gattopardescamente lasciato in sostanza le cose come sono sempre state. Si parla ancora di materie, di saperi distinti, di tecnologie, di insegnanti mal pagati e mal preparati, di reclusori scolastici da rifare più belli e moderni, di scuola e lavoro, di scuola e politica, di scuola e azienda, di bullismo, burnout, burocrazia, valutazione, classificazione, democrazia, discente, docente, dirigente…Pochissime le eco che rimandano a qualcosa di più e di oltre. Pochissimo il coraggio di osare anche con il rischio di essere chiamati visionari o sovversivi, come lo erano, d’altra parte Freinet, Illich, Fourier, Ward, Freire… che non sono proprio diventati riferimenti di pedagogie alla moda declinate in troppi modi e in troppe versioni spesso contrastanti tra loro. Non sarebbe il caso di pensare finalmente a un bel repertorio di buone idee e di buone pratiche? A un virtuoso ibrido di belle esperienze che ricostruiscano ex novo una scuola completamente diversa, completamente autonoma dal mondo economico attuale e magari diffusa in ogni ambito della vita e della natura? Ogni sapiente, come spesso accade, deve dire la sua da un parziale, spesso scontato, punto di vista senza apportare nulla di nuovo e significativo nell’antologia delle prediche sulla scuola a cui ormai siamo terribilmente abituati da tanti decenni, forse fin dalla nascita della scuola pubblica. Una delusione cocente e crescente, soprattutto se penso a ciò che faticosamente si sta muovendo al di fuori di questo dorato recinto della solita speculazione educativo-didattica-didascalico-formativa e parapsicosociopedagogica e che spesso è sconosciuto, misconosciuto, boicottato, minimizzato, quando non ostacolato e ghettizzato. Tutto questo ci dice che occorre più che mai osare ed oltrepassare la scuola lasciando da parte i soloni e i mediatici che parlano di tutto e di niente senza offrire nessuna idea veramente rivoluzionaria e globalmente praticabile anche da subito, sicuramente con meno risorse inutili e sprechi diffusi e con più gratificazione per tutti, insegnanti compresi, che per primi rinascerebbero a un nuovo ruolo sicuramente più remunerato e più riconosciuto oltre che appassionante. C’è chi ci sta credendo molto e si sta dando da fare, anche da dentro il sistema. Se siete masochisti e volete versare lacrime amare sul futuro dei nostri giovani e sulla capacità delle genti di leggere e capire la realtà leggete questa mirabile antologia di detti e contraddetti, di pontefici del sapere e del non volere, di mirabili saggi onnipresenti sulla scena abusata degli affabulatori di scuola. Magari vi verrà un sussulto di orgoglio e di disgusto insieme che spinga verso un reale superamento di tutto ciò che rende la scuola a volte vecchia, a volte inutile, a volte pericolosa, a volte perfino grottescamente paradossale.”

Da Comune-info. L’educazione è alla base di tutte le idee Giuseppe Campagnoli 26 Maggio 2022

Attraverso l’educazione è possibile costruire o ricostruire l’idea della pace (e della guerra) come della salute, dell’economia, della città, della natura, della politica, della proprietà, della vita in generale. Ma la condizione fondamentale è che l’educazione avvenga principalmente attraverso l’esperienza e la vita stessa con una serie infinita di quello che in tanti chiamano lo choc educativo che avviene durante le tante esperienze e le osservazioni, le ricerche, le incidentalità, gli studi e le restituzioni e condivisioni in corpore vivi e che si esplicano attraverso un’intelligenza unica, multiforme e multisenso. Il tutto nelle varie scene dell’apprendimento che vanno dal corpo alla natura, all’immaginazione  all’arte, alle storie tratte dalla realtà e dalla fantasia, dalla scienza che cerca e ricerca senza fine e senza dogmi, dalla lingua che è pensiero e delle relazioni umane che non sono separate fra di loro ma rappresentano una interconnessione continua di contatti molteplici e multiformi.  Istruzione, addestramento, formazione sono invece le sovrastrutture parziali e strumentali dell’educazione che non può essere per sua natura codificata e cristallizzata in procedure, programmi, valutazioni competenze e conoscenze determinate dai vari poteri dominanti più o meno sulla base di consensi discutibili quando non indotti o obbligati palesemente o subliminalmente. Conoscere, sapere e saper usare liberamente la realtà e le storie, la creatività e l’immaginario in una accezione collettiva e cooperativa possono mitigare e orientare in senso positivo gli stimoli naturali ai conflitti e all’aggressività se il cosiddetto “mutuo appoggio” fondamentale in natura (cfr. Kropotkin) lo diventasse anche per l’animale della specie umana. L’educazione può, nel tempo salvare il mondo, purché sia libera, diffusa e integrata nei diversi momenti e luoghi della vita, quasi istintiva, sicuramente incidentale.

“Chissà che non si riuscisse a distinguere un briciolo di realtà dalle mille verità costruite, contrapposte come strumenti di potere e di controllo economico, politico e sociale. Chissà che lentamente le persone non si rendano conto che le loro convinzioni, a volte anche quelle apparentemente trasgressive o controcorrente, non siano invece indotte dall’ignoranza costruita su mille verità manipolate, sulle bulimie mediatiche e transmediatiche di social, giornali, tv, a senso unico (il mercato che li gestisce) dai pontificatori, frullatori di pensieri e di idee, sublimi confezionatori di brodi di notizie-fiction, filosofi, scrittori, reporter pro domo sua e mezzi busti d’assalto? Verità e dogmi di tutte le risme sono passati e si sono sedimentati per generazioni e vi passano ancora, attraverso la cosiddetta “istruzione”, pubblica o privata che sia, con i loro strumenti di controllo, classificazione, selezione e infine reclutamento tra le fila di chi ha o avrà potere sulla comunità e di chi obbedirà senza problemi alle leggi, alle notizie, ai racconti, alle favole terribili o seducenti costruite proprio ad usum delphini. Probabilmente con una educazione profondamente e radicalmente diversa il pensiero critico e creativo sarebbe prevalente e porterebbe se non altro a osservare la realtà senza schermi e schemi prefigurati e a farsi più domande ed esprimere dubbi più che certezze indotte e “guidate”. Ci vorrà qualche decennio ma ne varrà senz’altro la pena se si arriverà in tempo.”

Giuseppe Campagnoli 30 Marzo 2023




De senectute 2023

De Senectute 2023. Dialogo tra vecchi.

Claudio Segattini. Architetto in pensione.

“A distanza di 10 anni da quando, in occasione dei miei 70 anni      ho riflettuto sulla  vecchiaia,  sulla condizione degli anziani, devo constatare che non è cambiato niente  da allora. Siamo ancora circa il 25% del totale della popolazione nazionale, ossia la bellezza di 15.000.000 di giovani virgulti ma nessuna delle altre categorie sociali si da da fare per valorizzare ed utilizzare tale massa di persone, comprese paradossalmente anche quella dei politici, sempre a caccia di voti, ma in tal caso ciechi nel non comprendere il potenziale costituito dagli anziani.  In parte sono pure gli stessi vecchi spesso sembrano fregarsene del fatto innegabile che hanno accumulato un’ esperienza significativa ed anche una saggezza invidiabile: una peculiarità non comune a tutti, sia chiaro, ma sicuramente a moltissimi di loro.  Spesso ci si ricorda di loro solo per accudire i nipoti, fare la spesa, pagare le bollette, aiutare economicamente, disperdendo però un capitale umano impressionante. E’ ovvio che esistono (o persistono?) anche persone anziane che hanno ancora un gran peso nella società attuale (professionisti, imprenditori, politici, docenti, artisti) ma percentualmente pochissimi, una specie di oligarchia, spesso meritocratica, che mi pare non ponga particolare attenzione agli “altri vecchi”, se non in termini di mero utilizzo contingente. Resta il fatto che l’assenza di gran parte dei soggetti over 65 , paragonabile ad un esercito muto, non creerebbe un grande scompiglio nei confronti della società di cui “stranamente” fanno ancora parte.

Ma c’è una contraddizione evidente ed un paradosso in un settore in cui la presenza di tali attempati soggetti si rivela assolutamente essenziale in quanto alimenta in modo determinante il mondo delle cure mediche, del mantenimento della salute, ossia di quell’enorme apparato che si impegna costantemente ad allungare all’infinito la vita degli anziani con un mercato colossale, supportato dalla convinzione, culturalmente imperante,  che sia giusto allontanare la morte all’infinito e che occorra preservare l’esercito di consumatori per sé e per coloro che mantengono e supportano in virtù delle disuguaglianze sempre più gravi e diffuse. Da un lato quindi c’è da rilevare come un numero enorme di cittadini è come se non esistesse, per cui non contano niente, dall’altro invece si fa di tutto per perpetuare la loro esistenza, per cui contano eccome!Tale plateale contraddizione acquista invece una logica indiscutibile se si pensa cinicamente alla categoria dei vecchi unicamente come sostenitori materiali dei propri figli-nipoti, delle aziende farmaceutiche e dello Stato mediante le tasse ricavate dalle pensioni che insieme ai dipendenti costituiscono la massima fonte di introiti per lo Stato.

C’è ancora un altro aspetto sostanziale che caratterizza i vecchi, sino ad ora non menzionato strumentalmente, ossia che tali soggetti sono contemporaneamente fruitori di azioni affettive ed erogatori di affetti, il che potrebbe immediatamente riqualificarne l’identità, il ruolo, ma c’è da domandarsi in tutta onestà se tali caratteristiche siano veramente sostanziali per modificare l’opinione imperante su tali esseri umani. A questo punto mi viene spontaneo domandarmi come tutto ciò abbia potuto avvenire. Penso che uno dei motivi possa farsi risalire al fatto che molti anziani fruiscono di una pensione, che li rende, (non sempre e non abbastanza a dire il vero) economicamente autosufficienti, per cui: perché preoccuparsi per loro? Classico atteggiamento derivante dal fatto che tutto si riduce a considerazioni di tipo economico. Un altro motivo può essere determinato dal fatto che le continue modificazioni comportamentali che caratterizzano i rapporti fra le persone, a causa dei continui sviluppi tecnologici, hanno avuto come conseguenza che molti anziani non riescono a tenere il passo con tali continue novità, comprese quelle del linguaggio, diventando inadeguati ai tempi in essere, per cui vengono inevitabilmente considerati “out”, esclusi dalla stessa società in cui però “singolarmente” continuano a far parte.

Ho potuto constatare personalmente che molti di tali individui hanno accettato serenamente di non contare più di tanto, poiché si sentonofinalmente deresponsabilizzati dal fatto di darsi da fare socialmente e di dovere trasmettere le proprie competenze culturali. Insomma, dal momento che hanno raggiunto la pace dei sensi, la pace dovuta all’essere fuori dalla mischia, dalla competizione quotidiana, dalla confusione del mondo, non possono che considerarsi dei privilegiati. Per cui perché ci si dovrebbe preoccupare della loro condizione? Tutto ciò penso che derivi da una concezione imperante nell’attuale società, ossia che la valutazione del prossimo si basi unicamente, compresi evidentemente i vecchi, sulle loro caratteristiche materiali, per cui se costoro su tale piano non manifestano problemi, perché cercare con loro dei rapporti stimolanti, vivacizzanti, perché pensare che ascoltandoli, implicandoli, attivare un confronto con loro possa derivarne un beneficio per entrambe le categorie sociali implicate?

O ancora, poiché i “non vecchi “ devono già affrontare quotidianamente un sacco di problemi, che motivo hanno di occuparsi dei “non problemi” dei vecchi? Oltretutto se anche costoro non esternano rivendicazioni di sorta, perché non perpetuare il più possibile questa particolare pace sociale che si manifesta regolarmente? In definitiva, dal momento che costoro non protestano, non esprimono il proprio punto di vista, spesso neanche votano, praticamente è come se non esistessero, perché intrattenere rapporti con loro, occuparci della loro condizione? Semplice, perché ripeto, ma spero che mi scusiate, tale realtà, tale pace si traduce paradossalmente in uno spreco di risorse umane drammatico che mi intristisce molto.

Tale dispiacere, a ben vedere, mi pare che si possa tranquillamente provare anche per il resto della popolazione , che non mi pare particolarmente impegnata nel porre attenzione alle prerogative significative, positive del prossimo, ossia dell’imponente potenziale di cui dispone e di cui ci si potrebbe avvalere per trarre un giovamento generalizzato. Pura utopia? Certo, ma perché non ricordarci ogni tanto del suo innegabile fascino!

Tornando al dispiacere personale nei confronti del popolo degli anziani, mi sa che nasconde malamente anche quello soggettivo, costituito dal fatto che soffro della constatazione che la mia tenera età mi impedisce di dare spazio ad una energia ed ad una espressività che è ancora corposa in campo intellettivo, ma pesantemente limitata in quello corporeo.Ne deriva una frustrazione notevole, che sono convintissimo appartenga anche a moltissimi miei “colleghi” e che si traduce in un sentimento comune. Ritengo unicamente superabile, da parte nostra, se ci dessimo da fare per farla conoscere agli “altri”, non per impietosirli, ma per renderli coscienti che le nostre e le loro frustrazioni ci rendono simili, scoprire quanto siamo uguali e pertanto (mal comune mezzo guaio) in grado di aiutarci o, come minimo, di capirci meglio. 

Sento ora il bisogno di soffermarmi sugli aspetti comuni che caratterizzano gli anziani:

1° Aspetto:

               La salute. Non scopro certo niente affermando che il nostro “tutto” dipende da come si sta in salute, quanto si sia assoggettati ai malanni con cui dobbiamo spesso convivere e le implicazioni sul piano psicologico. Nei casi più gravi si può arrivare a domandarsi che senso abbia continuare a vivere, se ne vale la pena. Sono convinto  ne valga la pena specialmente se ci si rivolge alla natura più che alla farmacopea sintetica per avere più rispetto dei nostri corpi cercando di combattere le cause per cui si sta male e non gli effetti derivanti.

2° Aspetto:

               La riflessione. Spesso, quando si va in pensione, viene automatico domandarsi come è stata la nostra vita sino a quel momento e si impostano programmi ottimistici per il futuro: Desiderio di stare finalmente tranquilli, di dedicarsi a nuovi interessi, di approfondire quelli già sperimentati, fare viaggi, seguire le novità, coltivare gli affetti, approfondire la propria cultura, la politica, la spiritualità, un vero paradiso. Ma poi, con lo scorrere degli anni e con la mutazione inevitabile della propria condizione e di quella del mondo, ci si rende conto di tutti quei limiti a cui siamo assoggettati. Allora, per evitare la depressione si può scoprire o riscoprire che disponiamo di una amica formidabile, ossia la riflessione, che può aiutarci molto bene a fare il punto della situazione, a fare chiarezza, a diventare un caro e disponibile supporto ogni volta  che avremo bisogno di lei, per aiutarci a recuperare una forma decente di equilibrio, indispensabile per dare ancora un senso alla nostra esistenza.

3° Aspetto:

               La morte. E’ il classico aspetto della vecchiaia con cui dobbiamo inevitabilmente fare i conti. Ho potuto constatare che per ragioni probabilmente culturali o per il semplice fatto che non si vuole perdere la vita, molti miei simili sono molto preoccupati di non poterla evitare, addirittura evitano puntualmente di affrontare l’argomento e i tacitano chi casualmente osa accennarvi. Tutto ciò perché fondamentalmente pensano che possa trattarsi di una brutta esperienza. Ci sono invece quelli come me che per fortuna o per fatalismo o addirittura poiché pensano che il fatidico momento possa rappresentare l’inizio di una appassionante avventura, non hanno nessuna paura di morire (bisogna poi vedere al momento buono!!) e che provano ad ipotizzare soggettivamente come sarà il dopo vita, non tenendo in alcuna considerazione ciò che è stato detto per secoli e con grande sicurezza, dagli imbonitori delle religioni.

Foto di Jonas Peterson

Ritengo anche che valga la pena di riconoscere che la morte rappresenti una lapalissiana manifestazione di democrazia, poiché tocca a tutti inevitabilmente, sia belli che brutti, ricchi o poveri, intelligenti e stupidi ecc. ecc. Essa è in grado di realizzare platealmente una situazione che in tutta la mia, la nostra vita, non abbiamo mai potuto vedere realizzata appieno. Siamo di fronte ad un appianamento positivo della condizione umana, che definirei un fantastico miracolo, cui guardare, in quanto tale, almeno senza paura. Tutto ciò anche alla luce del fatto che, dopo avere raggiunto una età avanzata, è ben difficile che, quando se ne sentisse ancora il bisogno, sia possibile riscattare il valore della nostra vita precedente, puntando su un exploit finale scoppiettante e totalmente appagante. Troppo spesso tale obiettivo si rivelerà del tutto velleitario. Per cui penso che per costoro possa essere più producente soffermarsi sui momenti piacevoli che la vita gli ha regalato, su quelli ancora disponibili e guardare alla prossimo cimento inevitabile con un poco di ottimismo.Siamo agli sgoccioli e in definitiva ritengo, pienamente cosciente di quali sono i vari aspetti della vecchiaia, che valga pienamente la pena di darsi ancora da fare per rendere edificante tale stagione della nostra vita.

                                                                   

Giuseppe Campagnoli. Architetto e preside in pensione.                                                        

Partecipo alla riflessione volentieri cercando di essere, come si diceva una volta, breve, succinto e compendioso. Considero da sempre le fasi della vita come improntate al detto fisico:” nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Il problema dunque sono le trasformazioni e il loro valore. Soprattutto nel nostro paese esiste il giovanilismo accanto  al perseverare diabolico di chi non vuole mollare il suo potere, grande o piccolo che sia. Una separazione che provoca solo danni. L’esercito muto di cui tu parli è generato dalla separazione imposta tra generazioni, una separazione pericolosa e dannosa.Ricordo quando, ormai 10 anni fa, partecipai ad un progetto europeo a Liegi dove con grande sorpresa mi ritrovai a studiare e fare cose artistiche insieme a coetanei di 65 anni o giù di li, giovani trentenni e quarantenni, ragazzi delle scuole e cittadini di ogni età. Ne scaturirono prodotti eccezionali frutto di differenti sensibilità ed esperienze messi in una mostra internazionale del titolo “Il n’y a pas  d’heure pour créer”

Dal film La nuit. 2012

Ogni momento e, quindi, ogni età è buona per creare. Tutta la vita dovrebbe essere così. D’accordo sul mutuo appoggio tra genitori, nonni, figli, nipoti. Ma forse è più necessaria la relazione continua disinteressata e costruttiva. L’esperienza e la saggezza (a parte le canizie vituperose manzoniane che mi pare oggi siano in gran parte collocate con il potere) con la voglia di ricerca di chi apprende per crescere non avrebbero mai dovuto essere disgiunte dalla società. Occorrerebbe sottrarsi con un moto di ribellione alle speculazioni sulla salute degli anziani e sui loro ruoli di badanti economici e non solo oppure all’essere relegati ai circoli sociali, alle bocciofile o alle università delle terze e quarte età. Occorre ributtarsi nel mondo senza remore e senza interessi di profitto anche con il rischio di apparire invadenti. Occorre tornare alle città e a tutti i suoi luoghi vivi mescolandosi con tutti gli altri. Questo significherebbe tornare a vivere concretamente e finire di piangersi addosso. Una virtuosa invasione. I farmaci e i rimedi naturali lo stretto necessario, come per tutti del resto. I vecchi sono in uno di quei passaggi del “tutto si trasforma”. Molte cose del corpo cambiano forma. Occorre  capire e assecondare, magari integrando le defaillances con altre fasi di trasformazione più giovani che di fatto servono anche a questo: a compensare le energie dei più agés. L’aspetto economico invece (le pensioni che sopperiscono a disoccupazioni o sottooccupazioni) sono un malaffare di questo sistema mercantile, ancora classista  ed iniquo che spinge a prendere sempre ed ancora da chi avrebbe già dato abbondantemente e comunque dai più poveri che si tende a far restare tali. La tecnologia in tutto questo è uno strumento che non andrebbe esaltato ma  reso semplice per tutti  e sfruttato in modo democratico. Dovrebbe essere solo uno strumento che tale dovrebbe essere considerato e restare tale in modo da non provocare pericolose dipendenze tra i giovani e inadeguatezze incomprensibili tra le generazioni più grandi.

Foto di Jonas Peterson

Sulle costanti che caratterizzano gli (noi) anziani solo brevi chiose: La salute ahimè spesso è uno scotto da pagare per il vissuto precedente. Ne vanno minimizzati gli effetti o in modo naturale  o artificiale finché funziona e c’è ancora voglia di mischiarsi nella vita. D’altra parte anche la solitudine può avere i suoi pregi. Il dolore no. E allora si può decidere di trasformarsi ancora.

Riflettere su tutto e su tutti, ma soprattutto su sé stessi è un buon esercizio vitale. La morte la considero ancora una delle trasformazioni, forse nemmeno l’ultima. Ha il pregio, come diceva Totò, di rendere tutti uguali?

A mio avviso l’essere uguali dipende dalla sommatoria del prima e del dopo. La memoria presso gli altri, dopo la  trasformazione, che a mio avviso erroneamente  (anche per via di certe scarsissime conoscenze scientifiche della nostra essenza più profonda) forse consideriamo l’ultima,  fa la differenza e di fatto non  livella. L’oblio invece livella malamente. Tutto l’armamentario che ci siamo inventati intorno a questa trasformazione, dalle religioni, ai riti, agli usi e costumi, agli arredi fissi e mobili (!) contribuiscono a farne un passaggio da temere. Le sovrastrutture spesso diventano perniciosamente strutture. Credo sia anche così. Amèn

Un piccolo ma non secondario post scriptum per dire di pensare al futuro capendo finalmente che, per quando la maggior parte di noi trapasserà, bisognerà aver già pensato che non saranno le filiazioni dei giovani di oggi e di domani a sostituirci per il lavoro, la cultura e tutto il resto. Infatti la cosa comporterebbe un lasso di tempo di decenni, e saranno i tanto bistrattati migranti a colmare il gap demografico come del resto è sempre avvenuto nei paesi nascenti o morenti.




Gli Elfi di Cagliari tra le avanguardie dell’educazione diffusa

Nell’articolo, l’ultimo in ordine di tempo con una trattazione completa, che raccontava ai cugini francesi, sulla rivista Le Télémaque, l’esperienza italiana dell’educazione diffusa e della città educante, incolpevolmente, per tempistica e tempestività di informazioni, mancava la citazione-insieme a quelle di Bimbisvegli di Asti, dell’Officina del Fare e del Sapere di Gubbio,della Scuola nel Bosco a Torino, di Fuoriclasse in Movimento di Save the Children e del NABA di Milano-della geniale esperienza della Scuola Elfica Interetnica presso l’I.C. Satta-Spano-De Amicis di Cagliari, che è giunta da poco, tra l’altro, a condividere un vero e proprio Patto di Corresponsabilità tra scuola, famiglia e quindi territorio, anche nella scuola primaria, con riferimenti espliciti all’idea di educazione diffusa.

Ecco, qui di seguito, il racconto quasi in diretta delle maestre e mentori che ho potuto anche incontrare di recente, per una fortunata coincidenza, proprio vicino alla loro “base”- protagoniste di questo eccezionale progetto.

Le maestre mentori della Scuola Elfica Interetnica con uno dei promotori (nel 2017 insieme a Paolo Mottana) dell’Educazione Diffusa.

La scuola elfica, una scuola oltre le mura.

Maestra Cicci Della Calce.

Nel cuore della città di Cagliari, dove i quartieri Marina e Stampace si incontrano, sorge la Scuola Satta. L’edificio, risalente al 1904, è imponente, austero, non si può guardarlo per intero senza volgere lo sguardo al cielo. Dietro le finestre, il suo cuore che batte, le tante generazioni di studenti che da più di un secolo popolano le sue aule. Un pezzo di quel cuore è la scuola dell’infanzia, istituita ventitre anni fa, che ospita più di centocinquanta bambini, dai tre ai sei anni, di diverse etnie, un preziosissimo mosaico frutto della politica di inclusione che la scuola porta avanti felicemente da decenni. È in questo variopinto contesto che è nata e vive la Scuola elfica per opera di un manipolo di maestre eroiche, di cui faccio orgogliosamente parte, artefici di una proposta rivoluzionaria: portare la scuola fuori dalle aule, a contatto con la vita di ogni giorno nella convinzione che la società più che gli edifici scolastici sia l’ambiente adatto per l’apprendimento, che le esperienze debbano essere ricche, intense e appassionanti e il più possibile trovare compimento nella realtà. 

Il quartiere educante

L’inizio di questa meravigliosa avventura risale a cinque anni fa, quando, ispirandoci ai nuovi modelli educativi che si stanno diffondendo in tutta Europa e a seguito di un accordo con l’associazione Punti di vista, partecipammo al progetto Scuola degli elfi (da qui il nome Scuola elfica) affiancandoci in otto uscite didattiche sul territorio. Per la prima volta, visitando parchi, boschi e spiagge, abbiamo sperimentato la didattica in natura e i benefici di fare scuola all’aperto, per la prima volta abbiamo assaporato il piacere di fare scuola oltre le mura vivendo il mondo e non guardandolo da dietro i vetri delle finestre delle nostre aule, per la prima volta ci è sembrato di aver realmente investito sulla felicità dei nostri piccoli. Dall’anno scolastico successivo, questa esperienza è diventata sistematica.

La vendemmia

Abbiamo creato un raccordo col territorio, convenzioni con orti e parchi; accordi con enti pubblici, privati e aziende; abbiamo stipulato un patto con le famiglie che ci hanno garantito il loro pieno sostegno e stanno contribuendo in maniera fondamentale alla realizzazione di questo progetto: portare la scuola fuori dalle aule e dentro la società, rendendo i nostri piccoli alunni protagonisti attivi del proprio apprendimento, soggetti che osservano, che contribuiscono, che partecipano, che offrono la loro creatività, la loro intelligenza e la loro fantasia per migliorare la vita sociale, che la colorano, la impregnano della loro vivacità e del loro colore, della loro sensibilità e della loro freschezza e spontaneità.

Il Portale

La scuola elfica è dunque un progetto di “scuola statale diffusa” che si pone quale alternativa all’istituzione scolastica tradizionale. All’apprendimento della scuola d’aula, mira ad affiancare un apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere rimettendo bambini e bambine in circolazione nella società che, a sua volta, assume in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo. La scuola elfica aiuta i bambini  a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per offrire il proprio contributo alla società trasformando il territorio in una grande risorsa.

La strada

Il progetto nasce altresì dal desiderio di poter far vivere i benefici del vivere in natura, valorizzando tali esperienze in qualità di momenti di crescita personale e di gruppo, ricchi di concetti e metafore riconducibili alle tematiche e agli argomenti svolti in sezione attraverso la didattica esperienziale all’aria aperta, una metodica capace di coadiuvare e valorizzare i programmi tradizionali della scuola. Grazie alla grande ricchezza di stimoli e sensazioni, essere educati nella natura è fonte di innumerevoli benefici per i bambini, sia dal punto di vista fisico sia dello sviluppo cognitivo e psicologico. Ma la scuola elfica si gioca anche dentro le aule, ambienti  accoglienti, caldi, colorati che abbiamo adattato ai corpi dinamici dei bambini, una base dove riunirsi per partire, per poi rivedersi per condividere, rielaborare e approfondire, sono le nostre tane, quelle in cui ci rifugiamo, riflettiamo, ci sentiamo protetti, perché “l’elfitudine” non è solo un modo alternativo di fare scuola, è una filosofia, un modo di intendere l’educazione e la formazione dei bambini che mira a creare piccoli cittadini autonomi, che  offre  ai  bambini  la  possibilità  di confrontarsi  con  il  mondo  circostante, permette loro di acquisire maggior responsabilità e la possibilità di conoscere meglio sé stessi.  

La base

Attraverso   l’ampliamento del  raggio  delle  proprie  attività,  i bambini possono sperimentare contesti relazionali nuovi e sono  sempre chiamati a dare prova di sé e delle proprie abilità e competenze e del proprio livello di autonomia. E’ a partire dalla rinnovata presenza dei bambini nei nostri spazi comuni, e non più solo confinati in luoghi fittizi e separati, che il mondo può diventare di nuovo organico, affettivo, a misura di tutti. Attraverso il progetto elfico, la scuola finalmente esce dall’aula, entra in società per far parte di una vera comunità educante.Il ruolo di noi maestre è quello di osservatrici che, quando serve, intervengono  come mediatrici e accompagnatrici che mettono a disposizione dei bambini le informazioni e le esperienze che possiedono. Siamo  “basi sicure”, un riferimento a cui tornare e a cui rivolgersi quando i bambini ne hanno bisogno. Il modo di interagire con i bambini non può quindi essere direttivo, ma deve instaurare un dialogo continuo in cui una parte impara dall’altra. 

Il Castello

E i risultati? Li vedi dagli occhi dei bambini, dall’entusiasmo per un’esperienza nuova, dalla gioia per una nuova conquista; li vedi dagli sguardi dei genitori che ti affidano con fiducia il loro bene più prezioso in virtù di quel patto sotteso che la scuola elfica esige, di quella condivisione di intenti, in quel rispetto dei ruoli equamente importanti per la crescita armonica dei nostri bimbi. Questa è la nostra scommessa, ciò per cui lottiamo ogni giorno nella perfetta convinzione che la scuola elfica stia fornendo un validissimo contributo alla FIL (felicità intera lorda).

L’ Orto Botanico

Maestra Stefania (Stefania Piras): Ho modificato molte volte il mio modo di insegnare, ma la svolta maggiore è avvenuta cinque anni fa, quando nella scuola Satta abbiamo iniziato, in maniera sperimentale, l’avventura elfica e  ci siamo cimentati in una modalità differente di fare scuola.All’inizio non è stato facile. L’abitudine ad avere tutto esattamente sotto controllo è dura a morire. Poi in realtà ho scoperto che, con i dovuti modi, condurre i bambini nelle loro esperienze, lasciandogli il giusto spazio, è la carta vincente. Sanno sorprenderci, se diamo loro fiducia, se li rendiamo indipendenti, e in grado di gestire i propri bisogni e le proprie esigenze. Ho imparato a  lasciare ai bimbi la libertà di provare, di osare, stando distante, ma non troppo, vicina, ma non troppo, presente, ma non troppo. Ed è stato un successo. Anche nella didattica ho cambiato atteggiamenti: via le schede e i lavori preconfezionati, spazio aperto alla creatività, indirizzando dove occorre, e dando spunti, appassionando e interessando, scoprendo che ai bambini si può veramente insegnare di tutto, se si insegna divertendo. 

Simo, Maestra felice (Simona Buzzi): La scuola elfica è un mondo. Un mondo di colori, di curiosità, di creatività, di scoperta, ma soprattutto di stupore. La scuola elfica è  libertà di pensiero e di azione, di consapevolezza del proprio corpo, dei nostri limiti e delle nostre capacità. Ogni esperienza elfica rivoluziona il nostro modo di fare scuola, sia fuori che dentro le mura di un ambiente scolastico, perché non segna una strada da seguire, ma accompagna i bambini e le maestre nel meraviglioso viaggio della vita. Non sei elfico solo a scuola, ma in ogni scelta del quotidiano, contagi chi ti sta vicino e non puoi più tornare indietro, perché senti di aver fatto la scelta giusta per te e per i tuoi alunni. La scuola elfica è fortemente consigliata, ma, attenzione, dà dipendenza!

Una bellissima storia di affinità, quasi contemporanea all’uscita del Manifesto dell’educazione diffusa, che coinvolge diversi luoghi della città dentro e fuori di essa, come ad esempio l’Orto Botanico dell’Università di Cagliari o le botteghe, i musei, i. monumenti, i laboratori artistici.

Gli Elfi nei pressi della loro “base” vicino alla Piazza del Carmine

Dalla scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo Satta-Spano-De Amicis l’educazione esperienziale, come già detto all’inizio dell’articolo, si sta affacciando anche al segmento della primaria e si gioverà di un apposito patto già sottoscritto tra scuola e famiglie di cui vi riporto dei brani significativi:

  •  Promuovere e attuare scelte metodologiche alternative a quelle classiche attraverso pratiche di educazione diffusa con esperienze concrete di vita reale
  • Scoprire e valorizzare talenti e abilità di ciascuno studente
  •  Sostenere le scelte metodologiche di educazione diffusa con un’informativa sistematica e puntuale, attraverso una comunicazione diretta e con l’utilizzo di tutti i canali istituzionali
  • Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali per ripensare, riprogettare e valorizzare il territorio, attraverso la conoscenza dello stesso, per tornare a prendersene cura e proporre eventuali suggerimenti per renderlo migliore, a partire dalle osservazioni e dalle analisi di bambini e bambine
  •  Creare connessioni e coinvolgere dinamicamente la comunità nel processo educativo, rendendola parte viva, attiva e collaborativa
  •  Far riscoprire la bellezza dello stare insieme collaborando per un fine comune.
  •  Favorire percorsi che permettano ai corpi dei bambini di muoversi autonomamente in spazi ampi e diversi dalle aule o dai giardini/cortili scolastici, favorendo il movimento per migliorare la stima di sé, controllare le emozioni e scaricare le tensioni
  •  Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione che promuova l’emersione dei sentimenti profondi dei bambini
  •  Favorire esperienze di cittadinanza attiva e solidale
  • Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città

I luoghi della città e del territorio teatri delle ricorrenti uscite dalla “base” sono quelli delle esperienze educative, anche incidentali, oltre che organizzate senza rigidezze. L’orto botanico, l’azienda agricola, la bottega, la piazza, la strada, la spiaggia. La natura, gli spazi urbani, gli edifici emergenti sono le scene dove si svolgono le ricerche, le scoperte attraverso le attività non in modo occasionale ma continuo e integrato in tutto il percorso educativo. La vita caratterizza la pedagogia stessa e in qualche modo la supera, come direbbe Colin Ward, con l’esperienza prima che con l’astrazione, provocando gli chocs educativi che inducono curiosità, osservazione, ritenzione e solido apprendimento. Questi bambini sicuramente avranno “anticorpi” potenti ed efficaci per resistere da ragazzi e adolescenti anche a certe perniciose influenze presenti durante il loro percorso scolastico futuro.

Durante i nostri incontri di formazione siamo venuti a conoscenza di tante esperienze fuori dal coro, magari più timide ma da ritenere comunque decisamente affini quando non esplicitamente ispirate all’educazione diffusa. Far conoscere e diffondere quanto più possibile queste esperienze sparse per l’Italia e a volte nascoste al grande pubblico e farle dialogare tra loro è di vitale importanza per sensibilizzare le persone e i gruppi verso un’idea sicuramente più libera ed efficace di educazione, anche allo scopo di organizzare, dopo i tanti incontri in giro per l’Italia, nuovi eventi ricchi di testimonianze e racconti approfittando anche dell’imminente uscita di un testo sul Sistema dell’Educazione Diffusa.

Tutte le iniziative citate rappresentano infatti le eccezionali avanguardie di un progetto che varrebbe la pena mettere in rete ed estendere per quanto possibile in forma sperimentale nella cosiddetta scuola pubblica, utilizzando anche le strade offerte dalle norme poco e malamente utilizzate sull’autonomia didattica ed organizzativa delle scuole nella loro attuale configurazione sistemica. Un enorme grazie dunque ai territori educativi che si sono già coraggiosamente messi in gioco!

L’imago storica dell’educazione diffusa (2016)

20 Febbraio 2023

A cura di Giuseppe Campagnoli

con il preziosissimo contributo delle maestre “elfiche”: Cicci Della Calce, Simona Buzzi e Stefania Piras




Non chiamate anarchici i violenti

Oggi la confusione artefatta, in mala fede o in buona ignoranza delle cose più elementari regna e si diffonde. Prendono slancio idee pericolose perché aristocratiche e settarie ed è utile ribadirne l’essenza. Non vedo nulla di libertario e collettivo in certe posizioni sulla scienza, sulla natura, sull’educazione e su una generica resistenza. Mi ripeto non a caso perché le citazioni e i post che riportano detti e contraddetti di taluni personaggi che hanno fatto dell’ambiguità e del dogmatismo insieme il loro leit motiv si stanno moltiplicando in queste settimane. Tante consorterie, erano e sono decisamente contro la libertà perché usano la violenza e intendono sostituire un potere con un’altro e vengono regolarmente strumentalizzate dal potere di turno esattamente come avvenne nei cosiddetti “anni di piombo” durante i quali molti ne fecero le terribili spese, per ragioni diverse ma sempre stigmatizzatili, come Giuseppe Pinelli o il commissario Calabresi

Ascoltando e leggendo i media affannati o scatenati di questi giorni sull’affaire Cospito mi preme far riflettere seriamente sull’essenza del vero anarchismo che non può essere assolutamente violento per sua natura intrinseca.

Non viene in mente a nessuno il tempo buio dei finti anarchici provocatori fascisti infiltrati come Mario Merlino?

Condivido pienamente e riporto per intero lo scritto di CARLO CROSATO nel 2020 sul Manifesto:

«Gli anarchici li han sempre bastonati», cantava Guccini nel 1976, riassumendo la storia travagliata di un movimento i cui membri sono sempre stati malvisti, perseguitati, fucilati. Se per vittoria si intende l’imporsi definitivo di un obiettivo, perseguendo l’eliminazione di ogni forma di dominio, l’anarchismo ha sempre perso.
Rappresentando una sorta di coscienza critica e intransigente del vivere civile, gli anarchici hanno infastidito il quieto scorrere della storia al punto da meritare la peggior fama, sia essa dovuta a effettive esperienze controverse sia essa dovuta alla diffidenza derivante dall’ignoranza.
Va assolutamente superato il pregiudizio sul legame presunto fra anarchia, violenza e caos. L’anarchia, anzi, nell’espressione di massima coerenza, si lega all’elaborazione filosofica della nonviolenza, in un arricchimento reciproco volto a sradicare non solo il dominio istituito con la violenza, ma anche il dominio che la violenza stessa rappresenta, fosse anche transitoria e funzionale a un fine più alto. Eppure tale pregiudizio permane, a legittimare l’esclusione dell’istanza critica che l’anarchismo anima collocandosi sul margine esterno di ogni realtà istituzionale, spesso scoprendola poggiata sul puro abbandono fideistico.
L’anarchico chiede conto della coerenza tra principi e strumenti con cui essi vengono perseguiti: per questo non può accettare la contraddizione di una convivenza pacifica raggiunta e conservata mediante la coercizione, fuori e dentro lo Stato. Quella anarchica è una ricerca critica e autocritica di coerenza così pervicace da portare a una paradossale diversità di declinazioni di pensiero, prodotti di un dialogo incessante possibile proprio per l’assenza di punti insindacabili da difendere, che non sia quello della liberazione dal dominio e dalla coercizione. L’anarchico non ha un’immagine irenica dell’uomo, ma rappresenta la convivenza pacifica di liberi ed eguali come un intenso lavoro sulla realtà collettiva e individuale. Decenni di riflessione anarchica hanno saputo elaborare proposte concretissime e interessanti senza ricorrere per nulla a forme violente che caratterizzano invece frange di falsa e provocatoria identificazione con il vero pensiero anarchico che guarda caso mette invece sempre il fondamento della sua azione nell’ educazione.”

Sarà un caso che il pensiero anarchico è stato ed è osteggiato dal fascismo, dal massimalismo comunista, dal liberalesimo e dal capitalismo? Sarà un caso che gli unici a stigmatizzare pubblicamente le violenze di Putin aggressore e degli oligarchi russi ed ucraini ognuno per via sua parte, siano stati proprio gli anarchici russi?
Una cosa è certa comunque: a mio avviso Cospito, gli sparuti violenti nelle piazze e tutti i loro affini sono tutto fuorché anarchici. Credo siano decisamente il contrario. Proprio come ai tempi delle stragi di Stato o delle storiche vicende europee dei secoli scorsi.

Restando nel campo realmente libertario è utile rammentare questa nota in Lezioni di Anarchia Edicola 518: “Si rinunci all’ingenuità ma anche alla mera speranza: perché la ribellione è un fatto istintivo, mentre l’anarchia è una squisita questione progettuale che si fonda sul mutuo appoggio”.

Oltre ad invitare i lettori e la pubblica opinione ad approfondire il tema in termini storici seri è utile ricordare che molti intellettuali ed artisti, in campi diversi, nella storia anche recente, hanno mostrato molte e profonde affinità per il pensiero anarchico. Nel campo della letteratura possono essere ricordati Samuel Coleridge, William Blake, William Morris (autore del romanzo utopico News from Nowhere: «Notizie da nessun luogo», 1891), Oscar Wilde, Lev Tolstoj, Franz Kafka, Henri Miller, Albert Camus. Nel campo delle arti figurative vanno citati Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj. Nella musica la lista è molto lunga, tra i più significativi troviamo Fabrizio De André, John Cage, Piero Ciampi, Léo Ferré, Georges Brassens. Nel cinema ricordiamo di Jean Vigo e Luis Buñuel. Nel teatro meritano una menzione gli esponenti del Living Theatre e poi Dario Fo, i Teatri-Offesi, ecc. Nell’urbanistica: Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo. Nell’antropologia: Pierre Clastres, Marc Augé, David Graeber.Più recentemente sono apparsi diversi pensatori che hanno provato a ridare nuova linfa all’anarchismo. Tra questi possono essere citati Murray Bookchin, Daniel Guérin, Colin Ward e Noam Chomsky.

L’ elenco non si esaurisce qui. Tutti impenitenti violenti?

Per chiudere ricordiamo che cosa scrisse il grande artista Camille Pisarro mentre dipingeva i suoi paesaggi sociali urbani e rurali:

« Il primo disegno rappresenta un povero vecchio filosofo che, dopo aver creduto che era giunto il momento, guarda ironicamente la grande città che dorme; vede il sole sorgere radioso e, fissandolo molto attentamente, vede scritta in lettere luminose la parola “anarchia”; la Tour Eiffel cerca di nascondere il sole allo sguardo del filosofo, ma non è ancora abbastanza alta e abbastanza larga per celare l’astro che c’illumina.Questo filosofo rappresenta il tempo, poiché ha una clessidra presso di sé, che sarà ben presto vuota e che egli s’accinge a rigirare per iniziare una nuova era. Vedi che è del simbolismo!…

A cura di Giuseppe Campagnoli 18 Febbraio 2023




I disegni della città educante

La descrizione immaginaria dei luoghi dell’educazione diffusa.

Fin dal lontano 2009 mi sono divertito ad accompagnare, da architetto naïf assolutamente anomalo e dissidente, le ricerche, gli studi, gli articoli, i saggi e i libri dedicati all’idea di educazione diffusa con grafici, schizzi e disegni, per rendere visibile una utopia sempre più vicina ad una realtà.

Oltre agli articoli sulle riviste Educationdue.0, Edscuola, Innovatio educativa, La rivista dell’istruzione, Territori educativi e Comune-info, il corredo grafico ha chiosato tutti i saggi pubblicati sull’argomento dell’educazione interpolato con quello del ridisegno della città e del territorio: da Questione di Stile a Oltre le Aule, da La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa a Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso fino a L’architettura di una città educante, La commedia della città educante e l’ultimissimo Dissertazioni tra architettura ed educazione.

Per riprendere in una specie di antologia questo fil rouge che intende rappresentare, con il disegno, il colore, la prospettiva e la fantasia, un’idea di educazione e un’idea di città, ho raccolto in una specie di album gli elaborati più significativi, a partire da quelli a corredo dell’esordio antesignano di questo nuovo rapporto tra educazione e territorio che insieme all’amico architetto Stanislao Biondo abbiamo pensato nel 2009 per un concorso internazionale di architettura dedicato proprio alla scuola.

Il piccolo catalogo, intitolato I disegni dell’educazione diffusa è già disponibile nelle librerie e in rete e può aiutare a percorrere visivamente la strada che ci ha condotto a costruire, passo dopo passo, un vero e proprio sistema dell’educazione diffusa alternativo ad una scuola obsoleta, classista, mercantile e classificatoria.

Qui sotto una selezione di immagini dal volumetto datate dal 2009 al 2023.

Giuseppe Campagnoli 15 Febbraio 2023




Quelle classi stra-volte. Educazione, violenza e rispetto.

Scrivevo in un recente articolo apparso anche sul sito di Comune-info osservando ciò che sta accadendo nella scuola secondaria di primo ma soprattutto di secondo grado: “Gli stessi insegnanti di questo segmento finale dell’istruzione sono in qualche modo condizionati pesantemente dagli stereotipi, dalla loro formazione o meglio non-formazione pregressa di cui non hanno comunque alcuna colpa.Sono vincolati da una organizzazione rigida e incapace di accogliere e contenere il difficile mondo di quelle età della vita e costretti dalle regole a volte necessarie in luoghi e contesti semireclusori. Si vedono pertanto diretti ad agire in due direzioni principali: la nozione e la meritocrazia, la rendicontazione e la disciplina da un lato e quella che io chiamo la maledetta progettite dall’altro. Parlo della pletora di progetti ed eventi del bricolage sedicente pedagogico ma in realtà solo didattico pensato per una finta innovazione che non fa altro che indorare pillole su pillole (la motivazione, i giuochi di ruolo, il team teaching, la peer education, il learning by doing..) con tante parolacce spesso di chiara origine anglosassone nelle teorie e nelle applicazioni. La didattica cosiddetta alternativa è solo un altro strumento ipocrita per migliorare un modello di scuola che mantiene comunque i suoi parametri fondamentali e si esplica prevalentemente nella gestione spesso obbligata da realtà difficili e complicate, come se si fosse dei secondini che controllano gruppi in gran parte affatto interessati (per diversi motivi: familiari, sociali, di moda del momento) all’indirizzo di studi o alle cosiddette discipline che niente e nessuno potrà mai indurre ad amare in quei luoghi e in quel sistema complessivo. Il fatto che scuole ad indirizzo artistico fossero in qualche modo un’eccezione anche se timida a questa diffusa regola (ma solo per metà delle cosiddette materie, non a caso) è perché erano (prima di essere omologate ai percorsi liceali) un insieme di esperienze e indirizzi di studio, per la maggior parte dei casi scelte per forte vocazione che coinvolgevano le città, la vita, i territori mentre il luogo denominato scuola era una specie di portale ante litteram per muoversi verso le attività molto spesso spostate fuori e non solo in prossimità.”

Ciò che si legge e si vede sempre di più nei media è un mix improntato a confusione, violenza, obblighi insensati, regole di convivenza civile inesistenti o solo formali, demotivazione totale, inutili sforzi di salvataggio di una scuola irrimediabilmente persa da decenni. Dagli insegnanti che vessano gli studenti e viceversa (con punte estreme sempre più diffuse di intolleranza, assenza di rispetto reciproco fino anche alla violenza) fino alla mancanza di indirizzi pedagogici o di spunti realmente innovativi in campo educativo. Molte competenze pedagogiche e applicazioni coraggiose si perdono già dalla fine della scuola primaria, costringendo gli insegnanti ad essere prevalentemente degli addestratori e classificatori. Oltre ai contesti familiari e sociali sempre più disconnessi tra loro, quando non in palese conflitto, oltre all’influenza, sempre più pervasiva e recante dipendenza, dei social, condivisa ahinoi sia dalle famiglie che dai loro figli ,si rileva come sia determinante ciò che si è fatto o non si è fatto negli undici anni di “scuola” che precedono, così come nell’insieme dei contesti sociali e familiari. Il più delle volte i danni pregressi sono decisamente incalcolabili e irrecuperabili se coniugati con l’essere degli studenti nel pieno dell’adolescenza. Riflettiamo anche su come si è alfabetizzata e formata, nella scuola e fuori, la generazione (anni 70 e 80) di gran parte dei genitori dei ragazzi, degli adolescenti di oggi e (perché no?) anche dei docenti.

Ricevo tanti, troppi racconti di “prof” delle superiori disperati di fronte all’impossibilità di motivare, anche con gli strumenti di quello che ho chiamato spesso “bricolage pedagogico”, i giovani presi da tutt’altri interessi in quanto spesso costretti a scelte di percorsi che da soli non avrebbero mai intrapreso. Dai racconti si deduce anche una certa impotenza attribuibile ad una scarsa preparazione dei docenti stessi il più delle volte tutta incentrata sulle discipline, sulla persistente triade tutta utilitaristica e addestrativa delle Conoscenze, Competenze e Capacità. Questa sacra trimurti dell’istruzione è coniugata con inserti di pseudo innovazione tratti dalle ” pedagogie e didattiche” di gran moda che induce ad un gioco continuo e pericoloso tra il mantenimento della cosiddetta disciplina e le attività didattiche che si barcamenano a cavallo tra le indicazioni nazionali, che impongono il raggiungimento di determinati obbiettivi, e l’invito sempre più invadente a progettare improbabili sequenze, unità didattiche, moduli… Il tutto sfocia inevitabilmente nella misurazione numerica sempre inattendibile e limitata alla sommatoria delle anacronistiche “prove oggettive” mitigate dall’introduzione spuria di risibili e spesso inutili giochetti pedagogici in genere tesi a creare un surrogato di esperienza. Lo studente che si impegna e partecipa a questa specie di “dialogo educativo” lo fa per una sorta di remissione ad un destino quasi inoppugnabile oppure perché succube, fin dai percorsi scolastici e familiari precedenti, della competizione e della gara ai voti più alti nonché della rendicontazione familiare. In certi indirizzi di studio l’insegnante è costretto suo malgrado ad una lotta continua e sofferta tesa a mantenere le relazioni in classe ad un livello minimo di civile convivenza mentre solo in determinati contesti e a certe condizioni si riesce a fare delle prove efficaci di pedagogia e didattica, quando il docente (rarissimamente) ne possegga almeno qualche essenziale e applicabile cognizione.

Cito come chiosa e invito a leggere qui di seguito uno scambio surreale di battute vere nei social tra due prof. che ho chiamato “DIALOGO TRA UN VIAGGIATORE SCOLASTICO STRESSATO E UN VENDITORE DI ALMANACCHI EDUCATIVI“(mediatico sedicente filosofo e pedagogista rampante e pontificante)
Venditore di almanacchi  educativi: “Il diritto di educare non è scontato. Non l’ho per aver superato un concorso. L’educazione è nella relazione; e nessuno ha il diritto di educare nessuno se non è disposto a costruire una relazione vera. Una relazione di potere non è una relazione vera. Non hai diritto di lamentarti di nessuno studente se non sei sceso dalla cattedra e non lo hai guardato negli occhi.”
Viaggiatore scolastico stressato: “Sono tante volte sceso dalla cattedra e ho provato a guardare negli occhi come dici tu ricevendo solo sputi e sberleffi, spesso non solo metaforici. Ma forse non sei mai stato in una classe-riformatorio (spiace chiamarla così ma tant’è) di una periferia metropolitana dove nessuna, nessuna, dico nessuna strategia è possibile se non il laissez faire, tacere e lasciar trascorrere il tempo sperando che non succeda nulla mentre per tutto il tempo escono a frotte, flirtano, si menano, urlano, insultano, chattano e non ti permettono neppure di dire una parola, di proporre attività, pure fuori dall’aula o dall’edificio! Forse sei in una bella scuolina liceale di provincia dove certe cose non accadono quasi mai? Comunque sia non hai per nulla detto come faresti concretamente se non ti consentissero  di fare una beneamata cippa, se non sperare che non accada nulla di irreparabile aspettando con ansia la fine dell’ora. Anche in una relazione non di potere possono accadere certe cose se manca del tutto, per consuetudine consolidata, il rispetto reciproco e quando questo è impossibile da ricostruire. La mia conclusione è comunque sempre la stessa: questa “scuola” che obbliga tutti a stare per ore chiusi in una stanza a fare cose che non interessano punto, con pochissime palliative vie d’uscita va chiusa. Solo poche eccezioni confermano questa orribile regola. Oggi poi ancor di più.”

ll fatto è che oggi ad ogni piè sospinto la cronaca riporta episodi di violenze non solo verbali, intimidazioni, continue provocazioni pesanti e dileggi nei confronti degli insegnanti, anche quelli che tentano tutte le strade per un dialogo educativo più avanzato per quello che è possibile essendo quasi nulla la preparazione offerta dai crediti universitari (solo storie di teorie e niente tirocini sul campo) o dal pochissimo tempo e dalle spurie e confuse risorse per prepararsi ai grotteschi concorsi. Per non parlare del ridicolo “periodo di prova” cui sono sottoposti identicamente coloro che hanno già anni di esperienza come coloro che sono all’esordio assoluto. Qui il diritto alla formazione vera e sul campo dei neofiti è quasi assente o malamente e burocraticamente realizzata. Le scuole, dai racconti in diretta, appaiono come un coacervo di omertà, di “ha da passà a nuttata“, di dirigenti ponziopilati e/o burocrati, di famiglie assenti e che delegano le loro enormi problematiche ad una istituzione di fatto inadeguata ed impotente. Non esistono nella maggior parte dei casi, come qualcuno blatera, insegnanti più o meno bravi. Sono dilaganti invece situazioni che né i cosiddetti bravi né i non bravi sarebbero in grado neppure di immaginare di poter gestire. Quando ci provano sbattono contro i soliti muri di pietra o di gomma a seconda dei casi e ne soffrono emotivamente e professionalmente spesso venendo grottescamente e vilmente anche accusati di non saper coinvolgere, motivare, interessare. Nessuno si pone il problema che in certe realtà “ad impossibilia nemo tenetur”? Molti studenti adolescenti non vorrebbero per nessun motivo essere lì dove vengono collocati a forza e senza effettiva scelta. Per questo cercano solo un modo per non annoiarsi e per sbarcare il lunario anche arrivando a creare climi simili a quelli di tante mini “arancia meccanica”. L’unica strada proprio per questo è quella che si propone: cambiare radicalmente tutto prima che diventi una vera e propria “guerra scolastica” come in tanti paesi che ci hanno drammaticamente preceduto in simili scenari (USA, Sudamerica e Francia per esempio).

Le risibili prove di scuole senza zaini, senza voti, classi ribaltate, giochini pedagogici inutili, stanno nascondendo il fatto che questa scuola pubblica che ha raggiunto, anche dopo la tristissima esperienza pandemica, punte inopinate di esasperazione, di violenza e di inutilità prevalentemente nel suo segmento “secondario”, andrebbe chiusa immediatamente oppure sostituita rapidamente e “da dentro” con un sistema diverso, operando come in un trapianto multiplo di organi o del corpo intero stesso. Molti docenti che per paura dichiarano schernendosi che le loro classi, per carità, sono tranquille, rispettose e non danno alcun problema, lo fanno perché hanno rinunciato a tutto, compresi i tentativi di approcci alternativi e lasciano i ragazzi a cuocersi nei loro brodi di coltura senza chiedere nulla e senza dare nulla, facendo decisamente più danni rispetto a quelli gravi già presenti e diffusi fuori e dentro i reclusori scolastici. Gli psicologi imperversano da tempo con mille teorie senza mai entrare nelle realtà concrete e senza un repertorio di praticabili soluzioni ma senza, soprattutto, riuscire a definire le situazioni estreme e pericolose e suggerirne i rimedi. Ho letto saggi di tutti i tipi sulla gestione di gruppi, classi, tribù. Non fanno altro che sciorinare giaculatorie, parole chiave, miracolosi suggerimenti e linee guida superficiali e astratte che appaiono del tutto sconnesse dai fatti reali che stanno accadendo e dalle mille tipologie di situazioni che solo una radicale mutazione del sistema supererebbe d’incanto.

Sarebbe tutto diverso se ci fosse continuità tra un percorso precedente (infanzia, primaria e secondaria di primo grado) improntato anche solo ad una sperimentazione di educazione diffusa che aiutasse, insieme ad iniziative solide e continue di formazione ad hoc degli insegnanti , a ridefinire in senso decisamente innovativo il concetto di educazione, per il momento in modalità sperimentale, anche nell’ultimo tratto del percorso educativo tradizionale.

Importante sottolineare il fatto che comunque, anche nel tratto di vita prossimo alla fine del percorso educativo canonico, quando determinate conoscenze siano di fatto indispensabili e fondamentali indipendentemente dalla motivazione, la modalità esperienziale induttiva debba essere considerata imprescindibile. Non è un caso che proprio poco tempo fa, estendendo il campo a tutto il sapere e non solo a quello scientifico, il nostro fisico Giorgio Parisi abbia voluto sottolineare l’importanza di far precedere l’esperienza all’astrazione.

In una possibile ipotesi di riconfigurazione del percorso educativo complessivo si potrebbe cambiare finalmente strada e contemperare in modo decisamente rivoluzionario le esigenze di preparazione che definiamo universitaria o professionale con la consapevolezza delle scelte fatte e quindi l’induzione di interesse e partecipazione certamente in un ambiente (o una serie di ambienti) fisico e relazionale decisamente opposto a quello attuale, con la costante di una ineluttabile integrazione virtuosa attraverso le esperienze vive, dell’accezione naturale, sociale, familiare, urbana. Si comprenderebbe allora a pieno, non considerandola più noiosa e inutile, perfino l’esigenza, come nella musica, in determinati momenti, del classico “solfeggio” accanto all’esecuzione creativa ed appassionata frutto di improvvisazioni e incidentalità.

Una strada che ritengo però al momento improponibile, per il segmento di età tra i 14 e i 18 anni, visto il contesto attuale che comprende l’organizzazione degli istituti e il modo di lavorare di dirigenti e docenti oltre all’humus studentesco, sarebbe proprio quella di una sperimentazione del tutto improvvisata e avulsa dal percorso precedente perché resterebbe un’isola estemporanea e condizionata dai pregiudizi e dai tabù propri di gran parte del corpo docente della secondaria di secondo grado formata e reclutata anche oggi più da addestratore disciplinare, che da educatore e costretta da una terribile realtà sempre più spesso ad una funzione di badante quando non di secondino o guardiano dei cellulari! Sarebbe utile invece e indispensabile concentrarsi su una preventiva solida formazione degli insegnanti e dei dirigenti per affrontare successivamente percorsi sperimentali in gruppi o classi a partire dal primo anno avendo assunto informazioni e testimonianze sulle caratteristiche del loro percorso negli anni precedenti.

In vista di auspicabili radicali cambiamenti che oltrepassino e sostituiscano l’intero sistema educativo attuale , come ipotizzato nell’articolo La scuola pubblica si chiude ancor di più su sé stessa, si può pensare, nel frattempo, ad un sistema cooperativo in rete di esperienze e progetti di educazione diffusa per cicli completi accanto agli esperimenti possibili (oggi ahinoi sempre meno) nella scuola pubblica promossi e gestiti dai docenti e dalle associazioni che si sono o si saranno già formati in diverse occasioni.

Non è di conforto comunque l’osservazione dei progetti di svendita della scuola pubblica al privato ed all’aziendalismo governativi, accanto alle risibili proposte della cosiddetta “sinistra” avanzata o timida, che auspica nient’altro che più risorse per il personale, l’abolizione delle classi pollaio, il tempo pieno e prolungato, il potenziamento delle scuole nelle realtà più fragili e la diffusione ad libitum di forme di bricolage pedagogico e didattico. Tutto ciò viene definito come una controffensiva valida per riformare la scuola pubblica. Ricordo ancora una volta come non si possa rimodellare nessuna forma con una materia prima da buttare.

Giuseppe Campagnoli Febbraio 2023

NOTE

Giuseppe Campagnoli, architetto ricercatore e saggista operante nel campo dell’educazione, dell’architettura per l’educazione e la cultura. Già docente e direttore di scuole artistiche a Macerata, Cagli, Pesaro e Riccione. Responsabile dal 2000 al 2006  dell’Ufficio Studi e Ricerche presso la Direzione Scolastica Regionale per le Marche del MIUR. Fino al 2012 nella lista degli esperti dell’ Education, Audiovisual and Culture Executive Agency della Commissione Europea e dell’UNESCO nel campo della cultura dell’education e della creatività.Fondatore e Amministratore nel 2013 del Blog multidisciplinare ReseArt.com dove scrive di scuola, architettura, arte, politica e varia umanità.Coredattore fin dal 2016 e firma del “Manifesto della educazione diffusa” pubblicato nel 2018.Numerose le pubblicazioni in campo educativo e sui luoghi dell’apprendere.  Collaboratore, tra le altre, della rivista on line Comune-info.net, della Rivista dell’istruzione, Education2.0, Terra Nuova, Innovatio educativa, Le Télémaque. 

L’Educazione diffusa è un progetto educativo nato con la pubblicazione nel 2017 del Manifesto dell’educazione diffusa, seguito da diversi volumi e articoli a firma di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli nonché seminari, incontri, iniziative e progetti sperimentali in Italia e anche all’estero che hanno coinvolto anche le Università di Milano, Macerata, Parma e Caen (Francia). E’ stato oggetto anche di audizione presso la Commissione parlamentare Istruzione e Cultura nel 2020. Le ultime pubblicazioni sull’argomento sono: una specie di racconto giocoso (“La commedia della città educante”) dedicato alle traversie burocratiche delle sperimentazioni dell’educazione diffusa, un libro di Paolo Mottana intitolato “I tabù dell’educazione” e un saggio in una prestigiosa rivista francese di filosofia dell’educazione: Le Télémaque dell’Università di Caen intitolato “L’educazione diffusa e la città educante”.Uscita a dicembre 2023 un‘antologia di scritti di Giuseppe Campagnoli sull‘architettura della città e l‘educazione. Prossimamente un libro di Paolo Mottana dedicato alla costruzione di un “Sistema dell‘educazione diffusa“.




Maria Montessori, i lati sconosciuti della celebre pedagogia

Articolo di Libération del 7 Febbraio 2023. Traduzione di Giuseppe Campagnoli.

 “Da un’educazione ottenuta dopo una dura lotta in Italia alla fine dell’Ottocento, al coinvolgimento nel fascismo, da cui finì per fuggire passando per l’India, la vita della pedagogista ha conosciuto molte svolte inopinate, spesso nascoste dal grande successo del metodo che porta il suo nome.

 DI CAMILLE PACE

Dal metodo Montessori alle idee di educazione affini. Un testo significativo e illuminante.

 Quello che sappiamo di Maria Montessori è inversamente proporzionale alla fama del suo nome, e le immagini di cubi colorati che il suo nome evocano faticano a cogliere la complessità del personaggio.  Poco male, visto che i fumetti sembrano essere diventati il ​​mezzo privilegiato della sua biografia, il caso ha fatto sì che negli ultimi mesi due diverse pubblicazioni si siano concentrati sul personaggio: la Casa dei bambini, dell’illustratrice italiana operante in Francia Caterina Zandonella insieme all’autrice Halima Steinkis in uno scenario romanzato, e Maria Montessori, la scuola di vita, di Caroline Lepeu e Jérôme Mondolini.  Due opere che evidenziano le zone d’ombra altrettanto affascinanti quanto quelle luminose della storia ufficiale.

 Maria Montessori nacque il 31 agosto 1870 da una famiglia borghese a Chiaravalle, nell’Italia orientale.  A priori, il suo ingresso nella vita ha tutto dalla storia perfetta della determinazione femminista, quella dell’ostinata self made woman: lei vuole studiare, non suo padre, che cerca di metterle i bastoni tra le ruote anche se avesse scelto di essere un’insegnante di scuola elementare. Sfortunatamente si è infatuata della biologia e insiste.  Oltre al padre, deve superare molti ostacoli: il Ministro dell’Educazione Nazionale che non vuole nemmeno una donna a medicina, i banchi universitari dove certi corsi le sono vietati e dove si ritrova sola la notte, unica modo per lei di praticare le dissezioni…

 DRAMMA PERSONALE

 Una delle prime italiane a laurearsi in medicina, Maria Montessori pose le basi per quella che sarebbe diventata la lotta di una vita in un istituto psichiatrico a Roma.  Chiamata ad accudire i bambini “ritardati mentali”, è scioccata nel vedere che non sono separati dagli adulti e sono totalmente poco stimolati: sono messi lì per trattenerli e controllarli, non per curarli.  La dottoressa riesce a isolarli e verifica ciò che sospettava: i giochi e le interazioni tra bambini sono elementi essenziali del loro sviluppo.  Maria Montessori si pone sullo stesso piano del bambino, lo osserva, lo lascia fare liberamente.  Un metodo di apprendimento in autogestione che presto estanderà oltre i cosiddetti “bambini difficili” aprendo la sua prima scuola romana, la Casa dei bambini. Così Maria Montessori diventa pedagogista. Nel frattempo, il suo dramma personale si sviluppa in silenzio.  Incinta fuori dal matrimonio, Maria Montessori deve scegliere tra la sua carriera pagata a caro prezzo e la nascita di suo figlio.  Lo affida a una famiglia di contadini.  Mario Montesano, divenuto poi Mario Montessori, ha ritrovato sua madre solo quando era adolescente.  Sarà il suo braccio destro, il suo segretario personale, e non la lascerà mai.  Ma le sono mancati quei primi anni con lui, gli anni che considerava così importanti.

 BAMBINI IN CAMICIA NERA

Maria Montessori ha una visione e delle ambizioni e non si fermerà davanti a nulla per metterle in pratica. Anche Benito Mussolini si appassiona al suo metodo perché vi vede un ottimo modo per mettere in pratica il fascismo a scuola. Così colei che si definiva apolitica e pacifista finì socia onoraria del Partito Fascista, con bimbi in camicia nera nelle sue classi. La situazione si era evoluta decisamente al di fuori del suo controllo finché non si dimise nel 1933 e fuggì dal paese con suo figlio un anno dopo. Benito Mussolini volta pagina sull’educazione Montessori, ma non sarà per niente facile la sua fondatrice. Braccata in Spagna, Maria Montessori si stabilì infine nei Paesi Bassi, dove nel 1929 creò la sua organizzazione, l’Associazione Internazionale Montessori, ancora attiva e fiorente quasi cento anni dopo.

Qui sotto alcuni disegni tratti dai due volumi citati: La Casa dei Bambini ,Maria Montessori,la scuola di vita.

Maria Montessori visse da lontano la seconda guerra mondiale, esiliata in India (NDR: grazie anche alla sua adesione alla Società Teosofica e comunque in domicilio coatto in quanto cittadina di un paese nemico) dove inizialmente sarebbe dovuta rimanere solo tre mesi. Le ci vorranno ancora sei anni pieni prima di rientrare e trovare un continente distrutto. Consolidò fino alla fine con studi, pubblicazioni e conferenze la sua influenza di superstar planetaria della pedagogia, costruttrice di un impero che oggi rivendica 25.000 scuole nel mondo (ma poco più di 200 in Italia ndr )”

Questo articolo, che di fatto è una recensione scarna di due volumi recenti sull’argomento, spinge ad alcune riflessioni che incuriosiscono e forse invitano ad approfondire leggendo le due singolari pubblicazioni. Io lo farò e cercherò di fare a mia volta una recensione. Ma alcune domande provocatorie, assai provocatorie, per inciso, mi sorgono spontanee: come mai Mussolini era così interessato al metodo Montessori? Che significato ha la sua adesione alla Società Teosofica? Quali e di quale tipo i rapporti con Rudolf Steiner capo dal 1902 della sezione tedesca fino alla secessione antroposofica del 1912 e sicuramente in parte contiguo con il nazismo ed il fascismo?”

https://researt.net/wp-content/uploads/2021/09/Staudenmaier-Peter.pdf?

La Società Teosofica

ReseArt 2023

 




Dissertazioni di architettura ed educazione. Oltre i muri, le aule e l’edilizia scolastica.

Dopo un decennio di impegni e studi, oltre che prove sul campo, dell’educazione diffusa, passando per l’esordio nel 2018 dell’omonimo Manifesto anticipato dalla pubblicazione nel 2017 per i tipi di Asterios editore di Trieste del volume “La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa”, risultati dell’incontro e degli studi congiunti di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli e della collaborazione attiva di tanti amici pedagogisti, insegnanti, associazioni dedicate all’educazione e gente di scuola, propongo una selezione di articoli e saggi sullo specifico argomento dell’architettura declinata come idea dei luoghi dell’educazione, un messaggio  ancora difficile da far passare e che ancora si presta a tanti equivoci e a tanti atteggiamenti conservatori o falsamente innovatori. Pensiamo a come da tempo si parli anche di museo diffuso, albergo diffuso, biblioteca diffusa o ancora meglio “ospedale diffuso”. 

Finisce il tempo dei monumenti da “bianche galere” simboli più spesso di potere e controllo che di uso collettivo o cura. I due ambiti culturali di riferimento sono quelli della contro-educazione di cui tanto ha trattato il mio amico Paolo Mottana e dell’ultra-architettura da me coniato ed esplicato in seno all’articolo recente sulla rivista di filosofia dell’educazione Le Télémaque: 

Ogni luogo è atto all’educazione purché se ne esalti il significato didascalico e di formazione collettiva seguendo un filo rosso tra interessi individuali e necessità collettive. L’ultrarchitettura e la scuola diffusa è andare oltre la funzione codificata dei manufatti – scuole, musei, botteghe, teatri… – e dei luoghi – piazze, strade, radure, boschi… – per renderli virtuosamente eclettici, sottratti al mercato e restituiti alla collettività anche in funzione educante.

L’ e-book e il cartaceo sono già disponibili in rete.

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Una divisa per nascondere le diseguaglianze.

«C’est l’idée qu’on va gommer Mai 68»

Pour le sociologue François Dubet, Brigitte Macron est «en train d’inventer une tradition» qui ne saurait régler le problème des inégalités à l’école. Libération. Intervista raccolta da Romain Boulho.

Traduzione di Giuseppe Campagnoli

Tutto il mondo è paese. E i nostri cugini pare abbiano un concetto di educazione ancora molto conservatore.

“È l’idea che cancellerebbe il ’68”

 Per il sociologo François Dubet, Brigitte Macron sta “reinventando una tradizione” che non può risolvere il problema delle disuguaglianze a scuola.

 RACCOLTA DA ROMAIN BOULHO

 Un ritornello a destra e all’estrema destra, la divisa scolastica, che sarebbe l’antidoto a tutti i mali della scuola, ha un nuovo megafono.  Brigitte Macron, ex insegnante privata di francese, ha appena inserito un nuovo tassello. Mercoledì, alla vigilia della proposta di legge in materia del Rassemblement National di Marine Lepen, la first lady si è detta favorevole: “Cancella le differenze, e fa risparmiare tempo. Scegliere come vestirsi al mattino è dispendioso in termini di tempo e denaro “.  Per François Dubet, sociologo specializzato in scuola e disuguaglianze, già direttore degli studi presso la School of Advanced Studies in Social Sciences, l’idea è un “pensiero illusorio”.

 L’uniforme scolastica suscita molte fantasie, la prima è la sua stessa esistenza…

 Infatti non ce n’è mai stata una in Francia di uniforme.  Nella scuola repubblicana è una leggenda metropolitana.  C’erano camiciotti per ragazze e ragazzi, ma nessuna uniforme.  Era, come dice Brigitte Macron, gonne blu a pieghe e simili, ma nelle scuole private chic, non nella scuola di Jules Ferry.  Ai genitori è stato detto di comprare un camice in modo che i loro figli non si sporcassero, ma non per amore dell’anonimato.  Viviamo oggi in un immaginario scolastico che è in gran parte una ricostituzione.  Sono entrato nella scuola elementare nel 1950 e non ho mai visto una divisa.  È assurdo. Brigitte Macron parla di un modo per “cancellare le differenze”.  Ma cosa viene preso di mira?  La differenza tra ricchi e poveri o è piuttosto un modo indiretto di prendere di mira i segni della differenza religiosa?  Non lo so.  In ogni caso, l’idea che la divisa possa cancellare le differenze è, a mio avviso, puramente immaginaria.  Gli adolescenti sono ossessionati dal loro stile, dal loro aspetto, dai loro capelli, tinti o meno, dalla loro marca di basket… Per quanto riguarda le differenze scolastiche, abbiamo recentemente avuto dati dal Ministero dell’Istruzione sulla composizione sociale degli istituti e non vedo come questo ridurrà le disparità che sono notevoli tra stabilimenti chic, non chic o popolari da cui tutti rifuggono.  È un pensiero magico.

 È una manovra diversiva.  Intanto non riusciamo ad assumere docenti, i risultati scolastici misurati dallo stesso ministero sono un po’ preoccupanti, le classi medio-alte sono a sé stanti, come le classi lavoratrici… Di fronte a disuguaglianze, difficoltà di apprendimento, agli orientamenti che sono un vero e proprio smistamento sociale tra gli alunni, questa idea della divisa mi sembra ridicola.

 Insomma, è solo nostalgia conservatrice, che, peraltro, non può vantare un ritorno a un vecchio sistema, visto che non è mai esistito.  Questa è l’idea che cancellerebbe il maggio del ’68, per standardizzare l’adolescenza.  Alcuni istituti privati ​​estremamente chic adottarono l’uniforme.  Non per creare uniformità, appunto, ma piuttosto per distinguersi, come segno di appartenenza a una casta.  Anche alcuni paesi hanno questa tradizione.  Ho lavorato in Cile e la gente ci è molto affezionata.  Ma ce n’è sempre stato uno!  In Francia stiamo inventando una tradizione, una storia che non c’è. È strano.  Credo sia solo per accontentare le correnti più conservatrici.  Questo tema, che era minoritario perfino nell’estrema destra, viene ripreso oggi senza che nessuno sembri sorpreso.  Zemmour l’aveva messa al centro del suo programma per le presidenziali sulla scuola.  Stiamo solo aspettando il ritorno delle punizioni corporali…

 Tra le ragioni spesso citate, la laicità sta tornando sempre più…

 È un concetto molto strano.  Laicità è il diritto degli individui ad essere tutelati nella loro singolarità. Si dice che tutti sono uguali e che si separa la scuola dalla società.  È un laicismo autoritario, non la tradizione laica.  Il secolarismo visto da Zemmour.  Stupisce che la first lady, ex insegnante in un liceo privato chic, faccia sua questa idea, proprio come aveva avanzato qualche settimana fa quella del dettato quotidiano.  Sappiamo che ci sono problemi con i bambini e i ragazzi – e soprattutto con le ragazze – che reintroducono tranquillamente i simboli religiosi a scuola, i veli, i vestiti lunghi, ecc.  Ma spetta alle istituzioni avere una politica in merito.  Qualche settimana fa, Pap Ndiaye ha assicurato che non spetta allo stato legiferare sugli abiti degli studenti, ma semmai agli istituti stabilire regole….”

Insomma i dibattiti sono sui meriti, sulle divise, sui cellulari in classe! Non solo da noi.




La scuola pubblica si chiude ancor di più su sé stessa.

Non tutti i mali vengono per nuocere.

Sappiamo sicuramente cosa fare.

I segnali non sono affatto confortanti. La scuola pubblica, ora non più pubblica pare, ma solo meritocratica, in mano alla reazione di estrema destra (il peggio infatti non è mai morto) oltre a mettere paletti antidemocratici su diritti e libertà di insegnamento, potrebbe anche precludere più di oggi l’autonomia e la libertà di sperimentare in campo educativo e rafforzare i legami con la vita reale, i territori e la politica che è anch’essa un diritto in educazione. In tempo reale giunge la notizia terrifica dell’istituzione del Ministero dell’Istruzione e del Merito: addestrare e classificare, dividere per censo, fortuna e dispari opportunità. Il timore si fa grottesca e pericolosa realtà.

Senza contare le idee mercantili rispetto all’istruzione che diventerebbe una orribile fiera, peggio di oggi, che andrebbe dalle paritarie, alle parentali alle sofistiche, spiritiste e occultiste, alle statali concesse di fatto al privato in una esasperazione di liberalizzazione educativa.

Cosa potremmo fare allora noi dell’educazione diffusa e della città educante per anticipare il colpo se dovesse essere preclusa la strada della sperimentazione? Un’idea, che solo a prima vista parrebbe un po’ utopistica, non potrebbe essere quella di costruire percorsi autonomi, dal basso sia dentro che fuori dalla cosiddetta scuola pubblica (come ad esempio la scuola degli Elfi di Cagliari, o quella dell’Officina del fare e del sapere di Gubbio ) pronti un giorno a rifondare insieme una società educante, in forma di vera cooperazione sociale diffusa e numerosa? Una immensa rete carbonara dell’educazione che farebbe tanti splendidi virtuosi danni pedagogici !!

Tutto ciò che si prefigura nel progetto di educazione diffusa, nell’ipotesi di una involuzione drammatica del pubblico, non potrebbe realizzarsi allora in autonomia nella società senza alcuna iniziale implicazione statale ma con una forte connotazione collettiva? I costi in una accezione di mutuo soccorso non sarebbero poi tanto superiori a quelli che ahinoi le famiglie comunque sopportano nel complesso per la scuola pubblica (trasporti, contributi, libri e sussidi, attrezzature, tasse più o meno dirette…) mentre una rete di luoghi scelti ad hoc, insieme a tempi e modi radicalmente diversi, potrebbe anche distribuire e ridurre i costi che oggi gravano sull’edilizia e l’organizzazione scolastica fatta di ruderi e gabbie dorate.

Non si potrebbe per intanto contestualizzare l’idea di educazione diffusa in questa eventualità avviando quando possibile il percorso di cui ha parlato Paolo Mottana come annuncio di un vero e proprio sistema educativo, nell’ultimo seminario di settembre a Rimini ? Insegnanti, mentori, esperti e risorse materiali sarebbero ben assorbibili in un’ampia accezione cooperativa.

Parallelamente continuerebbe la formazione destinata a docenti, associazioni, amministratori locali, per proseguire comunque e malgrado tutto l’azione di virtuosa infiltrazione con esperimenti estemporanei o sperimentazioni formali negli ambiti educativi pubblici possibili e praticabili. L’educazione diffusa avviata in forma cooperativa non sarebbe così il rimedio ad una eventuale preclusione di fatto della scuola pubblica a qualsiasi radicale innovazione che sappiamo invece quanto mai urgente, da tempo? È la storia ironica e didascalica della Commedia della città educante che potrebbe farsi realtà unendo, integrando e coordinando per affinità anche tutte quelle esperienze impegnate nella stessa direzione ma oggi separate perché autoreferenziali e sparpagliate anche idealmente. Mai come ora non sarebbe indispensabile unire le energie che operano di fatto in una direzione compatibile con l’idea di educazione diffusa? In tempi migliori si potrebbe pensare di far rientrare nel pubblico statale ,ormai svuotato a causa del nuovo classismo , il percorso così sperimentalmente collaudato e provato sul campo da un a nuova rete di esperienze impegnate in questa sottile rivoluzione in campo educativo. Al tempo stesso si potranno mantenere ed aumentare quelle esperienze che dovessero ancora  «passare » nel pubblico disobbediente o distratto. Una strada lunga ma forse per certi aspetti di questi tempi obbligata ma sicuramente più appassionante nella sua caratteristica di sottile sommossa educativa, quasi un 68 in revival per aprire diffusamente occhi e menti non solo di bambini e ragazzi. Chi aderì e continua ad aderire anche con i fatti al Manifesto dell’educazione diffusa non potrebbe coinvolgersi in questa proposta in modo attivo a partire dai propri luoghi?

Si tratta di un’idea forse balzana, forsanche di una provocazione, seppure a mio parere non tanto peregrina, che metto sul tavolo per un dibattito costruttivo tra quanti hanno a cuore una cambiamento radicale in educazione come prodromo per tutto il resto, a partire naturalmente dal Manifesto dell’educazione diffusa e da tutti i capitoli successivi.

Intanto procede il lavoro di costruzione del progetto di un Sistema dell‘educazione diffusa, al di là delle effimere prove parziali di applicazione di una nuova teoria pedagogica tra le tante. Per primavera è programmata, come annunciato sui social, l‘uscita del libro di Paolo Mottana “Il sistema dell‘educazione diffusa“ edito da Dissensi.




Telefono…casa?

Anche con una penna o una matita, il quaderno o il dizionario, la lavagna, la voce e il sussurro si possono scambiare pizzini in classe e non solo, chattare e bullizzare, magari più lentamente e diversamente, fare vignette e disegnini osceni, copiare e disturbare le attività dei profs. e degli altri. Il cellulare è solo uno strumento più moderno, versatile, rapido e globale. Tutto esce di più e continuamente fuori e tutto si mischia. Ma queste modalità d‘uso di certi strumenti da cosa dipendono? E qui c‘è la luna da osservare.

C‘è una moltitudine crescente di ragazzi insofferenti a questo tipo di scuola nel suo complesso.

Perché anche tanti docenti nonostante la loro passione non riescono ad avere relazioni positive ed efficaci con le classi e spesso si vedono ridurre al ruolo di badanti, secondini o dispensatori di ammonimenti e note? Perché dominano ancora regole su regole insensate o incongrue soprattutto in luoghi semireclusori e didattiche fatte di rigidi nozionismi? Perché tantissimi ragazzi e ragazze soffrono a scuola e molti preferiscono anche abbandonarla? Perché, salvo rare e forse uniche eccezioni, resta uno scollamento enorme tra la quotidianità in classe e la vita fuori dal cancello? Gli stessi insegnanti sono in qualche modo condizionati pesantemente dagli stereotipi della loro formazione o meglio non-formazione pregressa di cui non hanno comunque alcuna colpa.

Sono tutti insieme vincolati da una organizzazione rigida e incapace di accogliere e contenere il difficile mondo di quelle età della vita e costretti dalle regole a volte necessarie per sopravvivere in luoghi e contesti semireclusori. Si vedono pertanto diretti ad agire in due direzioni principali: la nozione e la meritocrazia, la rendicontazione e la disciplina da un lato e quella che io chiamo la maledetta progettite dall’altro. Parlo della pletora di progetti ed eventi del bricolage sedicente pedagogico, ma in realtà solo didattico, pensato per una finta innovazione che non fa altro che indorare pillole su pillole (la motivazione, i giochi di ruolo, il team teaching, la peer education, il learning by doing…) con tante parolacce spesso di chiara origine anglosassone nelle teorie e nelle applicazioni.

Tanti docenti rischiano ogni giorno di essere letteralmente sopraffatti, dileggiati, provocati, intimiditi o impegnati ad evitare che lo siano altri ragazzi o gruppi di ragazzi investiti del sempre più crescente fenomeno del bullismo, della emarginazione, della competizione più o meno violenta indotta dalla società, dalla famiglia e dalla scuola stessa. Questa situazione ormai molto diffusa non è sanabile nell’attuale tipo di scuola e neppure nei suoi ingenui tentativi di miglioramento. È inutile e pericoloso pretendere che docenti senza strumenti e alleanze trasversali possano motivare gruppi di studenti che non hanno scelto di essere lì o che sono lì parcheggiati per svariati motivi. Questa situazione dipende da quello che è avvenuto in tutto il percorso educativo, da quello che avviene all’esterno, in famiglia e dallo scollamento totale tra queste realtà; dipende dalla diseguaglianza e dall’emarginazione, dalla mancanza di vero dialogo, dal classismo mai scomparso ma soprattutto da una concezione dell’educazione, declinata in genere solo come istruzione e addestramento, da demolire prima che sia troppo tardi. Gli insegnanti formati per essere solo degli addestratori e classificatori, non per loro responsabilità grazie anche a forme di reclutamento a dir poco kafkiane, si trovano difronte, come già detto, a una scuola ancora ottocentesca e selettiva per merito e censo che si è tentato fino a ieri invano di correggere con un coacervo di giochini parapedagogici e didattici spesso di importazione.

E ci si meraviglia se i ragazzi in gran parte, costretti dal loro sociale, dal caso, dalla famiglia, dall‘obbligo a senso unico o anche dalla noia, ad una istruzione aliena e reclusoria, vorrebbero essere altrove e lo fanno con i loro strumenti di comunicazione o meglio di evasione preferiti? Sempre meglio che la classica marinata! Gli scenari, continuando così, sono quelli di tempi persi per deposizione o sequestri di smartphones ad ogni piè sospinto o di guerre senza fine tra i tanti domatori delle classi (sempre più raro è riuscire a motivare i giovani su cose per le quali non si avrà mai , giammai, alcun trasporto) per imporre, contrattare, blandire, sanzionare, provare a spiegare e convincere in un dialogo sempre più tra sordi.

La soluzione sta nel rimuovere drasticamente le cause non gli ineluttabili e crescenti effetti! Possibile che non lo si capisca? L‘educazione diffusa sarebbe una strada da percorrere per  cambiare radicalmente paradigma. Perché non provarci? Almeno dal 2023 quando dovrebbe uscire per Dissensi editore,  finalmente dopo anni di ricerche e prove sul campo, “Il sistema dell‘educazione diffusa“ di Paolo Mottana.

Giuseppe Campagnoli dicembre 2022




A memoria

Scuola: basta con l’imparare a memoria?

L’apprendimento a memoria ha fatto soffrire intere generazioni e molti educatori sono convinti della sua inutilità. Sarebbe da eliminare questa pratica di insegnamento? Non è poi così sicuro.

DI RACHID ZERROUKI PROFESSORE ALLA SEGPA A MARSIGLIA E GIORNALISTA. Libération 3 gennaio 2023.

Traduzione e commento di Giuseppe Campagnoli

Ci sono parole che occupano i nostri ricordi con insistenza come macchie di calcare che non vanno via neppure con il bicarbonato. Possono essere frasi, testi di canzoni o slogan pubblicitari. Per Amine sono i versi di una poesia: “Todo Pasa y todo queda” ( «Tutto passa e tutto rimane»). Le recita il giorno del suo matrimonio e alla minima esitazione, il suo testimone, Adil, prosegue. I due trentenni sono cresciuti insieme a Cavaillon, nel Vaucluse. Uno è un infermiere in un ospedale di Nizza, l’altro compra e rivende criptovalute a Dubai. Erano nella stessa classe alle medie quando il loro insegnante di spagnolo ha chiesto loro di imparare a memoria questa poesia di Antonio Machado. È stato 17 anni fa.

Adil è certo che questo esercizio non gli ha permesso di progredire nella lingua straniera ma si rende conto che lo scopo dell’esercizio era un’altro: «Cercava di insegnarci la vita più dello spagnolo», spiega. Conserva l’immagine del sig. Hortelano come un professore romantico, tra coloro che mandano al diavolo le istruzioni ufficiali e che insegnano con il cuore e con le viscere. Faceva l’appello una volta su tre, saliva sui tavoli e preparava le sue lezioni sui post-it, ma le sue mille vite gli permettevano di affascinare il suo pubblico come nessun altro. Era stato marinaio, saltimbanco, poeta, manutentore. Insegnare era per lui un’arte e mai una scienza. Far imparare ai suoi allievi una poesia che gli stava a cuore non obbediva ad alcuna logica pedagogica ma rispondeva ad una volontà umana tutto sommato banale: trasmettere agli altri ciò che si ama.

INGURGITARE A MAN BASSA

Durante la mia formazione universitaria, mi è stato descritto il professore che ricorre al metodo della memoria come, più o meno, una nullità. Bisogna dire che, come il dettato o la lavagna col gesso, l‘imparare a memoria fa parte di quei dibattiti che sono stati padroni nelle sale dei professori. Alcuni reclamano il loro ritorno per idolatria del passato; altri, per reazione, combattono tutto ciò che vi si avvicina. I miei formatori, provenienti da una generazione che questa pratica ha maltrattato facevano parte della seconda categoria: l’apprendere a memoria è stato posto al servizio della loro preparazione diventando lo strumento di quello che il pedagogo Paulo Freire chiamava «la pedagogia bancaria»: una visione dell’insegnamento secondo cui l’unico margine di manovra che si offre agli alunni è quello di ricevere e accumulare, conservare e risputare in cambio di un voto numerico. Risultato: «Ripensando al concorso dei professori delle scuole, avevo l’impressione di scoprire per la prima volta l’età d’oro dei Capetingi o la portata dell’editto di Nantes», racconta Damien, professore in Dordogna. Oggi, alle nozioni che gli sono state fatte «ingerire a man bassa » oppone l’approccio creativo e di ricerca insieme alle elaborazioni libere degli allievi stessi.

La sua collega nella scuola Vaucluse, Hélène, non ha eliminato la memoria ma, nella sua modo di insegnare, ha tenuto a distinguerla da un’altra pratica: «Conoscere a memoria con curiosità, libertà e animo è anche fare proprio un sapere, un testo, un’espressione matematica…Lo psittacismo invece consiste nel ripetere meccanicamente come un pappagallo»

Questo termine, che utilizza in senso figurato, designa un autentico disturbo del linguaggio che spinge chi ne soffre a ripetere le parole altrui in modo meccanico, senza comprenderne il senso. La distinzione che fa Helena allevierà le apparenti contraddizioni di tutte le persone irritate dall’imparare a memoria ma che sono beate di ammirazione nel vedere i loro ottantenni genitori declamare le lunghe tirate del Cid de Corneille apprese decenni prima.

Caroline Boudet, autrice, è una di queste. Racconta che l’imparare a memoria che l’ha disgustata è quello in cui non si percepisce «né la logica, né l’interesse, né la bellezza». C’è infatti un altro apprendimento, né stupido né malvagio, che non si oppone all’apprendimento e alla comprensione ma le nutre. Certo, «sapere a memoria non è sapere» come diceva Montaigne, aggiungendo che è «conservare in memoria ciò che si è ricevuto». Ma è forse, ci dicono le recenti scoperte in neuroscienze, c’è un po’ di più: lungi dall’offuscare l’intelligenza, la memoria la alimenta, la suscita, le fornisce dei materiali.

«UNA PICCOLA IMPRESA CHE NE PREFIGURA DI PIÙ GRANDI»

Si tendeva a credere nel neuromito secondo cui ognuno di noi avrebbe avuto una memoria di apprendimento privilegiata che ci permetterebbe di comprendere meglio e memorizzare le conoscenze: visiva per gli uni, uditiva o cinestetica per gli altri. Nelle sue opere, il ricercatore di psicologia cognitiva Alain Lieury, spazza via questa idea spiegando che le informazioni visive o uditive non fanno che transitare nelle memorie sensoriali, e si ritrovano fuse in una memoria comune, memoria lessicale o memoria delle parole di cui l’apprendimento a memoria è il motore principale. Certo, il significato delle parole è altrove, alloggiato in un’altra memoria detta semantica e che si nutre di esperienza e di manipolazione. Ma la memoria lessicale è la carrozzeria, è quella che i genitori nutrono ripetendo senza fine la parola «automobile» al loro bambino quando quest’ultimo disegna l’oggetto in questione. Senza questo elementare apprendere a memoria, unanimemente incoraggiato, nessuna forma di comprensione potrebbe svilupparsi nel bambino.

Al di là della comprensione, credo che ci sia una memoria che nutre la fiducia in se stessi. È una convinzione personale che non mi ispira alcuno studio ma nella quale la mia esperienza mi conforta. In un piccolo raccoglitore in fondo alla classe, metto insieme poesie, monologhi o estratti di romanzi che mi hanno personalmente colpito. Se uno studente ne impara uno, viene ricompensato; altrimenti, tanto peggio. Ma la stessa musica si ripete ogni anno: giurano che il loro cervello non è capace di trattenere nulla. Provano per orgoglio o per costrizione, lottano e poi riescono. E poi, nel sorriso da vincitore che mostrano dopo aver recitato Prévert o Mahmoud Darwich, nel loro alzare la testa e nella loro palpabile sicurezza, lo vedo: hanno fatto tacere la piaga delle vocine che dicevano loro che non ne erano capaci. L’apprendere a memoria assume allora la definizione di Paul Ricœur: «Una piccola impresa che ne prepara di più grandi.» Perché alla fine è vero, “todo pasa”, ma tre cose di sicuro «quedan»: le parole che abbiamo imparato, la fiducia che abbiamo acquisito e la bellezza che abbiamo coltivato.”

CHE FARE?

La chiave in ogni attività di ricerca, scoperta e apprendimento è la curiosità, l’interesse, la passione anche nel libero e, a volte, faticoso trattenere idee, pensieri, parole, concetti e segni, senza alcuna costrizione ma con la consapevolezza non indotta ma condivisa della loro utilità per la vita.La memoria è una componente naturale che dovrebbe intervenire quando se ne ravvisi l’importanza e la validità che la mente chiede per assimilare in virtù di un profondo interesse senza finalità competitive o classificatorie ma di crescita personale e pure collettiva.

Pensiamo all’apprendimento a volte affrontato con un apparente inutile ripetere, della simbologia e dell’essenza della lingua, della musica, delle arti senza il quale non si potrebbero possedere e praticare anche attraverso l’estrema libera creatività delle combinazioni e dei richiami, questi linguaggi soprattutto con l’esperienza dell’induzione e una serie infinita di “chocs educativi“.

Nell’educazione diffusa c’è anche questo in controluce ma in una modalità opposta rispetto a quella usata e abusata da tempo. Lo vedremo bene nel prossimo scritto in uscita di Paolo Mottana sul “sistema dell’educazione diffusa”, dove ne verrà delineato tutto il percorso pedagogico, ambientale e anche didattico. Il 2023 sarà l’anno cruciale.

Giuseppe Campagnoli Gennaio 2023




Gli amici che “contano”

Prendo le mosse da un’eccezionale riflessione del mio amico e “socio” di studi in campo educativo Paolo Mottana: “Il grande nemico: il pensiero calcolante”, per qualche breve memoria di supporto a questa indiscutibile idea del vivere. Scrive ad un certo punto Paolo:

“Ma cos’è, cosa significa concretamente imperio della ragione strumentale? Meglio ricordarlo: anzitutto e in termini generali commisurare tutto in base all’utile che se ne può ricavare e mai a ciò che qualcosa è o merita intrinsecamente. Applicato alla vita quotidiana ciò significa che si misura il tempo da dedicare a qualunque cosa in base all’utilità, al beneficio, spesso in termini di danaro o successo personale, che se ne può trarre. Anche nei rapporti umani, nell’amicizia e persino nell’amore. Una persona spesso si cerca solo per sfruttarla, o sfruttarne le conoscenze. Un amico o un amore si abbandona quando non ci serve più o quando, con il gergo che ormai abbiamo adottato disinvoltamente, ostacola la nostra realizzazione personale. O quando addirittura, peccato mortale per lui o lei, lo appesantisce con le sue richieste in contrasto con le nostre esigenze e urgenze.”

Percorrendo la mia esistenza dagli esordi ai giorni nostri in ambito parentale, studente, professionale, amicale, amorale (da amore o quel che si dice sia) ho purtroppo rilevato molti, troppi conti, numeri e misure. Tanti che facendo la tara è rimasto poco o nulla. Questa contabilità è spesso terribilmente prossima all’aberrante concetto di merito che permea ogni angolo della vita. Posso citare a memoria e brevemente solo alcuni episodi cruciali ma non necessariamente emergenti.

Mi promisero un tempo (quando c’erano gli esami complementari, gli assistenti, le gavette al seguito di baroni e baronetti) una carriera accademica solo che avessi garantito l’apertura e la cura di una succursale di studio di progettazione completamente gratis e con un gravosissimo impegno di procura di clienti. Il mio senso della misura (appunto) e le risorse familiari inesistenti mi preclusero questa strada già mercantilizzata in partenza.

Quasi nello stesso periodo mi ingannarono prospettandomi subliminalmente, facendo i conti su di un finto innamoramento effimero e fallace, una vita piuttosto agiata in cambio di un matrimonio da principe consorte di una famiglia di bottegai, non proprio intellettuali, cui avrei dovuto fare da vassallo rinunciando anche ai miei ideali artistici, professionali e pure politici. Anche qui resistetti, mollai nel breve lasso di poco più di un anno e ne ricevetti dopo poco un lutto tragico oltre all’eredità di una prole già fagocitata dalla stessa genìa e in seguito poco e male frequentata con uno strascico mai finito di danni e sofferenze.

Ci furono amici provvidenziali a quel tempo, amici che non smetterò mai di ringraziare ma che alla fine, sempre per motivi conclamati di contabilità e opportunità, sono scomparsi all’improvviso dal mio orizzonte insalutati ospiti.

Un giro di boa apparentemente radicale avvia un periodo decisamente positivo su tutti i fronti ma non su quello delle relazioni e delle amicizie. Una frotta di amicizie che si tengono ben salde in costanza del mio successo professionale e dell’apparato scolastico per sfumare invece poi lentamente ma inesorabilmente alle soglie del pensionamento e dell’abbandono degli impegni amministrativi e professionali.

L’ esordio in una nuova attività piena di voglia di rinnovare e rivoluzionale le idee di quegli spazi che mi avevano deluso in precedenza, la scuola e l’architettura, mi fanno incontrare, per estrema affinità, persone eccezionali e disinteressate con cui prosegue un sodalizio tuttora proficuo, appassionante e coinvolgente anche alla mia ormai avanzata anagrafe. Parallelamente appaiono amicizie collegate all’ambito famigliare e filiale che dopo un periodo apparentemente sano e condiviso subiscono invece la medesima triste sorte di altri labili rapporti. Anche i figli nel frattempo raccontano sequele di esperienze negative in questo campo di relazioni avvelenate da opportunismi strumentali ben mascherati da questa cultura del pensiero calcolante. Scrive infatti anche Paolo Mottana: “Temo che non sia più recuperabile perché la vedo sempre più diffusa nei giovani, nel loro modo di gestire le relazioni, gli amori, i programmi di vita, il tempo. Anche in loro avverto la fine della gratuità, della passione, del piacere, a favore del calcolo, del cinismo, del discincanto, dell’ironia e del sarcasmo.

Una ultima perla in ordine di tempo di questa cultura ce la offre proprio una amicizia che mi era parsa tanto solida, in momenti in cui le nostre qualità potevano essere ben utili, quanto invece si è rivelata progressivamente e subdolamente labile, effimera e caduca quando il tornaconto è venuto meno e parallelamente sono comparse strane diffidenze, piccoli e banali contrasti, presunte invidie mai rilevate prima neppure sottotraccia. Anche questa esperienza è finita malamente e forse in parte senza altra motivazione che quella appunto del pensiero calcolante. Un vero peccato.

La relazione o l’amicizia dovrebbero invece volare, credo , sopra ogni difficoltà anche di caratteri e intemperanze per capirli invece di misurarli, giudicarli e condannarli, a volte perfino in contumacia! Non riesco e non voglio entrare nelle vicende di studio e di esordio nel mondo del lavoro dei giovani in un mondo che mi è parso sempre più dominato da questo pensiero in chi offre posizioni, attività, opportunità, in chi si pone come mentore o collega e complice di insegnamento o ricerca, spesso ad usum delphini nonostante e forse a dispetto di vere passioni, saperi, abilità dimostrati più nel dire, nello scrivere e nel fare che nell’essere misurati o classificati.

Mi piace chiudere questa teoria di pochi ma per me emblematici esempi con la chiusa di Paolo Mottana:

Non mi illudo ma non posso fare a meno di denunciare ancora e ancora, insieme ai tanti che mi hanno preceduto e che combattono con me, questa egemonia distruttiva. Un dominio che sta facendo a pezzi la nostra vita, le sue zone più amabili, quelle dell’amore, della passione, della gratuità, dell’utopia e dell’immaginazione, del piacere di esserci oltre ogni ricatto economico. Ovvio, il calcolo non è il male assoluto in sé ma lo diventa nella misura in cui assume la guida totalitaria del nostro comportamento. Mi dimenticavo di dire che al fondo, o al termine della ragione calcolante ovviamente ci sono il vuoto, il gelo sentimentale, l’estinzione della vita, lo sterminio.”

Giuseppe Campagnoli dicembre 2022




Schiaffi al merito

La cooperazione è meglio della competizione

AIDA N’DIAYE su Libération

Traduzione di GCampagnoli

La farfalla Monarca

Dopo il dituttodipiù dei soliti ed insoliti italici pontificatori in fatto di scuola e di società di cui ormai non se ne può più, leggiamo un parere d’oltralpe apparso oggi su Libération, un giornale un tempo sovversivo oggi soltanto cautamente liberaleggiante.

A voi!

“Competizione piuttosto che cooperazione: schiaffi alla meritocrazia.

Quale soluzione migliore del merito potremmo sognare in una società che si pretende a tutti i costi meritocratica? Chi non vorrebbe dare agli studenti il senso dell’impegno e il gusto del lavoro valorizzando e premiando i più meritevoli? Eppure…Nelle grandi città francesi, più di un terzo degli alunni della scuola secondaria frequentano istituti privati. Queste cifre sono tanto più allarmanti in quanto, in modo più o meno condiviso, la scuola resta l’istituzione da cui ci aspettiamo collettivamente che mantenga o rafforzi il legame sociale. Come ridare allora tutto il suo senso e il suo posto alla scuola e, più in particolare, alla scuola pubblica? Come restituire agli studenti e agli insegnanti il gusto della scuola? Tale questione emerge periodicamente nel dibattito pubblico e politico. A destra come a sinistra, una stessa risposta, uno stesso valore sembrano imporsi come un’evidenza per offrire una soluzione alle difficoltà che il nostro sistema scolastico incontra: il merito.

Ma è poi un principio buono per pensare e organizzare la società in generale e la scuola in particolare? Non avremmo tutto da guadagnare se smettessimo di vedervi l’alfa e l’omega di una società giusta? L’idea di merito presuppone innanzitutto che basti volere per potere (in altre parole, che «quando si vuole si può») e poi che il lavoro paghi (in altre parole, che gli sforzi compiuti siano sistematicamente coronati da successo). Ma questo non è affatto scontato. Infatti se tutto è solo una questione di volontà, bisognerebbe che questa volontà sia alimentata da una motivazione solida: incoraggiamenti, un contesto favorevole, un incontro che ci aprirà delle porte, ecc., sono alcuni degli elementi che possono fornirci le condizioni favorevoli a giustificare impegno e lavoro. Chiediamoci anche perché questi sforzi si potranno rivelare proficui: quali condizioni devono essere soddisfatte affinché il lavoro che svolgo sia sinonimo di successo nel senso economico o sociale del termine? Anche qui il contesto storico, culturale, sociale, ecc., svolge un ruolo determinante.

Tutte queste ragioni fanno sì che non ci si possa accontentare di dire che chi riesce lo deve al suo solo merito, con il corollario che chi non ci riesce avrebbe fallito. È proprio per questo motivo che l’ambiente sociale di origine resta una variabile che influenza fortemente e in modo determinante i percorsi scolastici Siamo dunque lontani da una meritocrazia, cioè da una società in cui gli unici sforzi compiuti determinerebbero il successo degli individui. Ma si può andare ancora oltre nel rimettere in questione la meritocrazia. La critichiamo perché riteniamo che non sia efficace. Dicendo questo, riconosciamo che si potrebbe aspirare ad un’autentica meritocrazia, cioè ad una ripartizione dei beni materiali o simbolici che siano legittimati da ciò che sarebbe dovuto a ciascuno ( “a ciascuno secondo il suo merito”) e non secondo censo o ricchezza. Sarebbe innegabilmente un sistema cui aspirare. Ma sarebbe un sistema il cui principio di fondo sarebbe di ricompensare gli individui mettendoli in competizione gli uni con gli altri.

Il sistema scolastico è così amante delle procedure che, classifica gli studenti, organizzando così una sorta di grande mercato della scuola in cui gli studenti si confrontano e in cui il successo degli uni avviene a scapito di quello degli altri. In questo sistema non si tiene assolutamente conto del fatto che i percorsi non sono mai strettamente individuali. Ciò che una meritocrazia, anche possibile, dimentica dunque fondamentalmente, è questo dato ineluttabile, che il successo non è mai realizzato da un solo uomo o da una sola donna. Ciò a cui dobbiamo aspirare per rendere gli studenti esseri completi per partecipare di una società complessa è un sistema scolastico che valorizzi la cooperazione al posto della concorrenza e della competizione. Mi sembra imperativo che la scuola si occupi di questo argomento lasciando il posto, fin dalla più tenera età, alla collaborazione. Perché non prevedere, a tutti i livelli, spazi di tempo dedicati al volontariato, ad altre attività o ad un impegno associativo? Sarebbe così facile prevedere la partecipazione di tutti i bambini e ragazzi a un lavoro ecologico o sociale, radicato localmente. Sarebbe un primo passo per rendere la scuola un luogo in cui i bambini e i ragazzi crescono insieme e non l’uno contro l’altro. In altro modo stento a vedere come la società verso cui tendiamo potrebbe essere qualcosa di diverso da uno spazio di competizione generalizzata, in cui – come il sociologo Michael Young ha disegnato quando ha configurato l’idea di meritocrazia nel 1968 – le disuguaglianze sono giustificate dal presunto merito di pochi e la rivolta di fronte a questo dominio legittimato dal presunto merito finirà necessariamente e giustamente per esplodere.”

Piccoli passi verso un’idea diversa di educazione? Forse da noi, scongiurando ulteriori terribili retrocessioni dell’attuale contingenza politica, si è un po’ più avanti con tante proposte di innovazione o vera e propria rivoluzione come la nostra educazione diffusa. Perfino il nostro articolo su Le Télémaque pare sia apparso come all’avanguardia nel panorama pedagogico francese!

Ma già trattare il merito come un paradigma da eliminare è un grande avanzamento, visto che il nostro establishment dell’istruzione ha voluto mettersi un distintivo che perfino i più tiepidi in fatto di educazione innovativa stanno contestando.

Giuseppe Campagnoli 30 Novembre 2022




Dialogo tra un viaggiatore scolastico stressato e un venditore di almanacchi educativi

Commentario tratto pari pari dalla rete social tra un viaggiatore scolastico terrorizzato, bullizzato, mobbizzato e un provocatorio o ingenuo venditore di almanacchi educativi. Ai lettori l’ardua sentenza.

Venditore di almanacchi educativi:

«Ci sono queste studentesse cui non fotte un cazzo della scuola. Hanno altro per la testa: famiglie difficili, amicizie turbolente, amori travagliati. Il libro non lo aprono. Una di loro dice che a casa è impossibile: non saprebbe dove studiare. Ma c’è di peggio. In classe non stanno composte nel banco. Non escono chiedendo il permesso. E poi si truccano. Di continuo. Passano la mattina a truccarsi ossessivamente.

Io sono pagato – diciamo le cose come stanno – per raddrizzarle. Per far sì che la smettano di truccarsi, che stiano composte nel banco, che escano solo dopo averne ottenuto il permesso; e che aprano il libro. Se non per imparare, almeno perché è così che si fa. Facciano finta di aver imparato, come tutti. E saremo tutti felici.

E se non lo fanno? Se non lo fanno mi si chiede di espellerle. Vadano altrove a truccarsi. Magari in un professionale. Si chiama riorientamento.

Io non sono pagato per pensare che non è colpa loro se si trovano in un ambiente che non soddisfa nessuno dei loro bisogni attuali, che non risponde a nessuna delle loro domande, che non dà loro nulla del calore umano di cui hanno bisogno. E che le ha giudicate fin dal primo giorno. Io non sono pagato per sorridere affettuosamente – dentro, non sia mai – della loro ribellione all’istituzione. Non sono pagato nemmeno per voler loro bene e per dar loro la mano. Sono pagato per dir loro che lo studio è importante e l’educazione pure, e che se non studieranno e non si comporteranno come vogliamo noi non potremo considerarle persone a posto. E ci arrabbieremo molto e scriveremo ogni santo giorno sul registro che siamo molto arrabbiati perché loro non sono come vogliamo noi. Perché non hanno, porco cazzo, nessun merito. Noi offriamo loro il sapere su un piatto d’argento e loro, incredibile e scandaloso a dirsi, lo rifiutano: queste ingrate. »

Viaggiatore stressato della scuola:

“Suggerisca il prof. filosofo, al di là della sua facile storiella ironica e senza scrufugliamenti assistenziali, a noi buttati in situazioni veramente insostenibili, che tremano ogni volta che debbono entrare in certe classi, che cosa concretamente suggerisce di mettere in campo per un gruppo in cui una maggiore parte  dei giovani non vorrebbe assolutamente essere  lì perché ha tutt’altri interessi e in qualche modo è stato costretto e “parcheggiato” da altri. Ci dica cosa farebbe in una baraonda incontenibile anche usando ogni escamotage didattico o parapedagogico. 

Non è forse che questa scuola va solo abolita prima possibile?

Tanti rischiano ogni giorno di essere letteralmente sopraffatti, dileggiati, provocati, intimiditi o impegnati ad evitare che lo siano altri ragazzi o gruppi di ragazzi investiti del sempre più crescente fenomeno del bullismo, della emarginazione, della competizione più o meno violenta indotta dalla società, dalla famiglia e dalla scuola stessa. Questa situazione ormai molto diffusa non è sanabile nell’attuale tipo di scuola e neppure nei suoi ingenui tentativi di miglioramento. È inutile e pericoloso pretendere che docenti senza strumenti e alleanze trasversali possano motivare gruppi di studenti che non hanno scelto di essere lì o che sono lì parcheggiati per svariati motivi.Questa situazione dipende da quello che è avvenuto prima in campo educativo, da quello che avviene all’esterno, in famiglia e dallo scollamento totale tra queste realtà; dipende dalla diseguaglianza e dall’emarginazione, dalla mancanza di vero dialogo, dal classismo mai scomparso ma soprattutto da una concezione dell’educazione, declinata in genere solo come istruzione e addestramento, da demolire prima che sia troppo tardi. Gli insegnanti formati per essere solo degli addestratori e classificatori, non per loro colpa, si trovano difronte, come già detto, a una scuola ancora ottocentesca e selettiva per merito e censo che si tenta invano di correggere con un coacervo di giochini parapedagogici e didattici spesso di importazione.”

Venditore di almanacchi  educativi:

“Rispondo volentieri, però se ti sto sul cazzo non dovresti stare sulla mia bacheca.

Il diritto di educare non è scontato. Non l’ho per aver superato un concorso. L’educazione è nella relazione; e nessuno ha il diritto di educare nessuno se non è disposto a costruire una relazione vera. Una relazione di potere non è una relazione vera. Non hai diritto di lamentarti di nessuno studente se non sei sceso dalla cattedra e non lo hai guardato negli occhi.”

Viaggiatore stressato:

 “Assolutamente. Sono un po’ impulsivo ma non mi stai assolutamente dove dici tu. Del resto non mi pseudonominerei Pasquino.. 

Volevo solo un consiglio da chi mi pare davvero ne sappia più di me (senza ironia!)visto che scrivi molto di educazione e scuola. 

Sono tante volte sceso dalla cattedra e ho provato a guardare negli occhi come dici tu ricevendo solo sputi e sberleffi non solo metaforici. Ma forse non sei mai stato in una classe-riformatorio di una periferia metropolitana dove nessuna, nessuna, dico nessuna strategia è possibile se non il laissez faire, tacere e lasciar trascorrere il tempo sperando che non succeda nulla mentre escono a frotte,flirtano,si menano, urlano, insultano, chattano e non ti permettono neppure di dire una parola. Forse sei in una scuolina di provincia dove certe cose non accadono quasi mai? Comunque sia non hai per nulla detto come faresti concretamente se non ti consentissero  di fare una beneamata cippa,se non sperare che non accada nulla di irreparabile.

Anche in una relazione non di potere possono accadere certe cose se manca del tutto per consuetudine consolidata  il rispetto reciproco e quando questo è impossibile da ricostruire. La mia conclusione è comunque sempre la stessa: questa “scuola” che obbliga tutti a stare per ore chiusi in una stanza a fare  cose che non interessano punto,con pochissime palliative vie d’uscita va chiusa. Oggi poi ancor di più.

Dall’educazione infatti vanno tolti  tutti i codici degli obblighi e del disciplinamento  mai mutati da decenni. Ma le relazioni umane non esimono  comunque gli educatori dall’intervenire costruttivamente in presenza  dei sempre più diffusi atteggiamenti prevaricatori, irrispettosi delle persone e del gruppo,  violenti e  delle provocazioni sempre crescenti anche in ambiti di dialogo e giusto coinvolgimento”

Venditore di almanacchi educativi:

Nessuna risposta. Nessuna.

E allora? Chi ha ragione? Il prof. missionario e pedagogico alla moda, alla fine reticente o il prof. dubbioso, comico e spaventato guerriero? Gli studenti arrabbiati, annoiati, ingannati, allenati subdolamente alle mille gare del successo subdolo e finto ? I giovani mollati fin da bimbi ai perfidi social e ad una scuola qualsiasi fuori tempo e fuori senno da una famiglia, una non famiglia, una tribù, una società, una politica che non hanno a cuore il futuro ma solo il profittevole presente infingardo? Non hanno ragione forse quei rivoluzionari contro tutti gli stereotipi precedenti, per motivi diversi ma convergenti? Credo che abbiano in qualche modo ragione tutti nel testimoniare con forza, solo con il loro essere e fare, che questa scuola non è più tollerabile neppure un po’ e va precipitosamente oltrepassata. Come? Oggi credo come qui si suggerisce: E se la scuola chiudesse ancora di più? Forse non tutti i mali verrebbero per nuocere.




Basta scuola!

La scuola non basta

In questi tempi bui per l’Italia e per il mondo ripropongo un articolo di qualche tempo fa assai attuale. 

La scuola non basta, non è mai bastata. Violenza, intolleranza, egoismo, sfruttamento, emergenze climatiche e ambientali, dipendenze, criminalità piccola e grande, degrado urbano e territoriale, diseguaglianze. La scuola non basta per uscire dal recinto che contiene ed alimenta tutto questo. Diffondere capillarmente l’educazione potrebbe avviare una rivoluzione persistente e alla fine in qualche modo risolutiva. I dialoghi e i discorsi nei bar, nelle piazze, nei centri commerciali, sul bus, a tavola, al lavoro, dal dottore segnalano una drammatica emergenza libertaria ed educativa dentro e fuori , in ogni luogo, anche culturale, se e quando la cultura è solo moda, intrattenimento, mercato. I luoghi si degradano e con essi le persone che li frequentano ma non li vivono nè li trasformano. Non basta fare convegni, raduni, gruppi, eventi e kermesses spuri e variegati sul clima, sulle migrazioni, sulla sicurezza, il lavoro, la salute. Non basta più e sovente resta solo  un coacervo di lamenti collettivi, promesse, slogans, piccoli angoli di autocompiacimento, buone intenzioni di cui si lastricano ogni giorno  pericolosi e infernali sentieri, viottoli, strade e stradelle. Non è pessimismo  ma sano realismo e ottima spinta  verso una convergenza, di coloro che resistono e vogliono un cambiamento radicale e salvifico, in un unico sforzo che tragga linfa dalla rifondazione della società in un progetto educativo da cui può nascere una vera rivoluzione. Si mettano insieme le buone idee e le buone pratiche senza etichette e bollini, senza sponsor ma con risorse vere e consistenti, umane e materiali. Tante storie ho letto e vissuto che poi restano lì dove sono nate e spesso finiscono senza contaminare e contaminarsi felicemente altrove. Tante belle esperienze non si conoscono o se ne avverte qualcosa troppo tardi. Tantissime scuole. tantissimi insegnanti e studenti, tantissime genti disorientate e irretite vorrebbero trovare la strada insieme per uscire da questo labirinto senza fine in cui ci tiene chiusi un mondo irreale e artefatto gestito e ordinato altrove.

Rieducazione diffusa

Come si recupera più di mezzo secolo di mala educazione  che ha ridotto le persone schiave di chi le vuole sottomesse e senza pensiero? Come si fonda un futuro di buona educazione diffusa per una nuova vita di persone libere, solidali, eque e appassionate ?

Partendo dai luoghi del vivere. Tutti, nessuno escluso e nessuno privilegiato. Partendo da mentori e maestri, tanti, diversi appassionati, bravi e diffusi, o meglio, sparpagliati in ogni angolo, in ogni tempo del giorno e della notte.

Partendo da quei mentori e maestri che già sono in tanti di noi e che solo uscendo da gusci e recinti istituzionali o ingannevolmente innovativi potranno mettersi a disposizione di una collettività disorientata e disillusa , arrabbiata e violenta, preda di tanti pifferai incantatori. Mettersi a disposizione anche quotidianamente, informalente, magari accanto alla scuola che si trasforma e si libera, nel loro piccolo e  intorno bisognoso di tanta controeducazione.

Partendo infine dal mondo per esplorarlo, farvi esperienze e da queste apprendere ciò che piace e ciò che serve, a noi e alla comunità. Non ad altri o per altri. Soprattutto non per chi vorrebbe dominare su tutto e su tutti con il potere, il denaro e i falsi miti.

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Una risata  seppellirà questo mondo morente?

“Sarà la risata della gaia educazione e della controeducazione, atto finale di un percorso lungo ma deciso che potrà toglierci di torno quest’aria mefitica e soffocante. Lentamente occorrerà, dal basso, con lo stillicidio di una disobbedienza lenta e quotidiana, con la pratica di una educazione contro, diffusa in tutto il territorio e tra tutti i cittadini di ogni età recuperare i danni di un neoanalfabetismo culturale, politico, relazionale, affettivo, di natura e di vita, anch’esso diffuso e cresciuto nelle penultime generazioni . La politica tradizionale, mercantile, capitalista ed egoista, quella che ha portato tanti governanti al potere e che forse porterà anche i prossimi, i peggiori in assoluto, finirà, eccome se finirà, anche se tra innumerevoli ulteriori sofferenze soprattutto degli incolpevoli, degli ingenui, degli sfruttati, dei deboli e degli stranieri. Finirà. Ma solo dopo un’azione controeducativa “gaiamente” insistente e felicemente ostinata.”

“Proseguiamo per questo sulla  strada di una scuola senza mura e senza muri. Chi ci ama ci segua e non se ne pentirà, come credo non se ne pentiranno le generazioni future. Tra i nostri fans, da noi e anche all’estero, giovani ventenni ed ultrasettantenni, insegnanti, presidi, maestri e famiglie. Se non ci faremo fagocitare o strumentalizzare da certa politica che gigioneggia ma agisce in modo decisamente reazionario riusciremo ad incidere in senso rivoluzionario sulla realtà. Una rivoluzione sottile, pervicace, costante: una gioiosa macchina da guerra educativa per ribaltare i domini burocratici, economici e sociali che non mostrano nessun segno di mutamento. Solo cosi molti riapriranno gli occhi e le menti liberandosi dall’influenza nefasta dei bravi suonatori di Hamelin nelle istituzioni, nella “cultura”” e nella politica. Tanti mentori “condotti” e riconosciuti potranno guidare e supportare uno spontaneo e collettivo, a volte inconscio, desiderio di educarsi magari disobbedendo e resistendo, cercando nuove vie di conoscenza e nuovi modi di vivere più liberi ed eguali.” Dall’educazione è sempre nato tutto il resto. Nel bene e nel male.

Giuseppe Campagnoli in varie date e in vari luoghi.




Tra guardianìa, rigido nozionismo e bricolage pedagogico-didattico

Abbiamo avuto nel corso dell’evoluzione dell’idea di educazione diffusa molti contatti e coinvolgimenti nel primo segmento della cosiddetta “scuola pubblica”, per intenderci quello dalla scuola dell’infanzia alla scuola media. Le sperimentazioni avviate e le ricerche per mettere in campo progetti e proposte hanno interessato associazioni, famiglie, insegnanti e direttori di questa prima fase dell’educazione del bambino e del ragazzo. La stessa attività di formazione, non ultima quella di Rimini del settembre scorso, ha visto una sempre più diffusa presenza di maestre e maestri, insegnanti e dirigenti dedicati all’educazione dai 3 anni ai 14 con netta prevalenza del periodo 3-11 anni. Il fantasma è sempre stata invece la scuola secondaria di secondo grado, quella che Paolo Mottana chiama nella sua proposta di rivoluzione del “curricolo” educativo “della differenziazione”. L’ultimo articolo di questo blog intitolato Odi et amo ci da una qualche idea di che cosa intendiamo. L’esperienza, gli studi e l’autobiografia anche familiare mi fanno avere un chiaro quadro della situazione. La cronaca e la quotidianità scolastica non fanno che confermare l’idea che proprio quella destinata agli adolescenti sia la peggiore faccia di una scuola da oltrepassare radicalmente prima possibile. Gli stessi insegnanti di questo segmento finale dell’istruzione sono in qualche modo condizionati pesantemente dagli stereotipi, dalla loro formazione o meglio non-formazione pregressa di cui non hanno comunque alcuna colpa.Sono vincolati da una organizzazione rigida e incapace di accogliere e contenere il difficile mondo di quelle età della vita e costretti dalle regole a volte necessarie in luoghi e contesti semireclusori. Si vedono pertanto diretti ad agire in due direzioni principali: la nozione e la meritocrazia, la rendicontazione e la disciplina da un lato e quella che io chiamo la maledetta progettite dall’altro. Parlo della pletora di progetti ed eventi del bricolage sedicente pedagogico ma in realtà solo didattico pensato per una finta innovazione che non fa altro che indorare pillole su pillole (la motivazione, i giuochi di ruolo, il team teaching, la peer education, il learning by doing..) con tante parolacce spesso di chiara origine anglosassone nelle teorie e nelle applicazioni. La didattica cosiddetta alternativa è solo un altro strumento ipocrita per migliorare un modello di scuola che mantiene comunque i suoi parametri fondamentali e si esplica prevalentemente nella gestione spesso obbligata da realtà difficili e complicate, come se si fosse dei secondini che controllano gruppi in gran parte affatto interessati (per diversi motivi: familiari, sociali, di moda del momento) all’indirizzo di studi o alle cosiddette discipline che niente e nessuno potrà mai indurre ad amare in quei luoghi e in quel sistema complessivo. Il fatto che scuole ad indirizzo artistico fossero in qualche modo un’eccezione anche se timida a questa diffusa regola (ma solo per metà delle cosiddette materie, non a caso) è perché erano (prima di essere omologate ai percorsi liceali) un insieme di esperienze e indirizzi di studio, per la maggior parte dei casi scelte per forte vocazione che coinvolgevano le città, la vita, i territori mentre il luogo denominato scuola era una specie di portale ante litteram per muoversi verso le attività molto spesso spostate fuori e non solo in prossimità.

Le Bandar Log?

Perché tanti docenti nonostante la loro passione e preparazione non riescono più ad avere relazioni positive ed efficaci con le classi e spesso si vedono ridurre il ruolo a badanti e dispensatori di ammonimenti e note? Perché rischiano ogni giorno di essere letteralmente sopraffatti, dileggiati, provocati, intimiditi o impegnati ad evitare che lo siano altri ragazzi o gruppi di ragazzi investiti del sempre più crescente fenomeno del bullismo, della emarginazione, della competizione più o meno violenta indotta dalla società, dalla famiglia e dalla scuola stessa? Questa situazione ormai molto diffusa non è sanabile nell’attuale tipo di scuola e neppure nei suoi ingenui tentativi di miglioramento. È inutile e pericoloso pretendere che docenti senza strumenti e alleanze trasversali possano motivare gruppi di studenti che non hanno scelto di essere lì o che sono lì parcheggiati per svariati motivi. Tanto meno se le parole chiave per motivare diventano l’onore, il dovere e la disciplina come bofonchia qualche grottesco direttore generale del MIUR. Questa situazione dipende da quello che è avvenuto prima in campo educativo, da quello che avviene all’esterno, in famiglia e dallo scollamento totale tra queste realtà; dipende dalla diseguaglianza e dall’emarginazione, dalla mancanza di vero dialogo, dal classismo mai scomparso ma soprattutto da una concezione dell’ educazione, declinata in genere solo come istruzione e addestramento, da demolire prima che sia troppo tardi. Gli insegnanti formati per essere solo degli addestratori e classificatori, non per loro colpa, si trovano difronte, come già detto, ad una scuola ancora ottocentesca e selettiva per merito e censo che si tenta invano di correggere con un coacervo di giochini parapedagogici e didattici spesso di importazione, infarciti di tanti di quei tabù di cui scrive Paolo Mottana nel suo ultimo libro “I tabù dell’educazione”.

Purtroppo a mio avviso la scuola ”superiore” è rimasto lo zoccolo duro dei dogmi e dei sistemi ottocenteshi coniugati con l’idea mercantile e liberisticamente meritocratica della scuola che mantiene rigidamente la sua organizzazione in discipline, orari, classi, aule e tutto l’armamentario che si conosce e si osserva anche oggi seppure in mezzo a tanto sfrucugliare pedagogico e pararicreativo. Si parla spesso di “ragazzi da educare” con la responsabilità della fatica e la giusta e selettiva valutazione: in poche parole un ammodernamento di quella scuola di cui anche Papini era schifato ai suoi tempi. Sono d’accordo su taluni assunti e critiche sul percorso che la scuola ha preso negli anni ma contesto radicalmente le soluzioni che nascondono proposte palesemente neo conservatrici.

La scuola non era e non è “minacciata da innovazioni subdole e infauste” per la verità in gran parte innocue e inconcludenti, ma solo il prodotto della prosecuzione in chiave moderna dello stesso paradigma ottocentesco oggi massificato, edulcorato e reso gregario del sistema economico e intellettuale dominante come e forse più di allora. Il punto di vista è sempre quello dell’insegnante che addestra principalmente con saperi e nozioni : dresser direbbero i francesi) – mentre osserva sè stesso e il suo orticello senza considerare affatto la potenza e l’incidenza essenziale di ciò che viene prima e di ciò che ci circonda e continua a vivere incidendo non poco nell’apprendimento, magari in senso negativo senza una guida che integri luoghi, tempi, modi dell’apprendere. Oggi si assiste allo scontro improduttivo tra la scuola dei saperi e delle discipline e quella del bricolage misto, due idee terribilmente perniciose perché non hanno nulla di educazione ma tanto e troppo di istruzione pratica o intellettuale. Ma c’è fortunatamente una terza via. La via del distillare insieme esperienza, saperi, creatività, fisicità e vita reale in una specie di percorso che non esclude i momenti magari noiosi come si direbbe in musica “del solfeggio” ma li usa al momento opportuno insieme all’apprendere vitale delle tante esperienze nei tanti luoghi e tempi che le possono offrire e rendere indispensabili alla crescita. Riflessioni su questi temi hanno aiutato a maturare e consolidare l’idea di oltrepassare la scuola fino all’attuale impegno contro tutte le correnti, nell’educazione diffusa.

La nostra idea di educazione-bisogna averne una come della vita e della politica che è vita- è decisamente l’opposto della “paccottiglia pseudopedagogica di area anglosassone o di matrice aziendalistica “come pure di quella nostalgica in chiave moderna ma con juicio” Il rapporto tra i saperi , le conoscenze e l’esperienza come meravigliosa teoria di chocs educativi (vedi anche Didier Moreau Le Télémaque n.49/2016) è ben riassunto in questo brani, da me chiosati, del mio amico Paolo Mottana della Bicocca di Milano :

“L’educazione diffusa e le cosiddette materie tradizionali

L’educazione diffusa, a differenza di quanto alcuni ritengono, non vuole sopprimere le discipline tradizionalmente considerate come scolastiche, con buona pace dei sacerdoti del culto scolastico. Intende invece valorizzarle ma con una mutazione fondamentale. Esse devono essere apprese secondo l’interesse e la motivazione e quindi somministrate come e quando l’esperienza o la curiosità individuale o gruppale sorge per esse.

Importante per la scuola secondaria è la vocazione e l’interesse che dovrebbero essere emersi nel percorso precedente per non creare impliciti obblighi,nevrastenie e dissenso nei gruppi e nelle classi, mobbing e stalking verso i docenti e i pari, ribellioni di massa di parti intere di classi fino a sfociare in terribili fatti di cronaca.

“L’obbligo in determinate fasi, secondo pretestuose tabelle desunte in gran parte ancora dalla scansione delle intelligenze piagetiana, va dimenticato. Si impara quando di è motivati, questo è il nostro assunto di base, e molto più in fretta. Se in un allievo l’interesse per la matematica non sorge fino a 13 anni, non c’è alcun motivo di obbligarlo prima a cimentarvisi. E lo stesso vale per tutte le cosiddette materie. Naturalmente si tratterà comunque di assegnare della priorità, tali per cui la lingua italiana, la storia, la geografia e la stessa matematica e le loingue straniere, dovranno comunque essere incluse in alcune esperienze progressivamente, sotto forma di strumento per poter realizzare quelle esperienze, come scrivere messaggi corretti, leggere determinate pubblicazioni o letteratura, eseguire alcune operazioni matematiche e geometriche che consentano di costruire determinati oggetti o progettare spazi ecc.

Naturalmente in tutto questo la fase di esplicazione e di esercizio alternata all’esperienza non va dimenticata ma affrontata diversamente. Ripeto che non si riesce a leggere e suonare musica se non applicandosi in ripetizioni a volte noiosissime e apparentemente inconcludenti.

Ora, il punto però rimane, queste discipline si imparano rapidamente quando la loro immediata fruibilità è percepita dai ragazzi. Non serve a nulla far calcolare a un bambino quanti litri d’acqua e quanto tempo occorrono per riempire una vasca se davvero non c’è un progetto di costruzione di una vasca o di una piscina in un determinato spazio concreto di cui sia chiaro l’uso. Sta anche alla capacità dell’educatore immaginare esperienze in cui l’ausilio dei saperi abbia un ruolo più o meno significativo e in che momento e chi includere in quelle esperienze. In ogni caso, anche laddove a un certo punto, si debba decidere che determinate conoscenze diventino indispensabili a prescindere dalla motivazione personale o dalle esperienze programmate, anche lì sarà necessario rispettare la logica induttiva che mobilita a comprendere e acquisire conoscenze piuttosto che la vecchia logica deduttiva che non funzione o comunque richiede molto tempo proprio quando non sostenuta dalla motivazione.

Occorre far sorgere la curiosità prima di proporre regole, informazioni di base o esercizi. E questo dovrebbe avvenire principalmente nel primo percorso di educazione perché sia consolidato nel periodo delle scelte di indirizzi per i quali si ritiene di avere passione e interesse. Non è una caso che chi approda alla secondaria di secondo grado non è affatto appassionato al percorso e ci si ritrova per caso, per decisioni altrui, per mode del momento o per il perfido mercato sempre in agguato.

Ricapitolando quindi, i saperi tradizionali dovranno, nell’educazione diffusa, comparire ma nella maggior parte dei casi inglobati e attivati dalle esperienze vissute dai bambini e dai ragazzi per consentire poi ai giovani di essere il più coscienti possibile delle scelte dei percorsi conclusivi della loro prima formazione. Nel caso di saperi giudicati imprescindibili occorrerà stimolarli in maniera induttiva e accattivante fin dove possibile. Nel caso di saperi o di parti di saperi più specialistici si dovrà saper attendere la motivazione in ogni età del percorso o arrendersi al fatto che durante quel percorso non vengano compresi.”

Ora tocca alle cosiddette “superiori” cimentarsi con l’educazione diffusa! Svegliatevi proffs!!

Giuseppe Campagnoli Ottobre 2022




Breviario dell’educazione diffusa.

Molti continuano a chiedere cosa sia l’educazione diffusa. Oltre ai libri e ai numerosi articoli sull’argomento che suscita sempre più interesse non solo nel mondo scolastico c’è un saggio di cui abbiamo già detto, pubblicato nel 2021 sulla rivista accademica francese Le Télémaque che potrebbe essere considerato una specie di breviario ad uso di chi si avvicinasse per la prima volta all’educazione diffusa. Qui si propone per la prima volta una traduzione integrale che è possibile scaricare qui:




Un manifesto politico

Visti i recenti sviluppi politici italiani che consolidano ahinoi l’idea, già espressa da Giordano Bruno, Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi sullo “stato presente dei costumi degli italiani”, è tempo di rileggere e sottolineare gli aspetti squisitamente politici del “Manifesto dell’educazione diffusa” scritto a quattro mani da Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli nel 2017 e sottoscritto da tanti insegnanti, genitori, pedagogisti, associazioni, che di tanto dibattito e di tanti incontri su e giù per l’ Italia è stato protagonista, provocando anche belle iniziative ed esperimenti suggestivi di controeducazione tuttora in atto. Ad ogni frase c’è un riferimento ad un’ idea di società, di educazione e di città decisamente rivoluzionaria. Mi piace ricordare qui, scorrendo il testo, qualche pensiero che molti hanno condiviso e che aiutano a non equivocare il messaggio profondo del Manifesto stesso.

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“Ma occorre cambiare, capovolgere questo modo carcerario di intendere l’educazione”

“L’energia  che questa popolazione reclusa (i bambini, i ragazzi, gli stranieri, gli anziani..) potrebbe imprimere alla vita sociale è incalcolabile se solo si potesse metterla davvero in moto e non tenerla in scacco, stagnante, incatenata)

“Sulla scia di una discreta organizzazione, in una città, si può cominciare ad immaginare la nuova scuola e la nuova educazione in diverse dimensioni: quella storica e architettonica, quella logistica, quella organizzativa e quella pedagogica e culturale, senza scindere più tra spazi per apprendere, per comunicare,per esibire, per documentare, per vivere.”

“Non si può imparare in luoghi e spazi che incitano alla guerra del competere e alla gerarchia nella forma e nella concezione”

“L’educazione incidentale è il primo riferimento per un nuovo modo di pensare l’educazione”

“La seccante e vana discussione sulla valutazione, sulla verifica, sulle prove, con l’educazione diffusa conoscerà finalmente la sua fine”

“Nessuno sarà inserito in tirocini o apprendistati volti ad essere immessi precocemente in un mercato del lavoro distruttivo e del tutto alieno da ogni finalità di autentico sviluppo e ampliamento delle capacità delle persone..”

“Non c’è bisogno di costruire altre scuole e non c’è neppure bisogno di ricostruire quelle distrutte da eventi naturali o dall’incuria e disonestà dell’uomo. Se la metà delle scuole italiane non si può mettere a norma né ora né mai, l’altra metà è vecchia sia concettualmente che fisicamente. Rincorrere gli adeguamenti e i restauri per tutta la vita di edifici che funzionano solo metà del tempo e sono irrimediabilmente obsoleti anche quando progettati l’altro ieri è folle oltre che antieconomico. Gli spazi dove si fa scuola sono lo specchio di come è il modello di scuola oggi.”

“Ma occorre cambiare, capovolgere questo modo carcerario di intendere l’educazione. Occorre che essi possano tornare ai luoghi da amare, alla città anzitutto, che è un insieme di luoghi per apprendere, cercare, errare (l’errore!) osservare, fare e conservare per condividere, riconoscersi e riconoscere.”

“Fa comodo alle autorità mettere sotto scorta chi si muove in maniera imprevedibile ancora al di fuori del compasso ordinatore dell’ordine del lavoro. Fa comodo a chi li ha messi al mondo sapere che sono sotto protezione, non abbandonati a sé stessi e alle loro pulsioni mobili e variabili, liberandoli dal timore che si avventurino in zone ignote, alla mercé dell’inatteso e del sorprendente. Fa comodo a tutti sapere i bambini e i giovani fuori dal mondo.”

“Basta con l’obbligo, con il sacrificio e con la sottomissione, ogni fatica deve contenere in sé la sua ricompensa, deve essere l’anello di un tracciato di cui si coronano in tempi brevi continue tappe di soddisfacimento.”

“Costringerà a rallentare, a prestare attenzione, a farsi attori di cura, di attenzione, di comunicazione, informazione, orientamento. Interpellerà tutti, mostrando che si può abitare la città come un grande luogo collettivo (e virtuosamente mescolato), di conoscenza, di cultura, di esperienza, di operatività sensata.”

La declinazione fattuale del Manifesto nell'”Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso” consiglia e suggerisce strade per realizzare l’educazione diffusa nei contesti reali considerando prioritaria la dimensione  squisitamente pubblica e non privata e familiare dell’educazione in direzione di una intera società educante.

“Superare l’idea della “scuola” come mondo confinato tra mura, distaccato dal resto della realtà e della società, in modo che il bambino e il ragazzo siano messi nelle condizioni di fare esperienze dirette nel mondo, quello vero, di ogni giorno. È la visione, fortemente innovativa, attorno alla quale Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli hanno formulato la loro proposta di educazione diffusa e di città educante. Che non è solo un concetto astratto, tutt’altro. È una logica, pianificabile e organizzabile, una nuova modalità per aprire ai giovani le porte dell’apprendimento e del sapere.
Si viene accompagnati  (sia come genitore, educatore, insegnante o qualsivoglia vocazione si abbia ) attraverso un percorso chiaro e concreto per capire “come si fa” e “con chi si fa” l’educazione diffusa. Per cambiare veramente paradigma educativo, anche da domani. Basta volerlo.”

In poco tempo si potrebbero educare nuove generazioni  al senso critico ed alla libertà di apprendere e di pensare anche partendo dalla realtà  e coinvolgere tutte le altre  generazioni in tutto il territorio  per una rivoluzione sottile che scongiuri il percorrere le  brutte strade che la società per colpa di certa politica sta pericolosamente intraprendendo.

Giuseppe Campagnoli

28 settembre 2022




Rimini: prove di educazione diffusa

Si è trattato di un bellissimo seminario, realizzato con la collaborazione di Paesaggi educativi e il patrocinio del Comune di Rimini, dedicato a insegnanti, educatori, associazioni, genitori, amministratori e anche cittadini interessati. La partecipazione secondo le aspettative è stata coinvolgente, appassionata e veramente utile. Persino il tempo ci ha regalato di tutto, vento, temporale, sole, caldo e freddo. C’erano educatori ed insegnanti in realtà pubbliche, parentali, paritarie e anche rappresentanti di amministrazioni locali e di associazioni dedicate all’educazione ed alle aree di coinvolgimento esperienziale. Nonostante il boicottaggio meccanico della piattaforma Zoom (zum,zum,zum,zum,zum!! che ci ha fatto uno scherzaccio sul fronte delle registrazioni audio, lasciandoci invece belle immagini da cinema muto, possiamo ricostruire per sommi capi l’accaduto in maniera multimediale.

La mattina del primo giorno Paolo Mottana ha inquadrato le idee dell’educazione diffusa sul campo, prefigurando un diverso sistema educativo in una accezione pubblica rivoluzionata, articolato in una serie di ambiti del percorso, che abbandona all’inizio il concetto di “nido”, per non sottrarre i neonati al gruppo e alla cosiddetta famiglia, mentre affiderà i bambini alla collettività a partire dai 3 anni con il momento dell’infanzia, caratterizzato dal GIOCO. II segmento della cosiddetta primaria si sviluppa per 5 anni dedicati alla SCOPERTA per proseguire con un periodo di 3 anni più 2 destinati all’ESPLORAZIONE ed altri 2 anni da dedicare alla DIFFERENZIAZIONE. Il tutto comincia a svilupparsi nelle cosidette AREE DI ESPERIENZA così declinate:

1-Area del servizio sociale

2-Area del lavoro

3-Area della natura

4-Area dell’espressività simbolica

5-Area della corporeità

6-Area della ricerca e indagine

Ad ogni raggruppamento di esperienze appartengono luoghi della città e del territorio, saperi e competenze trasversali, integrate, occasionali, incidentali o basilari, come strumenti per le conoscenze indispensabili per la vita o anche no, come per le diverse attività ad essa afferenti. Le guide, i mentori, gli esperti occasionali sono sempre presenti e si alternano in varie forme e in tempi diversi.

Nella dissertazione è parte fondamentale la descrizione degli ambiti di conoscenza (strumenti di analisi della realtà, lettura, comunicazione, arti, sport, lingue, teatro, educazione alla corporeità, alla convivenza ed azione sociale…) con esemplificazioni dei percorsi e delle infinite possibilità di interazione con il territorio in funzione anche della evocazione e induzione (absit la perfida e meccanica deduzione!) di innumerevoli choc educativi. (vedi anche “L’éducation diffuse et la ville éducatrice” Le Télémaque N°60 e “I tabù dell’educazione” di Paolo Mottana). Molte le interazioni con gli intervenuti e molti gli spunti per avviare sperimentazioni che possano condurre a prove concrete di educazione diffusa verso un radicale futuro mutamento.

Sempre nella prima giornata, dopo un giro di presentazione dei partecipanti si è parlato di città, architettura ed educazione con la presentazione di una serie di immagini descrittive del rapporto che si intende stabilire tra territorio, realtà urbana ed educazione diffusa, fino a prefigurare, attori, ruoli, scenari e possibilità di reale intervento anche attraverso (superando o aggirando) le norme e le consuetudini esistenti che hanno costituito spesso ostacoli rilevanti sui percorsi di cambiamento inventando sovente delle finte e gattopardesche innovazioni tra neoconservazione e bricolage pedagogico. Qui è riportata la presentazione senza commenti da scaricare.

Successivamente, viene impostata l’esercitazione da svolgersi nella giornata successiva sulla base di alcuni passi per la costruzione di un modello di una settimana che costituisce lo spunto per una progettazione modulata più a lungo termine di un esperimento di educazione diffusa. Qui sotto le indicazioni di base per i 4 gruppi costituiti in modo casuale:

La seconda giornata del seminario si è sviluppata attraverso i lavori dei gruppi sul tema indicato, con idee davvero interessanti e coinvolgenti, molto legate alle diverse realtà territoriali tenendo conto dei contesti di “scuola pubblica” e di città e territori ove operare, dall’Umbria alla Campania, dalle Marche al Veneto alla Romagna, tutte le provenienze dei partecipanti. Cammini e suggestioni tra teatri, radure, piazze, laboratori e officine, genti variegate, mari, boschi greppi e montagne, storie e controstorie borghi, città, campagne e addirittura circoli di camper e roulottes in guisa di tante aule vaganti!

In conclusione dell’incontro la testimonianza di insegnanti, educatori, genitori e ragazzi dell’Officina del fare e del sapere di Gubbio, l’antesignana in assoluto delle prove sul campo dell’educazione diffusa che ha coinvolto nel tempo la secondaria di primo grado (ormai arrivata al passaggio al secondo grado) fino attualmente all’esordio nella primaria. Evidente e significativo nel racconto l’impatto, all’atto delle prove di esame (&%$£!!??) di idoneità con una realtà ancora tremendamente ingessata e rigidamente nozionista di scuola pubblica. È proprio nella scuola pubblica che partiranno altre sperimentazioni per una sottile rivoluzione dall’interno con attività e prove di cambiamento nell’organizzazione, nella didattica, nei luoghi, nella valutazione.

Giuseppe Campagnoli 20 settembre 2022 S.E.&.0@#]!!




Odi et amo

Quando si contesta la scuola non per oltrepassarla ma per restaurarla.

Prendo le mosse da un elegante battibecco social sull’idea di scuola con il Prof. Mazzocchini che esprime fin dalle prime battute nella presentazione e nel titolo del volumetto The dark side of the school . Avevo già intuito dalle prime righe,alla maniera di Bufalino (“certi libri già dopo tre righe mostrano un radiatore che fuma”) l’essenza del libro. Svariati motivi mi invitano a questa mini recensione tra cui non ultimo l’istinto autobiografico ad una reazione critica, visto che il pamphlet è stato presentato in una rubrica del TG3 Marche ( la stessa che presentò il nostro La città educante.Manifesto dell’educazione diffusa qualche anno fa) proprio dal Liceo G.Leopardi di Recanati. Qui avevo presentato l’ultimo volume sull’educazione diffusa appena due anni fa e qui ai miei tempi c’era un’avanguardia assolutamente inedita di presidi e docenti per una tipologia cosi’ conservatrice come i classici. Tante sono state le occasioni preziose per esprimere un’ idea rivoluzionaria di educazione (non di scuola o istruzione o peggio formazione che ne sono dei falsi sinonimi riduttivi ed aberranti) che questa nuova “autobiografia scolastica” mi spinge a ribadire ancora una volta.

Ci sono delle frasi chiave che riporterò nel corso della dissertazione e che danno immediatamente l’impressione di una idea di scuola che non condivido perché la ritengo obsoleta, elitaria, quasi aristocratica. Si tratta dell’ennesimo libretto sulla scuola, questa volta scritto da un uomo di scuola. Il fatto è forse un’aggravante? Forse non tanto visto che l’uomo in questione ha osservato comprensibilmente il suo orticello liceale perdendo di vista tutto il campo, una visione che invece potrebbe avere solo chi ha vissuto una vita intera nella scuola in tutti i ruoli possibili, tutti e durante tutto il percorso della vita di chi è in apprendimento. Da figlio di maestri elementari freinetiani, da scolaro e studente, da insegnante, preside, direttore di un ufficio studi e ricerche di un direzione scolastica regionale, da assessore all’istruzione di un piccolo comune e infine da studioso di spazi e luoghi per l’educazione e la cultura infatti ne ho viste e vissute di cose relative alla scuola, tanto da farmi fuggire dalle istituzioni per come sono.

L’introduzione “Odi et amo” con i suoi richiami al rapporto docente discente come quello tra medico e paziente, al sacro fuoco della passione intellettuale, al ruolo botanico dell’insegnante cui sono state affidate le piante cui strappare (sic!) qualche frutto, è già tutto un programma (le famose righe di Bufalino). Poi c’è l’Autobiografia (A)tipica di un Prof. che tradisce l’anagrafica dell’istruzione secondaria a partire dalla scuola media unificata (1962), quella che a mio avviso introduce il falso e terribile mito dell’ascensore sociale e sacralizza la figura del Maestro (maiuscolo) idea quanto mai diversa dal nostro concetto di méntore, meno aristocratica e precettorale. Come contraltare posso dire che il sottoscritto ha avuto schiere di maestri con la “m” minuscola, tutti realmente incisivi e determinanti per la mia vita, seppure spesso non “di rango”. D’accordo che le macchine, che sono dei meri strumenti non possono sostituire nessuno degli infiniti maestri di cui avremmo bisogno. D’accordo pure sulle considerazioni relative al miserabile e ignobile mondo accademico che non cambierà mai, neppure oggi, senza una profonda rivoluzione culturale: lo stesso dicasi per la cosiddetta scuola dove restano invariati e invariabili i concetti stantii di lezione, disciplina, autore, testo, manuale…

Con l’analisi degli anni ’80 e ’90, periodo in cui già il sottoscritto si avventurava per le strade impervie di una vera rivoluzione educativa, frutto del repertorio di tanti e questa volta veri maestri di pedagogie all’avanguardia e mai realmente e diffusamente praticate nella cosiddetta scuola, il nostro professore si rallegra del fatto che “nonostante gli ammodernamenti” l’istituzione sia ancora fondamentalmente intatta:”i riferimenti educativi erano ancora gli insegnanti e i genitori” cui i ragazzi riconoscevano ancora, “accompagnata dalla dovuta autorevolezza, l’autorità”. La scuola, secondo il nostro, non era più quella dogmatica ottocentesca ma non avrebbe dovuto essere neppure il giardino d’infanzia iperprotetto che sarebbe diventata. Si accusa la figura del docente perché dedita alla cura dei rapporti umani e psicologici declassando il ruolo della specifica disciplina in una accezione di populismo aziendal-socialisteggiante.

Purtroppo a mio avviso è rimasto lo zoccolo duro dei dogmi e dei sistemi ottocenteshi coniugati con l’idea mercantile e liberisticamente meritocratica dela scuola che mantiene rigidamente la sua organizzazione in discipline, orari, classi, aule e tutto l’armamentario che si conosce e si osserva anche oggi seppure in mezzo a tanto bricolage pedagogico e pararicreativo. L’autore parla di “ragazzi da educare” con la responsabilità della fatica e la giusta e selettiva valutazione: in poche parole un ammodernamento di quella scuola di cui anche Papini era schifato ai suoi tempi. Sono d’accordo su taluni assunti e critiche sul percorso che la scuola ha preso negli anni ma contesto radicalmente le soluzioni che nascondono proposte palesemente neo conservatrici. Professore, confronti le sue ricette con la nostra idea di educazione diffusa e magari potremo ridiscuterne e trovare dei punti in comune. Legga per confronto il nostro Manifesto e la sintesi storica che son riuscito a farne in uno studio per il mondo accademico francese anch’esso sensibile a queste tematiche ma in modo meno eclettico che da noi.

La citazione di Requiem per la scuola pubblica e l’accusa di utopia che l’autore esprime su certe proposte pedagogiche rimandano a brani del mio ultimo scritto su Comune-info:

La scuola “pubblica”. Tanti se ne riempiono la bocca. Ma non era pubblica anche la scuola di Gabrio Casati e Giovanni Gentile? Non lo era quella sovietica o non lo sono quelle confessionali degli stati islamici o della Cina neocapitalista? O quella stunitense negletta e ghettizzata a favore dell’istruzione privata costosa ed elitaria? Pubblico non vuol dire di per sé libertà e garanzia di educazione autonoma e non asservita al potere. Non siamo ipocriti.  Una società educante e diffusa è una via per libere scelte anche collettive in assenza di coercizione, controllo, competizione, classificazione, classismo ed esclusione, attraverso il superamento delle istruzioni, delle formazioni, degli addestramenti, del “dressement”, delle cento educazioni, prime tra tutte l’educazione formale, informale e non formale . 

https://comune-info.net/educazione-diffusa-e-societa-educante/embed/#?secret=ZV4hCeUE1g#?secret=w5k5Py8nhu

Il pubblico spesso è un falso mito come la meritocrazia e spesso non è né democratico né fondato sulla libertà di apprendere. Rammento le fatidiche questioni di Giancarlo De Carlo nel lontano 1969: È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?  Insomma, le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo? Se pubblico significa libertà di insegnamento e apprendimento (cosa, dove, come e con chi) nel rispetto di una Costituzione dove “l’obbedienza non è una virtù” e l’obbligo diventa garanzia di un diritto, allora usiamo pure l’aggettivo pubblico.  Un’alternativa dunque c’è. Una società educante che non è privata e individualista o peggio ispirata al liberalesimo e al liberismo ma che si avvalesse del concorso (anche economico) della collettività e che fosse autonoma rispetto ai governi che passano e ai poteri finanziari.  Esperienze rivoluzionarie tentate nel pubblico sono spesso svilite da avvilenti strascichi burocratici e persecutori cui abbiamo spesso assistito non danno un’immagine edificante del sistema pubblico statale. È non è l’unico esempio. La fuga crescente di cittadini anche verso forme “educative” che sono discutibili, elitarie, ghettizzanti e spurie è un segnale di tutto questo. Ostacolare le sperimentazioni di radicale e necessario cambiamento nella scuola statale o in prospettiva di un superamento di “questa scuola pubblica” è un errore che farà crescere l’evasione verso il privato

L’educazione diffusa ha solidi riferimenti che vanno da Charles Fourier a Maria Montessori, da Célestin Freinet a Ivan Illich, da Paulo Freire a Lorenzo Milani… che nei loro aspetti realisticamente e modernamente rivoluzionari (a parte i mille rivoli di discutibili epigoni) hanno tantissimo in comune e potrebbero costituire un repertorio da sperimentare senza dispersioni e separazioni corporative nella obsoleta scuola delle istituzioni per cambiarla radicalmente.  Per difendere veramente la “scuola pubblica” occorre superarla e rifondarla radicalmente, magari anche dall’interno e tutti insieme con un’idea rivoluzionaria di educazione. Importante è tutto il campo, non tanti orticelli autoreferenziali. Ma i “talebani” dei dogmi pedagogici si moltiplicano anche nella sedicente sinistra e pure, ahinoi, tra molti nostri ex compagni di viaggio che hanno preso altre strade e non perdono occasione per rinnegare, a volte subliminalmente, la strada fatta insieme, pur avendo ben predicato nel sottoscrivere e condividere il nostro Manifesto. Comodità? Tornaconto? Un po’ di viltà? Non saprei. Fatto sta che gruppi e gruppuscoli di aggregano, si alimentano, si alleano in difesa di una scuola che pubblica non è mai stata veramente e che non va migliorata o innovata ma decisamente oltrepassata.  A volte un edificio obsolescente va abbattuto magari con la tecnica del “cuci e scuci” per ricostruire tanti luoghi educanti più accoglienti, liberi e comunque collettivi e patrimonio di tutta la società. Confesso di essere un po’ deluso e amareggiato ma non scoraggiato. No. Darò ancora tutto ciò che posso della mia esperienza per il fine dell’educazione diffusa. Sempre gratis et amore naturae (non solo quella dei boschi!) “Ceux qui pensent que c’est impossible sont priés de ne pas déranger ceux qui essaient…”.

Tante parole e frasi nel prosieguo della lettura, che non sto a declinare capitolo per capitolo, fanno capire bene l’idea di scuola sottesa, una scuola che dovrebbe restare comunque meritocratica e classificatoria, che rimpiange gli esami di riparazione, parla di alunni scansafatiche, di superamento del liberismo con un rapporto non più tra produttore e venditore di metodi e saperi e acquirente che impara ma, forse peggio ancora, tra artista dell’imponderabile insegnare e giovane appassionato e tuttosommato obbediente apprendista di bottega. Una scuola ancora per pochi, bravi e presi dal furore dello studio?

La scuola non era e non è “minacciata da innovazioni subdole e infauste” ma solo il prodotto della prosecuzione in chiave moderna dello stesso paradigma ottocentesco oggi massificato, edulcorato e reso gregario del sistema economico e intellettuale dominante come e forse più di allora. Nel testo leggo la critica intensa delle pur criticabili grottesche e false innovazioni delle mille riforme post anni ’60 per sostenere per contro un ritorno ai cosiddetti, non meglio declinati “pilastri fondamentali” : “la responsabilità, la giustizia retributiva, la serietà culturale, la qualità dell’insegnamento e del rapporto educativo”. Un triste déjà vu. Non casuale l’elogio profetico del vecchio preside all’antica. Il punto di vista è sempre quello dell’insegnante liceale ( il quale addestra principalmente con saperi e nozioni : dresser direbbero i francesi) – mentre osserva sè stesso e il suo orticello senza considerare affatto la potenza e l’incidenza essenziale di ciò che viene prima e di ciò che ci circonda e continua a vivere incidendo non poco nell’apprendimento, magari in senso negativo senza una guida che integri luoghi, tempi, modi dell’apprendere. Oggi si assite allo scontro improduttivo tra la scuola dei saperi e delle discipline e quella del bricolage misto, due idee terribilmente perniciose perché non hanno nulla di educazione ma tanto e troppo di istruzione pratica o intellettuale. Ma c’è fortunatamente una terza via. Le assicuro che la mia vicenda autobiografica cui accennavo (tra l’altro caratterizzata dal piazzamento tra i primi posti di un concorso internazionale di latino a metà degli anni ’60 che faceva giurare su una mia carriera nelle lingue e letterature classiche) ha aiutato molto a maturare e consolidare l’idea di oltrepassare la scuola fino all’attuale impegno contro tutte le correnti, nell’educazione diffusa.

Non me la son sentita di proseguire in una lettura puntuale, prefigurando epiloghi già visti a vario titolo nei vari pontificatori, da Mastrocola e Ricolfi, Crepet, Severgnini, Galimberti … Comunque sono andato ben oltre quello che scriveva Bufalino, ben oltre le tre righe: ho sicuramente superato le cento seppure in diagonale come sosteneva che dovessero essere letti molti libri uno dei miei maestri di architettura e di arte, Manfredo Tafuri. Tra queste righe ho trovato molti spunti di dissenso e alcuni di condivisione.

La nostra idea di educazione-bisogna averne una come della vita e della politica che è vita- comunque, caro professore è decisamente l’opposto della “paccottiglia pseudopedagogica di area anglosassone o di matrice aziendalistica “come pure di quella nostalgica in chiave moderna ma con juicio. Il rapporto tra i saperi , le conoscenze e l’esperienza come meravigliosa teoria di chocs educativi (vedi anche Didier Moreau Le Télémaque n.49/2016) è ben riassunto in questo scritto del mio amico Paolo Mottana della Bicocca di Milano :

“L’educazione diffusa e le cosiddette materie tradizionali

L’educazione diffusa, a differenza di quanto alcuni ritengono, non vuole sopprimere le discipline tradizionalmente considerate come scolastiche, con buona pace dei sacerdoti del culto scolastico. Intende invece valorizzarle ma con una mutazione fondamentale. Esse devono essere apprese secondo l’interesse e la motivazione e quindi somministrate quando l’esperienza o la curiosità individuale o gruppale sorge per esse.

Che significa? Proviamo a esemplificarlo. Evidentemente significa che l’obbligo in determinate fasi, secondo pretestuose tabelle desunte in gran parte ancora dalla scansione delle intelligenze piagetiana, va dimenticata. Si impara quando di è motivati, questo è il nostro assunto di base, e molto più in fretta. Se in un allievo l’interesse per la matematica non sorge fino a 13 anni, non c’è alcun motivo di obbligarlo prima a cimentarvisi. E lo stesso vale per tutte le cosiddette materie. Naturalmente si tratterà comunque di assegnare della priorità, tali per cui la lingua italiana, la storia, la geografia e la stessa matematica dovranno comunque essere incluse in alcune esperienze progressivamente, sotto forma di strumento per poter realizzare quelle esperienze, come scrivere messaggi corretti, leggere determinate pubblicazioni o letteratura, eseguire alcune operazioni matematiche e geometriche che consentano di costruire determinati oggetti o progettare spazi ecc.

Ora, il punto però rimane, queste discipline si imparano rapidamente quando la loro immediata fruibilità è percepita dai ragazzi. Non serve a nulla far calcolare a un bambino quanti litri d’acqua e quanto tempo occorrono per riempire una vasca se davvero non c’è un progetto di costruzione di una vasca o di una piscina in un determinato spazio concreto di cui sia chiaro l’uso. Sta anche alla capacità dell’educatore immaginare esperienze in cui l’ausilio dei saperi abbia un ruolo più o meno significativo e in che momento e chi includere in quelle esperienze.

In ogni caso, anche laddove a un certo punto, si debba decidere che determinate conoscenze diventino indispensabili a prescindere dalla motivazione personale o dalle esperienze programmate, anche lì sarà necessario rispettare la logica induttiva che mobilita a comprendere e acquisire conscenze piuttosto che la vecchia logica deduttiva che non funzione o comunque richiede molto tempo proprio perché non sostenuta dalla motivazione.

In quei casi occorre far sorgere la curiosità prima di proporre regole, informazioni di base o esercizi. Nel caso della matematica per esempio, mostrare come le conoscenze matematiche abbiano consentito di porre in atto viaggi spaziali, la conoscenza delle biografie di alcuni grandi matematici con documentari o film, far intervenire matematici non stupidi che sappiano far sorgere nello sguardo dei ragazzi la meraviglia per alcuni tipi di calcoli matematici e ancora mostrare come certi calcoli possono rendere operative delle semplici macchine, può essere d’ausilio. Più semplice è il caso delle materie umanistiche dove sempre c’è una buona quantità di documentari accattivanti, di conferenze o di storie, di biografie, di eventi che possono essere ricostruiti con l’aiuto di plastici, di programmi digitali, con giochi e così via. Ricostruire le grandi battaglie in questo modo può essere utile ma anche la conoscenza della vita quotidiana in certe epoche, anche con l’ausilio di film, nel caso della storia, può funzionare. Probabilmente non per tutti ma occorre aver pazienza. Inoltre, sempre nel caso della storia, partire dal contemporaneo per poi cogliere le ramificazioni nel passato pure può essere un buon espediente.

Nel caso delle scienze poi l’archivio di immagini, di documentari, di esperimenti che possono essere fatti ma anche tutte le attività con la natura e gli elementi possono aiutare grandemente a facilitare l’accesso a quelle conoscenze. In quello della geografia i viaggi, le vacanze, i week-end passati in varie località può stimolare alla conoscenza dei territori, delle storie, delle condizioni socio-culturali di popoli e paesi. Anche solo la progettazione di viaggi o i viaggi immaginari possono diventare un ottimo modo per incrociare geografia e storia. Per la letteratura poi come dicevo ci possono essere mille inneschi ma l’uso ancora una volta dell’audiovisivo e dei viaggi nei luoghi degli autori, la lettura in loco e così via può aiutare, oltre che invitare autori contemporanei naturalmente, non necessariamente con la puzza sotto il naso come Baricco. Per le lingue poi l’esperienza saprà essere davvero foriera di continue occasioni, specie in un mondo dove l’inglese ormai è la seconda lingua di impiego comune ovunque e le altre lingue possono essere intercettate in molte occasioni.

Ogni ambito del sapere può essere incrociato con l’esperienza e ogni curiosità per tali saperi può nascere mediante esperienze soprattutto se non vengono corredate da prove e compiti. La voglia di conoscere nasce spontaneamente in un bambino o in un ragazzo non sabotato dal trattamento scolastico. Ricordiamocene sempre. Se non nasce quando pensiamo che dovrebbe nascere con le nostre presupposizioni fallaci, forse nascerà più tardi e quando nascerà sarà sorretta, oltre che da una mente più esercitata, dal desiderio di sapere e quindi sarà enormemente facilitata e verrà immagazzinata in molto meno tempo. Se poi non dovesse nascere, si valuterà caso per caso se si debba insistere o meno, a seconda del grado di centralità formativa che si assegna a quel tipo di conoscenza o anche semplicemente al percorso del ragazzo che magari sta evolvendo in tutt’altra direzione e che, al momento finirebbe solo per ostacolarlo in quel percorso. Non esiste una conoscenza valida per tutti ma solo percorsi di conoscenza diversi per ognuno, specie in un’epoca in cui i saperi sono inesauribili e ogni persona ha il diritto di divenire ciò che si sente di essere senza necessariamente aspirare a una sorta di umanità universale che è il portato di antiche civiltà nelle quali ben pochi potevano accedere a quel tipo di sapere ed esso, all’epoca, era molto più limitato oggettivamente. Fine dalla paideia, fine della Bildung, ci spiace ma essa è finita nell’ordine delle cose. Può darsi che qualcuno ancora voglia arrivarci ma quel percorso per lui, nell’epoca del sapere polverizzato e iperaccessibile, della multicultura, non più solo eurocentrica, sarà un’impresa impossibile, non certo come all’epoca di Platone o dello stesso Hegel. Ricapitolando quindi, i saperi tradizionali dovranno, nell’educazione diffusa, comparire ma nella maggior parte dei casi inglobati e attivati dalle esperienze vissute dai bambini e dai ragazzi. Nel caso di saperi giudicati imprescindibili occorrerà stimolarli in maniera induttiva e accattivante fin dove possibile. Nel caso di saperi o di parti di saperi più specialistici si dovrà saper attendere la motivazione in ogni età del percorso o arrendersi al fatto che durante quel percorso non vengano compresi.”

Comunque non si preoccupi professore: chi ci governerà dal prossimo settembre metterà sicuramente le cose al loro posto con buona pace anche di Socrate, forse (?) assecondando molti tra i suoi desideri. Solo nozioni e saperi, quelli giusti e nessuna esperienza nella vita reale o nella natura, con le loro contraddizioni per apprendere ed educarsi. Questa volta non solo per il mercato sempre più libero, non solo per la meritocrazia indistinta ma soprattutto per la divinità, la patria e la famiglia.

Per finire, ricordo che Eduardo de Filippo nel suo “Gli esami non finiscono mai” auspicava proprio che finissero una volta e per sempre. Non è ancora accaduto ahinoi. Ho mollato anzitempo la scuola pubblica prima odiando la funzione meramente amministrativa e burocratica, da controllore, del dirigente scolastico e poi anche quella di funzionario gregario, seppure con qualche grado di libertà, dell’amministrazione scolastica regionale. Credo di aver dato di più all’educazione nei 16 anni successivi: molto di più.

Noi continueremo sulla nostra strada, inflitrandoci nella scuola pubblica, come in parte stiamo facendo, con pillole di educazione diffusa che stanno dando lento pede frutti e speranze di radicale cambiamento finché troveremo “adepti” e sufficienti varchi praticabili come quello dell’autonomia scolastica, uno dei mali che spesso non vengono del tutto per nuocere, a saperli sfruttare. non dimenticando che spesso a fare la differenza non è il cosa si fa ma il come,il dove e con chi. Nella scuola primaria e secondaria di primo grado le cose stanno avanzando e bambini, ragazzi, docenti, famiglie sono generalmente entusiasti delle nostre proposte (vedi le centinaia di adesioni al nostro Manifesto pubblicato nel 2018). Lo zoccolo duro della conservazione ( ci avrei giurato) o del voler cambiare poco o nulla e quasi sempre in una direzione mercantile, professionale o meritocratica, è proprio la scuola secondaria di secondo grado, soprattutto nelle roccaforti liceali classiche.

Giuseppe Campagnoli 9 Settembre 2022




L’educazione diffusa potrebbe cambiare la società e le persone?

Di questi tempi parlare di educazione potrebbe contribuire ad una riflessione sull’origine dei mali che affliggono questo mondo che non ha mai pensato a quello che scrivevano Rousseau e tanti altri pensatori prima e dopo di lui sul possesso, il dominio, i confini, le disuguaglianze, la competizione, la meritocrazia, il mercato, la guerra, i disastri ambientali, la fame. L’educazione potrebbe suggerire strade per uscire dalle paranoie e dai conflitti anche ideali indotti dalla pervicacia cinica e criminale dei poteri economici e politici oggi imperanti a dispetto di popoli ingannati, oppressi, sfruttati, bombardati e costretti spesso ad una fuga perpetua. Potrebbe altresì far superare le artificiose divisioni dettate da ignoranze costruite nel tempo e interessi pervasivi che stanno aggravando gli effetti dei conflitti, delle malattie, dell’abuso della natura, delle iniquità quotidiane e globali.

L’educazione autonoma e diffusa, collettiva, autogestita non sicuramente la scuola asservita ai governi, alle istituzioni e quindi al mercato ed al profitto, potrebbe aiutare nel tempo a cambiare radicalmente le cose. Basterebbe provarci anche mettendo insieme e deviando le risorse che vanno oggi invece disperse in tassazioni e contribuzioni che preferiscono essere utilizzate per aumentare le spese in armi e investimenti tesi al profitto di pochi invece che per la salute, i territori, l’educazione, l’ambiente.

Chissà che quella che alcuni considerano pavidamente o in mala fede una utopia non possa invece diventare realtà (trajet virtuel et trajet reél) e contribuire a far crescere menti e corpi liberi, autonomi e amanti della pace, quella vera e dell’eguaglianza, quella vera.

Il pericolo che si sta delineando sempre di più in questo periodo di una involuzione estremamente conservatrice in ogni campo comporta non solo l’ennesima riflessione sull’educazione ma uno sforzo per accelerare i progetti di intervento diretto e dal basso tesi a liberare le menti e affinare il senso critico nei giovani e non solo affinché siano in grado di capire e giudicare la realtà al di là della propaganda e delle intenzioni di chi vorrebbe continuare a dominare limitando libertà, giustizia e diritti.

Se i parlamenti potranno poco o nulla sarà il tempo ad agire e la collettività stessa, finalmente in condizione di leggere il reale e agire di conseguenza. Non è ancora troppo tardi e anche se prendessero il potere forze retrive e illiberali sarà l’educazione a darci una formidabile spinta per resistere e disobbedire civilmente fino a vanificare qualsiasi intenzione di negazione di diritti e libertà. Le resistenze per la libertà nella storia sono state sempre appannaggio di pochi a favore di molti, soprattutto attraverso l’educazione.

Nulla di meglio per far questo dell’educazione diffusa, sia fuori dalle istituzioni che dentro. Lentamente ma in modo deciso ci saranno mentori e insegnanti pronti a trasformare radicalmente e sostituire la scuola del mercato, del dominio culturale e dei suoi gregari: i partiti, i governi, i padroni delle risorse e del lavoro.

“La scuola può diventare una speranza di soluzione. Ma è ancora chiusa fisicamente e idealmente controllata da programmi, burocrazie e indirizzi.

Di fatto è così. È da lì che proviene la comprensione delle cose e la capacità di discernere e di decidere. Un nuovo fallimento nel rifondare la scuola sarà il fallimento per tutto il resto. Pensiamoci bene ed evitiamo di fare demagogia o populismo. Abbiamo già affrontato il problema scuola e proposto alcune soluzioni tanto per partire con il piede giusto già nel Manifesto dell’educazione diffusa.

Non si esaurisce qui il problema ma i capisaldi imprescindibili sono quelli indicati nel Manifesto e se non si affronterà la situazione in questo modo l’Italia e forse il mondo intero non si riprenderanno mai dalla perniciosa malattia del mercato e del dominio. Cerchiamo di riscattare l’abbecedario dalle lusinghe di Lucignolo e dalla furbesca perfidia del Gatto e della Volpe mercanti, ladri e truffatori che poi, anche per i classici, coincidevano in Mercurio dio di entrambi.

L’istruzione di massa della seconda rivoluzione industriale ha costruito la scuola come “fabbrica” dell’istruzione, con un modello sostanzialmente tayloristico: pensate alla nostre aule in fila, alle scansioni temporali, alle sequenze disciplinari, alle tassonomie che regolano l’attività ed il lavoro scolastico. Non pensate a Taylor come un esperto di produzione industriale: si fece le ossa invece nel settore trasporti. Era un esperto in “logistica” diremmo oggi. Molto più vicino a Max Weber che a Ford… E noi abbiamo trasferito il paradigma amministrativo nell’organizzazzione specializzata della riproduzione del sapere. Abbiamo mandato a scuola “tutti” (almeno come intenzione) per buttarli nel mercato del lavoro da moderni schiavi ammaliati anche dai falsi mitoidel successo e del merito.

Quello dell’educazione diffusa è un progetto di contro educazione e insieme di contro architettura che si fondono per aprire i luoghi e i protagonisti (giovani, adulti, anziani, mentori, maestri e cittadini) dell’educazione a tutta la città ed al territorio in una accezione di libertà del tutto nuova ma irrinunciabile per scongiurare gli effetti nefasti, già ammessi, in una sorta di autocritica ipocrita, anche dalle rilevazioni dei mercanti globali, dell’abisso utilitaristico in cui è sprofondata la scuola italiana e non solo.

 “L’educazione diffusa: la nostra idea e pratica di educazione diffusa trae origine dall’idea di controeducazione che interpolata con l’esigenza di non lasciare tutto al caso si traduce nel concetto di educazione diffusa “guidata” da mentori e maestri ad hoc, magari anche in una istituzione autonoma e libera. La rivoluzione contempla la destrutturazione del sistema di istruzione verso un sistema educativo che contempla aree di esperienza, diversi luoghi educativi nella città e nel territorio, tanti insegnanti ed esperti diffusi e il superamento delle materie, dei voti, dei compiti, degli esami, delle “didattiche”, della misurazione, classificazione e selezione così come la conosciamo. La controeducazione appunto è la linea guida. 

Avec l’éducation diffuse chacun est reconnu comme une personne humaine dans ses caractéristiques constitutives d’unicité, d’irrépétibilité, d’inépuisabilité et de réciprocité. L’éducation ne doit pas fabriquer des individus conformistes, mais réveiller des personnes capables de vivre et de s’engager: elle doit être totale, non totalitaire, gagnant une fausse idée de neutralité scolaire, d’indifférence éducative, de désengagement.

Con l’educazione diffusa ognuno viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. ” (Revue LeTélémaque N°60/2021)

Proseguono intanto gli incontri di formazione dei nostri virtuosi infiltrati nella società e nella scuola pubblica. Tra un po’ si accorgeranno in tanti dei cambiamenti. Sarebbe bello che tutti coloro che si stanno impegnando, anche per strade diverse ma spesso convergenti ,per cambiamenti radicali in educazione si mettessero insieme anche per non disperdere energie e risultati. Prossimamente a Rimini il 17 e 18 Settembre. Qui tutte le info: www.researt.net

Giuseppe Campagnoli Agosto 2022




La commedia delle città educanti: il villaggio del teatro di strada.

Mi sarebbe piaciuto veramente scrivere un articolo per smentire platealmente l’essenza del recente canovaccio della Commedia della città educante e il racconto non proprio edificante dell’articolo di qualche tempo fa intitolato “Buona educazione”. Debbo invece ribadire la sensazione che in Italia non si voglia affatto cambiare nulla in materia di educazione e anzi spesso si spaccino per innovazione, riforme e perfino annunciate rivoluzioni. Tutto ciò è invece solo un fare gattopardesco e tristemente conservatore che vede complici i mainstream politici, culturali, amministrativi e del variegato mondo mediatico, scrittorico, giornalaico e saggistico che si occupa di “scuola”. Ho avuto prove ad ogni angolo del nostro girovagare divulgativo reale o virtuale.Abbiamo subito spesso boicottaggi e ostacoli burocratici inventati o ingigantiti, dall’amministrazione scolastica e non solo. Virtuosi ed entusiasmanti esperimenti sono stati costretti ad interrompersi o a minimizzarsi con mille scuse istituzionali che vanno dalle paranoie sicuritarie ai cavilli di burocrazie d’altri tempi.Una grande consolazione resta comunque quella che gran parte del mondo degli studenti, degli insegnanti, dei genitori e di qualche illuminato consesso accademico stanno mostrando grande interesse e voglia di contribuire a propagare e avviare pratiche dell’educazione diffusa, malgrè tout, perfino passando dalle esperienze parentali o avviando sperimentazioni sottotraccia per infiltrarsi pro bono nel sistema istituzionale. Nonostante la pervicacia dei poteri, piccoli e grandi.

L’ultima perla, che tradisce tante affinità con una tragicomica commedia è il recente approccio con la realtà amministrativa di un comune vicino a dove risiedo che si era reso inopinatamente e fortemente disponibile ad accogliere una proposta di formazione e di presentazione dell’idea spingendosi anche a prefigurare delle prove suo campo, considerando nella fattispecie la vocazione culturale, storicamente consolidata, del municipio in questione anche con un prestigioso storico festival dedicato al teatro in piazza.

Sulla scia di città, per fortuna poche, che hanno dato in precedenza tristi prove di scorrettezza istituzionale oltre che di pressappochismo culturale, tra cui posso ahimè annoverare anche luoghi e capoluoghi della mia regione le cui prodezze fanno parte delle storie raccontate nell’articolo citato in precedenza, o di gruppi e associazioni legati a città e contesti i più vari che ci hanno coinvolto in iniziative promettenti e poi sono invece sono sparite alla nostra vista, a dispetto delle più elementari regole di buona educazione, insalutate e inspiegate ospiti anche questa bella (forse solo per i muri e la natura) città ci ha mollato di fatto senza alcuna spiegazione e motivazione. La sequenza dei fatti è indicativa. Su invito di una nostra amica appassionata e veramente impegnata nel cambiamento radicale in ambito educativo abbiamo avuto un incontro con un’ assessora (oggi si scrive così) cui abbiamo, nel dicembre scorso, descritto l’idea e il progetto (tra l’altro asseriva di conoscerlo già) ricevendo un riscontro (apparente?) di interesse e l’invito a risentirci non più tardi dell’inizio dell’anno successivo (gennaio 2022). Sed fugit irreparabile tempus. Passano invano ulteriori contatti epistolari con ulteriore documentazione. Nessuna risposta, di nessun tipo in questi ultimi sette mesi. Neppure ad una mia temeraria ma correttissima PEC inviata all’amministrazione qualche tempo fa e ad un messaggio in un social in cui l’ineffabile assessora, nostro contatto iniziale, ha addirittura accettato (improvvidamente?) la mia « amicizia ». Fortuna che nel frattempo si è consolidata ed è in dirittura d’arrivo una iniziativa analoga in un comune vicino che oltre ad ospitare il nostro seminario ci sta concedendo anche il suo patrocinio.

E pensare che proprio un editore di quella città ci ha tante volte invitato ad illustrare la nostra idea pedagogica nella sua rivista dedicata all’istruzione!

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senza parole

E pensare che, come scritto in un recente articolo (https://comune-info.net/scuole-aperte/una-scuola-di-tutti/) e in un saggio pubblicato in Francia su una prestigiosa rivista accademica ( https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2021-2-page-161.htm) si potrebbe avviare realisticamente un cambio radicale e progressivo del paradigma educativo globale a partire dalla cosiddetta scuola pubblica potrebbe modificare le idee su tanti aspetti della vita ed aiutare non poco a scongiurare o mitigare tanti di quelli che siamo soliti chiamare i mali del mondo. Senza passare per una educazione libera e diffusa non credo che le cose del mondo potranno mutare in positivo. Gli eventi di questi tempi ce lo mostrano con terribile evidenza.

APPENDICE: La mail di posta certificata inviata in Aprile senza alcuna risposta:

Al Sig. Sindaco

All’Assessore all’Ambiente e paesaggio

All’Assessore alla Scuola e servizi educativi

A seguito di un colloquio con l’assessore Fussi che doveva preludere ad un contatto per verificare la fattibilità del progetto proposto e dopo diverse mail per conoscere l’esito della proposta che non hanno avuto sorprendentemente alcun riscontro, sperando si sia trattato solo di un disguido postale sono a riproporre l’idea con una sintetica descrizione utilizzando uno strumento più affidabile come la PEC.

Il progetto di Educazione diffusa è nato nel 2017 con la pubblicazione del primo dei diversi testi sull’argomento e l’omonimo Manifesto sottoscritto da oltre 500 tra operatori, associazioni, docenti universitari ed esperti. Negli anni successivi si sono sviluppate esperienze e prove in varie parti d’Italia tra il pubblico e il privato sociale (Milano, Roma, Asti,Gubbio, Recanati, Urbino…) e sono state pubblicati diversi saggi e articoli tra cui l’ultimo nella rivista accademica francese Le Télémaque . Dopo una sessione di grande ascolto di formazione a distanza realizzata nel febbraio scorso con sede a Roma, si pensava di realizzare iniziative analoghe (anche con la presentazione contestuale dei libri e degli scritti sull’argomento) in altre città, prefigurando la possibilità con la partecipazione di enti locali, scuole e associazioni no profit, di sviluppare progetti territoriali di sperimentazione nella scuola pubblica che da sondaggi effettuati presso i docenti chg hanno partecipato agli eventi di formazione avrebbero un grande seguito. »

Giuseppe Campagnoli 8 Agosto 2022

Foto di copertina ”La scuola del mare” Titti Tarabella.




Turismo sostenibile e non solo.

Il turismo mercantile e la questione delle abitazioni. Un racconto.

Un’altra tappa, questa volta italica, della serie di come trasformare un viaggio che aveva buoni propositi di sostenibilità e moderazione in una ennesima prova dei soliti speculatori anche improvvisati di cui le zone diventate appetibili per gli invasori delle spiagge, dei luoghi storici e culturali, delle montagne e della natura in genere, sono un campo di battaglia privilegiato oltre che la dimostrazione di come sia degenerata pesantemente la questione delle abitazioni. Dico il peccato ma non il peccatore. Uno dei tanti luoghi in corso di massacro e di privazione delle disponibilità per chi non ha casa, sparsi in Italia ma anche altrove.(abbiamo avuto esperienze simili in Spagna, Grecia, Normandia, Costa Azzurra…)

Questo articolo è il sunto di una valutazione del gruppo di viaggiatori incappati in questo soggiorno-tipo e di alcuni occasionali ospiti oltre che delle riflessioni ad ampio spettro che ne sono scaturite.

Nei siti di propaganda e attiramento dei gonzi per le dimore turistiche e le case vacanza in genere ci sono gallerie di foto delle offerte, spesso senza distinzioni tra le diverse soluzioni e immagini ben studiate per non mostrare la realtà.

Al primo colpo il bene venduto in locazione non appare assolutamente come si potrebbe intuire dall’offerta nonostante la bella mostra di frutta, tarallucci e vino (un presagio?). Ma non è questo l’unico problema. Le riflessioni travalicano ben presto il campo turistico e ricreativo e la sua qualità per approdare alle tematiche abitative e sociali.

Nonostante la declamazione esaltante del luogo e dei servizi, compresa la bella e accattivante gita in barchetta offerta forse per un anticipato perdono, appena in possesso dell’alloggio è facile di primo acchitto fare una descrizione sommaria di problemi che anche altre volte abbiamo incontrato ma mai,veramente come in questo caso.

◦ prenotato per quattro persone ma dove mettere la roba di 4 persone senza alcun vero armadio se non un appendiabiti risicato in coabitazione col ripostiglio?

◦ due spazi per dormire impraticabili con dimensioni al di sotto delle norme e un solo comodino per letto doppio, unico arredo disponibile. Gli spazi sono ricavati da un unico tramezzo in cartongesso e cielo in vista (rumori, luci, odori…). Si poteva definire meglio un dormitorio comune.

◦ scala a chiocciola impossibile forse adatta a sommergibilisti o pompieri e pericolosa pure per loro.

◦ nessun piano di appoggio mensole o simili se non le sedie della cucina e dei terrazzini.

◦ non avvistati divani o poltrone da interno per fare una pausa tra l’inferno di calore del primo piano e il condizionatore degli spazi letto e ingresso privi di qualsiasi seduta che non fossero i letti.

Da apprezzare la sola cucina (seppure da punte di 35 gradi centigradi fisse, nonostante ventilatore) e la bella terrazza (con geco) utilizzabile solo (per le alte temperature) in ore notturne.

Unica consolazione, l’andare in giro, al mare, all’aperto, nei dintorni, in tutta la regione e nella limitrofa Lucania seppure invasa da un turismo ferocemente ridondante bei luoghi storici, artistici e naturali. Le foto sono testimoni nel bene e nel male. So già che gli ospitanti ne trarranno prima o poi un qualche insegnamento o almeno lo spero. L’accoglienza dei viaggiatori dovrebbe essere prima un servizio alla collettività e poi un mezzo di lucro.

Speriamo che la politica si renda conto, soprattutto quella che si dichiara per il sociale e l’equità, che risolvere la questione annosa delle abitazioni non si fa agevolando il mercimonio e la speculazione sulle seconde terze e quarte case e che occorrerebbe una legislazione che limitasse il possesso e lo sfruttamento immobiliare trattandosi di bene primario al pari della salute, del cibo, dell’istruzione. Si sappia che immobili come quelli descritti e venduti per il turismo rendono quasi quattro volte più di locazioni destinate agli affitti ad un canone sostenibile per chi cerca casa. Credo che solo una volta assicurato l’uso calmierato degli immobili destinati a coprire prioritariamente e per intero il fabbisogno abitativo a prezzi accessibili per locazioni ed acquisti, se ne potrebbe fare uso mercantile e turistico comunque calmierato. Ricordo con sgomento che già negli anni settanta si parlava di milioni di vani sfitti o gettati alla speculazione a fronte di milioni di persone senza casa o costretti a contratti di locazione vessatori e capestro. Tutto è peggiorato e addirittura oggi con la criminale norma che consente gli affitti a breve periodo praticamente a tasse zero e guadagni alle stelle, ha fatto il deserto della disponibilità di alloggi per uso sociale (famiglie, lavoratori, studenti). E per di più i turisti spesso, checchè ne dicano gli astuti imprenditori, vengono allegramente anche gabbati!

Una strada potrebbe essere quella di boicottare certe pratiche speculative dal basso e diffusamente. Non dimentichiamo che la Costituzione recita all’Art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.”

Giuseppe Campagnoli.

Di ritorno da un bel giro turistico ma da una meno bella esperienza residenziale. Ho detto il peccato ma non i peccatori. Di costoro parlerò in privato ai miei amici e colleghi facendo la giusta pubblicità nel descrivere la realtà cosi come è apparsa.

Luglio 2022




“Progettare, costruire e abitare la scuola”. Come perseverare sia peggio che diabolico!

Mi viene spontaneo di ripetere come un mantra le frasi inascoltate di Giovanni Papini, Giancarlo Decarlo e Colin Ward:

1914Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali.Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai ven ti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? 

1969 – È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?Le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo?

2018- La libertà della strada:“la scuola decentrata ordinariamente in una pluralità di luoghi, spazi e tempi adatti all’apprendimento più incidentale”.

La città come risorsa:“rivisitandola dal punto di vista del disegno urbano,della storia, dell’arte, dell’edilizia, in funzione socializzante”.

Adattare l’ambiente imposto:“superare la convinzione degli adulti a controllare, dirigere e limitare il libero fluire della vita” organizzando spazi ad hoc e a senso unico senza alcun grado di libertà.

Il gioco come protesta ed esplorazione:“ Il fatto che i bambini scelgano ostinatamente come spazi per il gioco proprio i luoghi che ci appaiono più provocatori…” è un segno che il gioco è spesso protesta ed esplorazione insieme.

Luoghi di apprendimento:”Il bisogno naturale ad imparare va scemando man mano che viene organizzato e rinchiuso in luoghi strutturati e delimitati”.

Tutto questo perché, con sgomento mi ritrovo nel 2022 a leggere le ennesime linee guida sull’edilizia scolastica (sic!) che esordiscono con una frase emblematica e sintomatica: “Progettare nuove scuole è un’azione che guarda al futuro”. Niente di più conservatore e di retroguardia! Ma poi quando leggo i nomi del gruppo di lavoro ministeriale comprendo molte cose. C’è il mercato delle archistars e degli epigoni, c’è la nuova/vecchia pedagogia e c’è anche l’alito della burocrazia ministeriale mai defunta. Comprendo che non sono affatto servite le domande che si ponevano anni fa Aldo Rossi, Giancarlo de Carlo, Colin Ward sull’architettura delle città e sul pericolo di perseverare sulla strada del “funzionalismo ingenuo” (ma non tanto). Vedo che non si capisce ancora come occorra superare l’idea dei monumenti all’istruzione, alla cura, alla riabilitazione carceraria, alle detenzioni varie più o meno edulcorate o modernizzate. Mi viene in mente un mio articolo su Education2.0, la prima rivista che ospitò tempo fa idee rivoluzionarie in fatto di architettura ed educazione.

In occasione dell’uscita delle “Linee Guida sull’edilizia scolastica” nel 2013 scrivevo tra l’altro: “Avrei voluto chiosare capitolo per capitolo il documento ricorrendo alle idee da me più volte esposte e pubblicate, oltre che condivise da esperti e pedagogisti. Mi sono accorto che seguendo lo stesso percorso sarei di nuovo caduto nella gerarchizzazione di un luogo che, per sua intrinseca natura, non potrebbe essere nemmeno descritto “per parti” . Riproporrò allora la mia lettura e la mia “linea guida”. Non ho mai avuto il piacere di essere coinvolto, pur avendo offerto la mia disponibilità, nella ricerca istituzionale sul tema, e questo è un peccato, non per me, ma per il contributo che si sarebbe potuto trarre dalla mia trentennale esperienza sul campo, come architetto e ricercatore, docente, amministratore locale e dirigente scolastico, per il dibattito sulla costruzione delle Linee Guida veramente innovative per quella che mi ostino a voler chiamare “architettura” scolastica.”

Nell’anticipare l’idea di una intera città educante al posto di tanti reclusori scolastici scrivevo ancora in una sorta di antesignana educazione diffusa: “La scuola si dilata nel tempo e nello spazio, aderisce al concetto di lifelong learning e trova luogo in ogni angolo a vocazione culturale della città ma anche del web, come sta avvenendo di fatto senza che gli ambiti fisici si siano adeguati rimanendo pervicacemente statici e gerarchizzati come alla fine dell’800. 
La “scuola diffusa” sarebbe economica, sostenibile, innovativa, efficiente ed efficace.  
Trasformiamo ove possibile tutta l’edilizia scolastica esistente in altrettanti poli di questa rete integrata da musei, teatri, biblioteche, parchi, attrezzature sportive, monumenti, municipi. “

Dal 2013 ad oggi tanti i saggi, gli articoli, i seminari e perfino i racconti dell’idea di educazione diffusa e città educante tra architettura ed educazione ospitati con interesse all’estero. Ma il mondo dell’establishment pedagogico e architettonico pare non voglia cambiare nulla o peggio, fa finta di voler innovare e progettare per un futuro che è ancora passato, brutto passato.

Farò lo stesso spelling delle “nuove linee guida” dettate dai pontificatori “pedarchitettonici” ripensando ad ogni passo alla nostra esperienza lunga e consolidata, apprezzata abbastanza presso il popolo dell’educazione ma boicottata ed osteggiata presso il potere dell’educazione e delle accademie:

Il PNRR ordina, come altro, queste linee guida. I soldi quindi. Pochi, ma come si immagina, pecunia non olet, e le consegne tengono conto quasi solo di questo o poco più.

La forma architettonica ospita una funzione.

Il funzionalismo ingenuo che aborriva anche il mio compianto maestro Aldo Rossi impera ancora.

La linea tracciata potrebbe anche costituire un primo orizzonte per la necessaria, e da più parti evocata, revisione delle norme tecniche del 1975.

E le linee del 2013? Non lette?

Tutte le giaculatorie dell‘introduzione sono dei brutti e poco incoraggianti déjà vu sciorinati dai personaggi di gran moda della médiocratie scolar-architettonica.

Nell’espansione urbana del secolo scorso gli edifici scolastici apparivano come puro “standard” o “servizio” necessario ai nuovi quartieri satellite. Oggi, invece, dobbiamo guardare a loro come veri e propri catalizzatori di vita urbana, come importanti centri di socialità e come luoghi capaci di promuovere valori importanti attraverso una “pedagogia implicita”: sensibilità di fronte all’ambiente, pari opportunità, inclusione sociale…

La città dis-educante dei monumenti alla tecnologia e ai valori indotti da un neocolonialismo pedagogico e urbanistico?

I nuovi edifici scolastici, attraverso i progettisti sapranno trasformare questi elementi in un valore unico che li comprenda e a loro perfino sopravviva: quello della qualità, della solidità e della bellezza del paesaggio, dello spazio e degli edifici. In breve, tutto ciò che rappresenta il lascito principale della cultura urbana italiana degli ultimi venti secoli.

Nuovi ma concettualmente retrò. Timidissimi passetti, solo teorici e poco coraggiosi verso un‘idea diversa e non più ottocentesca dei luoghi per l‘apprendimento (memento Papini). Una nuova scuola non è soltanto un luogo costruito per apprendere meglio. ☹️☹️

Fare scuola all’aperto, all’esterno, uscendo non solo dalle aule ma da tutti gli ambienti coperti, è una stra- da ancora troppo poco esplorata dalla scuola italiana. Corti e cortili di molte scuole sono oggi sottouti- lizzati, pur costituendo una grande risorsa per l’azione educativa. La pandemia, con la ricerca di maggiori spazi – anche esterni – per le attività scolastiche, ha reso ancora più ur- gente il loro inserimento fra gli am- bienti di apprendimento. L’ambiente esterno è il luogo di elezione per fare esperienza non solo legata al conte- sto naturale (il contatto con la terra, l’osservazione dei fenomeni meteo, la coltivazione), ma anche come prolungamento degli ambienti inter- ni. Spazi all’aperto dovrebbero esse- re facilmente accessibili dalle aule, ma anche da laboratori, biblioteche, spazi comuni e di ristorazione, in una sorta di continuità d’uso che ne faciliti l’appropriazione. Corti interne, terrazze, patio, giardini pensili, logge, verande, pergole, padiglioni, ecc. sono luoghi articolati per mediare la distinzione che separa l’involucro edificato dal contesto circostante. Le coperture esterne possono essere preziose in prossimità degli ingressi o per ospitare attività didattiche riparandosi dal sole o dalla pioggia. Condizione necessaria perché questi spazi diventino veri e propri ambienti di apprendimento è che siano progettati all’interno del piano della scuola, dotati di strutture, arredi, pavimentazioni diversificate, zone ombreggiate, semichiuse, depositi, sedute. Solo in questo modo si offrono alle scuole spazi diversificati che invitano a usi plurali, ad esempio adottando nello stesso sistema edificio più soluzioni che possono anda- re dall’uso della copertura, a diverse corti interne semi coperte, alle zone in piena terra dedicate al giardino e all’orto, ecc.

Solo propaggini del reclusorio scolastico, “coraggiosamente” spalancato all’esterno, in una concezione anni ’70 sulla quale perfino Giancarlo Decarlo aveva espresso seri dubbi.

Laddove possibile, e con particolare attenzione alla scuola dell’infan- zia e primaria, le classi e gli spazi di apprendimento interni dovrebbero poter avere un’apertura diretta verso l’esterno, così da costituire fuori una sorta di aula ‘simmetrica’ verde.

Della serie: il coraggio uno non se lo può dare. Non si propone il superamento delle norme del 1975 ma neppure quelle un po’ più avanzate del 1996 e del 2013!!

 –Fare scuola in modo più attivo e meno trasmissivo richiede strategie didattiche che trovino declinazione spaziale in ambienti articolati, di- versificati fra di loro e riconfigurabili all’interno grazie all’arredo. Molte sperimentazioni pongono l’accento sulla necessità di impostare l’attività scolastica integrando lavoro individuale, di gruppo, attività frontali, discussioni e momenti di confronto plenario. Questa articolazione spinge a immaginare un paesaggio di apprendimento che non lasci fuori nessuno, con spazi dentro e fuori che possano essere adattabili a modelli di insegnamento differenti e personalizzati.

Gli spazi distributivi (corridoi, atrii, scale) assumono un ruolo centra le, non solo nei momenti di pausa, ma per lo stesso apprendimento, se messi in grado di accogliere momenti di attività collettive e di grup- po, luoghi dove svolgere attività in autonomia o semplicemente discu- tere, aspettare, incontrarsi: “spazi ri- fugio” per ritrovarsi con sé stessi, ma anche spazi grazie ai quali promu vere un processo di apprendimento che – coerentemente ai traguardi metacognitivi suggeriti dalle Indicazioni nazionali – dia rilevanza al ruolo attivo dello studente nella costruzione e nell’impiego delle diverse strategie di lavoro scolastico. Anche questi sono aspetti rilevanti, che de vono guidare un’azione progettuale capace di interpretare le necessità diverse, a seconda di età e fase evolutiva. Il ripensamento parte dall’aula, che si trasforma da spazio rigido e stere- otipato a fulcro di un sistema in grado di ospitare diverse configurazioni e allargarsi agli spazi limitrofi. 

Resistono come i muri che non crollano le aule, gli arredi, i corridoi, gli atri, i laboratori. Le forme cambiano ma le sostanze decisamente no. Il reclusorio aumenta solo gli spazi per le “ore d’aria”?

Molti dei punti (circa 9 su 10) si riferiscono alle caratteristiche costruttive dei casamenti scolastici considerati implicitamente come imprescindibili.

Consiglierei agli ineffabili redattori del documento e a chi fosse interessato la selezione di articoli sull’argomento elencati in APPENDICE.

La chiave ricorrente e fondamentale per me è concepire una città educante in cui si accede da quelli che noi chiamiamo “i portali” dell’educazione diffusa, gli spazi costruiti o trasformati ad hoc, polifunzionali e aggregativi che sostituiscono almeno 5 o 6 edifici scolastici tradizionali con lo scopo di fare da base e introdurre ad una rete di luoghi della città e del territorio dove ricercare, studiare ed apprendere attraverso esperienze multiformi e flessibili nel tempo e nello spazio.

Nel libro “Educazione diffusa.Istruzioni per l’uso” di P.Mottana e Giuseppe Campagnoli Terra Nuova Edizioni 2021 si legge:
Il portale, la base, la tana libera tutti.

Intanto osserviamo le caratteristiche del cosiddetto portale, sia che sia costruito ex novo, sia che sia il risultato della trasformazione di un edificio scolastico esistente o di un altro edificio per così dire, collettivo. Qualche terribile centro commerciale potrebbe smettere la sua funzione mercantile e diventare con opportuni interventi miracolosi, da spazio-rospo (con tutto il rispetto per lo splendido batrace) mercantile a spazio-principe educante: uno splendido megaportale culturale per una intera città.

Prendiamo però ora il caso di un edificio scolastico o di un cosiddetto campus esistente che abbia assodate certe caratteristiche e sia circondato da bei luoghi come biblioteche, teatri, musei, giardini, botteghe e laboratori. Bisogna aprirlo come una scatoletta e se la pianta lo consente, ridisegnare gli spazi prima gerarchicamente realizzati, eliminare scale e ascensori cercando di mantenere tutto in piano (per correre e saltare meglio già da dentro!), anche utilizzando rampe e piani inclinati.

Tanti ambiti aperti e collegati tra loro, tanto aerati e illuminati da sembrare più fuori che dentro, colorati e arredati fai da te, da voi da noi e da loro, in modo libero ed efficiente, non fisso, con l’apporto diretto di chi li vive e tanto flessibili da poterne mutare la forma e la mimesi cromatica in tempo reale come un vanitoso camaleonte educativo per le necessità del momento anche con l’aiuto di marchingegni e macchinette tecnologiche, aggeggi moderni e materiali naturali. L’uso collettivo del Portale per i momenti di partenza, condivisione e di riflessione a posteriori sulle attività da svolgere durante la giornata, la settimana o il periodo stabilito fa sì che debba prevedere spazi di aggregazione comodi e dotati di strutture adeguate a scrivere, leggere, fare rapide ricerche, raggrupparsi e dividersi per seguire ora un mentore ora l’altro ora un esperto ora l’altro.

Dal portale si diramano percorsi coperti o protetti di pedonali, ciclovie, acquavie, risciò, monopattini e pattini a rotelle, piccoli mezzi collettivi elettrici (come quelli inutili del golf) e stazioncine di bus ecologici o, più avanti nel tempo, piccole metropolitane di superficie connesse con la rete urbana principale, guidate e “segnate” ad esempio dai segni colorati che vedremo più avanti.
Rileggo con ansia fattiva dalle appendici del Manifesto della educazione diffusa: “La gestione e la fruizione dello “spazio fuori” è dunque un tema importante che viene negoziato con enti pubblici e privati per l’individuazione di luoghi di apprendimento ma anche di semplici luoghi-presidio che fungano da punti di riferimento per i ragazzi e ragazze e di percorsi dedicati a forme di viabilità leggera (piste ciclabili, zone pedonali, ecc.), affinché possano muoversi nel loro territorio in sicurezza e raggiungere sempre più autonomia. L’obiettivo è che il confine tra il tempo dentro e quello fuori la cornice scolastica sia sempre meno percepita, configurandosi tutto come tempo di vita piena. Naturalmente per questioni organizzative viene delimitato un tempo scolastico che prevede la presenza degli insegnanti e lo svolgimento di attività programmate e che rispetta la configurazione e la logistica della scuola di appartenenza. L’orario complessivo settimanale o plurisettimanale, nella fase transitoria, viene rispettato ma in situazioni particolari in accordo con le famiglie può essere rivisto in base alle esigenze dei progetti e delle attività.”

Giuseppe Campagnoli 6 Maggio 2022

APPENDICE

Articoli e scritti recenti sull’argomento:

https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2021-2-page-161.htm

https://educazioneaperta.it/fare-fuori-la-scuola-verso-leducazione-diffusa.html




L’educazione è alla base di tutte le idee.

Attraverso l’educazione è possibile costruire o ricostruire anche l’idea della pace e della guerra.

come della salute, dell’economia, della città, della natura, della politica della proprietà, della vita in generale ma la condizione fondamentale è che l’educazione avvenga principalmente attraverso l’esperienza e la vita stessa con una serie infinita di quello che io insieme ad altri prima di me ho chiamato lo choc educativo che avviene durante le tante  esperienze e le osservazioni,le ricerche, le incidentalità, gli studi e le restituzioni e condivisioni in corpore vivi che si esplicano attraverso un’intelligenza unica, multiforme e multisenso.  Il tutto nelle varie scene dell’apprendimento che vanno dal corpo alla natura, all’immaginazione  all’arte, alle storie tratte dalla realtà e dalla fantasia, dalla scienza che cerca e ricerca senza fine e senza dogmi,  dalla lingua che è pensiero e delle relazioni umane che non sono separate fra di loro ma rappresentano una interconnessione continua di contatti molteplici e  multiformi. 

Istruzione, addestramento, formazione sono invece le sovrastrutture parziali e strumentali dell’educazione che non può essere per sua natura codificata e cristallizzata in procedure ,programmi , valutazioni competenze e conoscenze determinate dai vari poteri dominanti più o meno sulla base di consensi discutibili quando non indotti o obbligati palesemente o subliminalmente. Conoscere, sapere  e saper usare liberamente la realtà e le storie, la creatività e l’immaginario in una accezione collettiva e cooperativa può mitigare e orientare in senso positivo gli stimoli naturali ai conflitti e all’aggressività   se il cosiddetto “mutuo appoggio” fondamentale in natura (cfr. Kropotkin)  lo diventasse anche per l’animale della specie umana. L’educazione può, nel tempo salvare il mondo, purché sia libera, diffusa e integrata nei diversi momenti e luoghi della vita, quasi istintiva, sicuramente incidentale. Ricordo un bel passo dell’introduzione  di Silvano Agosti al nostro pamphlet (Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli) : “Educazione diffusa.Istruzioni per l’uso” Lì la nostra città educante diventa società e mondo educanti. E anche ciò che scriveva Rousseau su dominio, proprietà, confini, ricchezza, povertà, sfruttamento e guerre  potrebbe passare sorprendentemente e finalmente dallo stato di utopia a quello di splendida, crescente realtà. Forse è per questo che pochi  audaci e illuminati vorrebbero dovunque mettere semi per rendere una quasi utopia una certa realtà in divenire. 

Ecco il passo conclusivo della lettera-introduzione di Silvano Agosti:

 “Miei cari Paolo e Giuseppe, la vostra richiesta di esprimere un mio pensiero in relazione al nuovo e complesso edificio educativo che insieme avete elaborato Educazione diffusa , fitto di proposte e di pensieri scolpiti nel buon senso e nella certezza che esista davvero la necessità e l’intenzione di “educare” l’Essere Umano, mentre a mio personale parere l’Essere Umano andrebbe nutrito e ospitato gratuitamente dai Governi e gli Stati del mondo. Soprattutto l’Essere Umano andrebbe lasciato in pace nel territorio di crescita che la natura gli offre ovvero il proprio DNA, oppure andrebbe lasciato libero nella pratica completa e totale del Gioco. Sì, sempre a parere strettamente personale, il  solo desiderio di ogni Essere che viene al mondo, per ora dalla nascita fino ai 5 anni di età, è unicamente quello di giocare, giocare e giocare.                                                                                                                                           Naturalmente se nell’infanzia i giochi saranno semplici, già dalla prima adolescenza ogni Essere Umano fruirà dei vari linguaggi creativi che traggono origine dal gioco ovvero la pittura, la danza, la musica, la letteratura, la recitazione, il cinema etc. come voi stessi proponete nel vostro progetto Educazione diffusa. Importante è che ognuno scopra la propria unica, rara e irrepetibile creatività finora completamente estinta da qualsiasi esperienza scolastica. Ovviamente gli adulti, che in genere riservano il loro tempo ad attività ricreative precostituite (poker compreso) o perfino a giochi d’azzardo, quale sia il solo Gioco cioè la creatività da cui l’Essere Umano non dovrebbe separarsi mai, non sanno più neppure che esiste. L’ideale quindi, come è previsto in modo specifico nel mio testo LETTERE DALLA KIRGHISIA, invece di qualsiasi edificio educativo, sarebbe di consentire agli esseri umani di recarsi ogni giorno nei parchi a giocare, più o meno fino alla soglia di età dei 18 anni. Cari Giuseppe e Paolo, un edificio giustamente va protetto nel corso della sua esistenza ed è giusto concepire restauri anche strutturali, come, di fatto, si rivela essere la vostra proposta di un’educazione “diffusa” che lentamente restaurerebbe una educazione “confusa” che dura ovunque da circa due secoli e mezzo. E’ importante, infatti, non dimenticare che l’educazione di massa ha origine nel 1700 e si sviluppa insieme alla nascita della società industriale. Oggi stiamo assistendo all’evidenza spettacolare ormai storica di una decadenza della produzione solo industriale dei beni (le città sommerse dal veleno dell’ossido di carbonio emesso durante la giornata da milioni di automezzi solo industriali, vedi rifornimenti energetici delle grandi industrie a base di carbonio, vedi nocività del cibo industriale etc.) Oggi quindi più che di restauri si dovrebbero progettare degli edifici assolutamente diversi e quindi già previsti dalla Natura. In uno dei miei dialoghi apparentemente surreali con una quercia, stupendamente alta oltre una ventina di metri, mi sono figurato di chiederle da quale processo educativo era nata tanta sua bellezza. E facilmente mi sono figurato che rispondesse “Tutte le istruzioni della mia educazione erano rinchiuse in una minuscola ghianda di qualche manciata di millimetri. La mia educazione fa rima con “inseminazione” ma oltre la minuscola ghianda ho fruito anche di nutrimenti preziosi a base di pioggia e di sole”. Desidero concludere questa mia riflessione epistolare proponendovi di immaginare che, forse, la crescita in libertà di ogni essere umano non dipende dal progettare nuovi e spettacolari edifici educativi, ma finalmente dalla decisione che tutti gli Stati e i Governi facciano ciò che avrebbero da sempre dovuto fare. Cioè? Cioè Stati e Governi fin qui soffocati dai privilegi e barricati dietro montagne di chiacchiere politiche, di leggi, leggine e leggette comunque mai rispettate, decidano di procurare a “tutti gli abitanti della terra, nessuno escluso, casa e cibo gratuiti”. Ma i fondi per tale buona e naturale azione di massa? Semplicemente prelevando il 22 per cento delle spese militari ovvero non una sorta di IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) ma una sorta di IVU (Imposta sul Valore   Umano).                                                                                                                          Solo così, cari Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli,sparirebbero immediatamente dal mondo le Guerre, il Denaro, la Prostituzione, le Droghe, il Lavoro obbligatorio e sparirebbero anche tutti i ragionieri, i genitori, gli insegnanti, gli educatori, i mariti, i preti, i medici, gli artisti da un Pianeta ormai e finalmente abitato solo da Esseri Umani. Un abbraccio da Silvano Agosti”

Si tratterebbe, in definitiva, di mettere in campo una sorta di rieducazione globale (non certamente in una accezione” cinese”!) fondata su una serie infinita di libere esperienze con mentori, esperti e maestri di mondo, realizzata permeando istituzioni, città, territori, non necessariamente  riformando con burocrazie e istituzioni  ma “infiltrando” i concetti e gli ambiti di istruzione, formazione, comunicazione con le idee e le pratiche già da tempo proposte e in parte anche “provate”  dell’educazione diffusa. Si attendono altri illuminati “spioni e informatori” della società educante oltre a quelli che sono già meravigliosamente all’opera in non poche realtà, anche sottotraccia.

Chissà che non si riuscisse a distinguere un briciolo di realtà dalle mille verità costruite, contrapposte come strumenti di potere e di controllo economico, politico e sociale. Chissà che lentamente le persone non si rendano conto che le loro convinzioni, a volte anche quelle apparentemente trasgressive o controcorrente, non siano invece indotte dall’ignoranza costruita su mille verità manipolate, sulle bulimie mediatiche e transmediatiche di social, giornali, tv, a senso unico (il mercato che li gestisce) dai pontificatori, frullatori di pensieri e di idee, sublimi confezionatori di brodi di notizie-fiction, filosofi, scrittori, reporter pro domo sua e mezzi busti d’assalto? Verità e dogmi di tutte le risme sono passati e si sono sedimentati per generazioni e vi passano ancora, attraverso la cosiddetta “istruzione”, pubblica o privata che sia, con i loro strumenti di controllo, classificazione , selezione e infine reclutamento tra le fila di chi ha o avrà potere sulla comunità e di chi obbedirà senza problemi alle leggi, alle notizie, ai racconti, alle favole terribili o seducenti costruite proprio ad usum delphini.

Probabilmente con una educazione profondamente e radicalmente diversa il pensiero critico e creativo sarebbe prevalente e porterebbe se non altro ad osservare la realtà senza schermi e schemi prefigurati e a farsi più domande ed esprimere dubbi più che certezze indotte e “guidate”. Ci vorrà qualche decennio ma ne varrà senz’altro la pena se si arriverà in tempo.

Giuseppe Campagnoli 20 Aprile 2022




La commedia DELL’ARTE DI EDUCARE

Siamo di nuovo ad un triste déjà vu. Non sono bastati due anni di pene, di detti e contraddetti, di fanatismi, di pontificatori ad ogni angolo, di sette pedagogiche, di “chi più crede di avere più ne metta”. In mezzo insiste la protervia di un sistema scolastico, vecchio, classificatorio, mercantile, a tratti falsamente innovatore, che non perde occasione per boicottare od ostacolare ogni reale spinta di radicale e necessario cambiamento che non è la scuoletta nel bosco, il privato precettariato aristocratico o la misticheggiante paranoia di improbabili pedagogie che non vedevano l’ora di approfittare di paure, ignoranze, potenzialità di profitti.

Ho detto e ridetto quasi tutto sulla mia idea di educazione, condivisa e narrata con slancio insieme a Paolo Mottana, così come sulla mia idea di architettura. Entrambe le idee non sono solo le mie ma poggiano su solide spalle di tanti giganti. Purtroppo come ho già detto tante volte oggi più che mai su questi temi la confusione regna sovrana e la mediocrazia, con il parente stretto della meritocrazia, la fanno da padrone in ogni lido politico, anche degli apparenti (falsi e presenzialisti ad oltranza) progressisti. Non è un mio giudizio presuntuosamente tranchant ma solo un osservazione della realtà e del desolante vastissimo panorama dei troppi che dicono, ridicono, contraddicono e predicono. Non vedo all’orizzonte, in Italia e neanche altrove, tranne quei rari sublimi esperimenti in atto, un deciso orientamento verso una radicale mutazione dell’educazione e della concezione della città e dei territori. L’ ho scritto e detto ormai troppe volte e non intendo ripetermi. Non ho la verità in tasca ma ho una bella antologia ragionata di tante utili e geniali verità. L’ unica cosa che sono riuscito a fare, in parallelo con la mia operosa svolta, è stare a disposizione come volontario e modesto consigliere o meglio riconosciuto come mentore virtuale, e spero anche virtuoso, di chiunque, avendo approfondito il nostro progetto ormai più che esauriente nella sua narrazione, volesse provare l’educazione diffusa e pensare a trasformare territori e città in educanti.

Sono ancora in attesa di conoscere il destino di alcuni sassi lanciati ormai da qualche tempo oltre confine, che per ora constato essere stati accolti con interesse e curiosità, forse molto di più e molto più autorevolmente che in patria. L’ idea dell’educazione diffusa, nella nostra accezione di superamento della scuola-istituzione di oggi e del suo possibile intrinseco legame con la città e la vita reale ha suscitato sinceri moti di coinvolgimento e voglia di dialogo in quei lidi stranieri. Chissà che non fiorisca qualche bella rosa anche in trasferta! Il N° 60 della prestigiosa rivista Le Télémaque con uno studio sull’educazione diffusa, sofferto nella scrittura e nei numerosi “esami” redazionali superati, sta per uscire a giorni e diffonderà anche in Francia la nostra idea di educazione.

Mentre resta per me oggi un punto fermo: il detto “troppi galli a cantare non si fa mai giorno” è più che mai valido di questi tempi e un’idea essenziale come quella dell’educazione che non sia più identificata neppure per sbaglio o convenienza con una scuola come quella di oggi non potrà mai essere realizzata solo con piccole, parziali, velleitarie e a volte elitarie e presunte innovazioni, per quanto piene di volontà e di buoni propositi. Secondo me e secondo quanti hanno aderito alla nostra concezione di educazione, la strada è una sola perché sintesi consolidata e ragionata per tanto tempo di quasi tutte le buone idee e le buone pratiche della storia della pedagogia più coraggiosa e rivoluzionaria.

Balenano emozioni e memorie, trasfigurazioni di fatti e di idee in una specie di elucubrazione teatrale che rappresenti una storia di educazione, di città, di bambini e ragazzi, di adulti e luoghi della memoria e della esperienza vitale. Rileggendo con spirito trasgressivo e mutante una commedia di un noto sovversivo d’altri tempi mi è sorta una specie di ispirazione che potrebbe avere un bel seguito. Ho visioni di scene, di personaggi, di storie, di quinte e di racconti, disegni, musiche e danze che potrebbero rendere amusant e insieme éduquant un breve e plausibile racconto. Ci sono tipi come la Vergara che governa la scuola, il maestro Jean, le bande, il Borgomastro ed il Bidello, l’oste e il libraio, il vasaio e tanti altri ancora. Forse servirà più di tanti saggi e riassaggi dove ormai per quel che mi riguarda ho detto quasi tutto e che sarebbero inutilmente utili solo a chi non avesse avuto orecchie per udire e occhi per vedere. Ne ho contati di quei pamphletti da quando ho riposto il gesso, il compasso e la cattedra, tanti forse troppi, più di un centinaio, decisamente oltre il repetita iuvant. Ora mi taccio per un po’ e mi dedico al recitare e sceneggiare com’era nella mia inevasa passione giovanile. Avrete mie notizie prima o poi.

Ecco l’anteprima di un canovaccio che troverete anche qui: https://www.libreriauniversitaria.it/commedia-citta-educante-canovaccio-messa/libro/9791220353632

Argumento ed ordine della comedia

Son queste le materie principali intessute insieme ne la presente comedia:la protervia, l’insipienza,il dominio, la gaiezza, il sapere, l’erranza, la natura, la città.

In tristitia hilaris,in hilaritate tristis

Antiprologo

C’era forse abbisogna di codesta commedia? A questo punto s’immagina proprio di si. L’ autore e i suoi sodali anelano che le genti si cimentino nell’educarsi e nell’acquisir saperi e poteri andando, sbirciando e facendo, errando e speculando. In tempi di tante pestilenze nom val la pena carcerarsi e attendere ch il male trionfi. Vale allora sortire e muoversi a piccole bande per calli e campielli, per esedre e piazzette, corti e cortili, botteghe e chiostri, per tratturi e sentieri, per cupe e radure. Vale senza alcuna dubitazione aggrupparsi e cercare, dialogare e trovare il senso della vita e dei saperi sperimentando il bello e il brutto la scienza e la coscienza, la gramatica, il corpo e le liberalità. Orsù muoviamoci e partiamo per l’unica avventura plausibile e gaia dell’apprendimento. Alla malora gli accademici e gli scribi, i notabili e i notai o i falsi chierici novizi che imposero o ipocritamente mantennero, fingendo mutazioni virtuose, una schola reclusa e ad usum delphini.

Proprologo

Dove è ito quel furfante, schena da bastonate, che deve far il prologo? Signori, la comedia sarà senza prologo; e non importa, perché non è necessario che vi sii: la materia, il suggetto, il modo ed ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi per ordine: il che è molto meglio che si per ordine vi fussero narrati. Questa è una specie di tela, ch’ha l’ordimento e tessitura insieme: chi la può capir, la capisca; chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non lascierò per questo di avertirvi che dovete pensare di essere in una regalissima città indegna di cotali governanti. Questa casa di quinte che vedete cqua formata, guardatevi, pur voi, che non vi faccian vedovi di qualche cosa che portate adosso: — cqua costoro stenderranno le sue rete, e zara a chi tocca. Da questa parte, si va dalla Candelaia e poi dal Mentore Jean e dai sodali, quinci dal podestate che l’urbe governa e dalle bande delle genti honeste. Eccovi avanti gli occhii ociosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti dipetto, scoverture di corde, falsi presupposti, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia. Prosopopeia e maestà, infingarde promesse e coraggiosi aneliti di verità e saggezza. Vedrete come bande, mentori e mentòre addurranno al sapere picciole, piccili e grandi con gaiezza e naturalezza. Eccovi presente in questo nuovo mondo d’esperienza, un’acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar i denti, petar, rizzar, tussir e starnutare; eccovi un di compositor di libri bene meriti di republica, postillatori, glosatori, construttori, metodici, additori, scoliatori, traduttori, interpreti, compendiarii, dialetticarii novelli, apparitori con una grammatica nova, un dizionario novo, un lexicon, una varia lectio, un approvator d’autori, un approvato autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani, spagnoli, francesi, posti in fronte libri. Ma pure quindi procedeno febbre quartane, cancheri spirituali, pensieri manchi di peso, sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri, granchiate maestre e sdrucciolate da fiaccars’il collo; oltre, il voler che spinge, il saper ch’appressa, il far che frutta, e diligenza madre de gli effetti. In conclusione, vedrete in tutto non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono. Fino a quando non trionfi il sapere e il fare misti insieme in uno splendido florilegio di sensi, verbi e figure.

Per chi si impegnasse in un progetto di messa in scena a scuola, nel quartiere, nel condominio, in una associazione, a teatro c’è la possibilità di richiedere il copione in PDF scrivendo a: researt49@gmail.com

Giuseppe Campagnoli 9 Gennaio 2022