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Gli Elfi di Cagliari tra le avanguardie dell’educazione diffusa

Nell’articolo, l’ultimo in ordine di tempo con una trattazione completa, che raccontava ai cugini francesi, sulla rivista Le Télémaque, l’esperienza italiana dell’educazione diffusa e della città educante, incolpevolmente, per tempistica e tempestività di informazioni, mancava la citazione-insieme a quelle di Bimbisvegli di Asti, dell’Officina del Fare e del Sapere di Gubbio,della Scuola nel Bosco a Torino, di Fuoriclasse in Movimento di Save the Children e del NABA di Milano-della geniale esperienza della Scuola Elfica Interetnica presso l’I.C. Satta-Spano-De Amicis di Cagliari, che è giunta da poco, tra l’altro, a condividere un vero e proprio Patto di Corresponsabilità tra scuola, famiglia e quindi territorio, anche nella scuola primaria, con riferimenti espliciti all’idea di educazione diffusa.

Ecco, qui di seguito, il racconto quasi in diretta delle maestre e mentori che ho potuto anche incontrare di recente, per una fortunata coincidenza, proprio vicino alla loro “base”- protagoniste di questo eccezionale progetto.

Le maestre mentori della Scuola Elfica Interetnica con uno dei promotori (nel 2017 insieme a Paolo Mottana) dell’Educazione Diffusa.

La scuola elfica, una scuola oltre le mura.

Maestra Cicci Della Calce.

Nel cuore della città di Cagliari, dove i quartieri Marina e Stampace si incontrano, sorge la Scuola Satta. L’edificio, risalente al 1904, è imponente, austero, non si può guardarlo per intero senza volgere lo sguardo al cielo. Dietro le finestre, il suo cuore che batte, le tante generazioni di studenti che da più di un secolo popolano le sue aule. Un pezzo di quel cuore è la scuola dell’infanzia, istituita ventitre anni fa, che ospita più di centocinquanta bambini, dai tre ai sei anni, di diverse etnie, un preziosissimo mosaico frutto della politica di inclusione che la scuola porta avanti felicemente da decenni. È in questo variopinto contesto che è nata e vive la Scuola elfica per opera di un manipolo di maestre eroiche, di cui faccio orgogliosamente parte, artefici di una proposta rivoluzionaria: portare la scuola fuori dalle aule, a contatto con la vita di ogni giorno nella convinzione che la società più che gli edifici scolastici sia l’ambiente adatto per l’apprendimento, che le esperienze debbano essere ricche, intense e appassionanti e il più possibile trovare compimento nella realtà. 

Il quartiere educante

L’inizio di questa meravigliosa avventura risale a cinque anni fa, quando, ispirandoci ai nuovi modelli educativi che si stanno diffondendo in tutta Europa e a seguito di un accordo con l’associazione Punti di vista, partecipammo al progetto Scuola degli elfi (da qui il nome Scuola elfica) affiancandoci in otto uscite didattiche sul territorio. Per la prima volta, visitando parchi, boschi e spiagge, abbiamo sperimentato la didattica in natura e i benefici di fare scuola all’aperto, per la prima volta abbiamo assaporato il piacere di fare scuola oltre le mura vivendo il mondo e non guardandolo da dietro i vetri delle finestre delle nostre aule, per la prima volta ci è sembrato di aver realmente investito sulla felicità dei nostri piccoli. Dall’anno scolastico successivo, questa esperienza è diventata sistematica.

La vendemmia

Abbiamo creato un raccordo col territorio, convenzioni con orti e parchi; accordi con enti pubblici, privati e aziende; abbiamo stipulato un patto con le famiglie che ci hanno garantito il loro pieno sostegno e stanno contribuendo in maniera fondamentale alla realizzazione di questo progetto: portare la scuola fuori dalle aule e dentro la società, rendendo i nostri piccoli alunni protagonisti attivi del proprio apprendimento, soggetti che osservano, che contribuiscono, che partecipano, che offrono la loro creatività, la loro intelligenza e la loro fantasia per migliorare la vita sociale, che la colorano, la impregnano della loro vivacità e del loro colore, della loro sensibilità e della loro freschezza e spontaneità.

Il Portale

La scuola elfica è dunque un progetto di “scuola statale diffusa” che si pone quale alternativa all’istituzione scolastica tradizionale. All’apprendimento della scuola d’aula, mira ad affiancare un apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere rimettendo bambini e bambine in circolazione nella società che, a sua volta, assume in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo. La scuola elfica aiuta i bambini  a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per offrire il proprio contributo alla società trasformando il territorio in una grande risorsa.

La strada

Il progetto nasce altresì dal desiderio di poter far vivere i benefici del vivere in natura, valorizzando tali esperienze in qualità di momenti di crescita personale e di gruppo, ricchi di concetti e metafore riconducibili alle tematiche e agli argomenti svolti in sezione attraverso la didattica esperienziale all’aria aperta, una metodica capace di coadiuvare e valorizzare i programmi tradizionali della scuola. Grazie alla grande ricchezza di stimoli e sensazioni, essere educati nella natura è fonte di innumerevoli benefici per i bambini, sia dal punto di vista fisico sia dello sviluppo cognitivo e psicologico. Ma la scuola elfica si gioca anche dentro le aule, ambienti  accoglienti, caldi, colorati che abbiamo adattato ai corpi dinamici dei bambini, una base dove riunirsi per partire, per poi rivedersi per condividere, rielaborare e approfondire, sono le nostre tane, quelle in cui ci rifugiamo, riflettiamo, ci sentiamo protetti, perché “l’elfitudine” non è solo un modo alternativo di fare scuola, è una filosofia, un modo di intendere l’educazione e la formazione dei bambini che mira a creare piccoli cittadini autonomi, che  offre  ai  bambini  la  possibilità  di confrontarsi  con  il  mondo  circostante, permette loro di acquisire maggior responsabilità e la possibilità di conoscere meglio sé stessi.  

La base

Attraverso   l’ampliamento del  raggio  delle  proprie  attività,  i bambini possono sperimentare contesti relazionali nuovi e sono  sempre chiamati a dare prova di sé e delle proprie abilità e competenze e del proprio livello di autonomia. E’ a partire dalla rinnovata presenza dei bambini nei nostri spazi comuni, e non più solo confinati in luoghi fittizi e separati, che il mondo può diventare di nuovo organico, affettivo, a misura di tutti. Attraverso il progetto elfico, la scuola finalmente esce dall’aula, entra in società per far parte di una vera comunità educante.Il ruolo di noi maestre è quello di osservatrici che, quando serve, intervengono  come mediatrici e accompagnatrici che mettono a disposizione dei bambini le informazioni e le esperienze che possiedono. Siamo  “basi sicure”, un riferimento a cui tornare e a cui rivolgersi quando i bambini ne hanno bisogno. Il modo di interagire con i bambini non può quindi essere direttivo, ma deve instaurare un dialogo continuo in cui una parte impara dall’altra. 

Il Castello

E i risultati? Li vedi dagli occhi dei bambini, dall’entusiasmo per un’esperienza nuova, dalla gioia per una nuova conquista; li vedi dagli sguardi dei genitori che ti affidano con fiducia il loro bene più prezioso in virtù di quel patto sotteso che la scuola elfica esige, di quella condivisione di intenti, in quel rispetto dei ruoli equamente importanti per la crescita armonica dei nostri bimbi. Questa è la nostra scommessa, ciò per cui lottiamo ogni giorno nella perfetta convinzione che la scuola elfica stia fornendo un validissimo contributo alla FIL (felicità intera lorda).

L’ Orto Botanico

Maestra Stefania (Stefania Piras): Ho modificato molte volte il mio modo di insegnare, ma la svolta maggiore è avvenuta cinque anni fa, quando nella scuola Satta abbiamo iniziato, in maniera sperimentale, l’avventura elfica e  ci siamo cimentati in una modalità differente di fare scuola.All’inizio non è stato facile. L’abitudine ad avere tutto esattamente sotto controllo è dura a morire. Poi in realtà ho scoperto che, con i dovuti modi, condurre i bambini nelle loro esperienze, lasciandogli il giusto spazio, è la carta vincente. Sanno sorprenderci, se diamo loro fiducia, se li rendiamo indipendenti, e in grado di gestire i propri bisogni e le proprie esigenze. Ho imparato a  lasciare ai bimbi la libertà di provare, di osare, stando distante, ma non troppo, vicina, ma non troppo, presente, ma non troppo. Ed è stato un successo. Anche nella didattica ho cambiato atteggiamenti: via le schede e i lavori preconfezionati, spazio aperto alla creatività, indirizzando dove occorre, e dando spunti, appassionando e interessando, scoprendo che ai bambini si può veramente insegnare di tutto, se si insegna divertendo. 

Simo, Maestra felice (Simona Buzzi): La scuola elfica è un mondo. Un mondo di colori, di curiosità, di creatività, di scoperta, ma soprattutto di stupore. La scuola elfica è  libertà di pensiero e di azione, di consapevolezza del proprio corpo, dei nostri limiti e delle nostre capacità. Ogni esperienza elfica rivoluziona il nostro modo di fare scuola, sia fuori che dentro le mura di un ambiente scolastico, perché non segna una strada da seguire, ma accompagna i bambini e le maestre nel meraviglioso viaggio della vita. Non sei elfico solo a scuola, ma in ogni scelta del quotidiano, contagi chi ti sta vicino e non puoi più tornare indietro, perché senti di aver fatto la scelta giusta per te e per i tuoi alunni. La scuola elfica è fortemente consigliata, ma, attenzione, dà dipendenza!

Una bellissima storia di affinità, quasi contemporanea all’uscita del Manifesto dell’educazione diffusa, che coinvolge diversi luoghi della città dentro e fuori di essa, come ad esempio l’Orto Botanico dell’Università di Cagliari o le botteghe, i musei, i. monumenti, i laboratori artistici.

Gli Elfi nei pressi della loro “base” vicino alla Piazza del Carmine

Dalla scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo Satta-Spano-De Amicis l’educazione esperienziale, come già detto all’inizio dell’articolo, si sta affacciando anche al segmento della primaria e si gioverà di un apposito patto già sottoscritto tra scuola e famiglie di cui vi riporto dei brani significativi:

  •  Promuovere e attuare scelte metodologiche alternative a quelle classiche attraverso pratiche di educazione diffusa con esperienze concrete di vita reale
  • Scoprire e valorizzare talenti e abilità di ciascuno studente
  •  Sostenere le scelte metodologiche di educazione diffusa con un’informativa sistematica e puntuale, attraverso una comunicazione diretta e con l’utilizzo di tutti i canali istituzionali
  • Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali per ripensare, riprogettare e valorizzare il territorio, attraverso la conoscenza dello stesso, per tornare a prendersene cura e proporre eventuali suggerimenti per renderlo migliore, a partire dalle osservazioni e dalle analisi di bambini e bambine
  •  Creare connessioni e coinvolgere dinamicamente la comunità nel processo educativo, rendendola parte viva, attiva e collaborativa
  •  Far riscoprire la bellezza dello stare insieme collaborando per un fine comune.
  •  Favorire percorsi che permettano ai corpi dei bambini di muoversi autonomamente in spazi ampi e diversi dalle aule o dai giardini/cortili scolastici, favorendo il movimento per migliorare la stima di sé, controllare le emozioni e scaricare le tensioni
  •  Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione che promuova l’emersione dei sentimenti profondi dei bambini
  •  Favorire esperienze di cittadinanza attiva e solidale
  • Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città

I luoghi della città e del territorio teatri delle ricorrenti uscite dalla “base” sono quelli delle esperienze educative, anche incidentali, oltre che organizzate senza rigidezze. L’orto botanico, l’azienda agricola, la bottega, la piazza, la strada, la spiaggia. La natura, gli spazi urbani, gli edifici emergenti sono le scene dove si svolgono le ricerche, le scoperte attraverso le attività non in modo occasionale ma continuo e integrato in tutto il percorso educativo. La vita caratterizza la pedagogia stessa e in qualche modo la supera, come direbbe Colin Ward, con l’esperienza prima che con l’astrazione, provocando gli chocs educativi che inducono curiosità, osservazione, ritenzione e solido apprendimento. Questi bambini sicuramente avranno “anticorpi” potenti ed efficaci per resistere da ragazzi e adolescenti anche a certe perniciose influenze presenti durante il loro percorso scolastico futuro.

Durante i nostri incontri di formazione siamo venuti a conoscenza di tante esperienze fuori dal coro, magari più timide ma da ritenere comunque decisamente affini quando non esplicitamente ispirate all’educazione diffusa. Far conoscere e diffondere quanto più possibile queste esperienze sparse per l’Italia e a volte nascoste al grande pubblico e farle dialogare tra loro è di vitale importanza per sensibilizzare le persone e i gruppi verso un’idea sicuramente più libera ed efficace di educazione, anche allo scopo di organizzare, dopo i tanti incontri in giro per l’Italia, nuovi eventi ricchi di testimonianze e racconti approfittando anche dell’imminente uscita di un testo sul Sistema dell’Educazione Diffusa.

Tutte le iniziative citate rappresentano infatti le eccezionali avanguardie di un progetto che varrebbe la pena mettere in rete ed estendere per quanto possibile in forma sperimentale nella cosiddetta scuola pubblica, utilizzando anche le strade offerte dalle norme poco e malamente utilizzate sull’autonomia didattica ed organizzativa delle scuole nella loro attuale configurazione sistemica. Un enorme grazie dunque ai territori educativi che si sono già coraggiosamente messi in gioco!

L’imago storica dell’educazione diffusa (2016)

20 Febbraio 2023

A cura di Giuseppe Campagnoli

con il preziosissimo contributo delle maestre “elfiche”: Cicci Della Calce, Simona Buzzi e Stefania Piras

JEAN NOUVEL: UN’ALTRA ARCHISTAR BUONA PER OGNI STAGIONE ?

Ripropongo questo scritto con più veemenza dopo aver visto il manufatto destinato al Music and conference Centre di Lucerna del 1999 che ripropone anche a prima vista la ratio mercantile,tecnocratica ed autocelebrativa del progetto.

Ricordando come la penso in fatto di architettura che ho appreso a non disgiungere dal concetto di educazione e di città, oggi vorrei ripercorrere criticamente una intervista all’archistar francese Jean Nouvel sulla rivista Domus di dicembre 2021. Il titolo “Emozione e ragione”. Il contenuto mi pare già scontato e preannuncia temi che spesso mi hanno trovato dissenziente ed hanno provocato il mio precoce allontanamento da una professione ormai divenuta mercantile seppure a volte ipocritamente “sociale”.

Se l’architettura, come sostiene Nouvel, dovesse essere resistenza contro il sistema e contro una globalizzazione che non rispetta il genius loci forse non progetterebbe ciò che progetta e soprattutto in modo così globalizzato ed ecletticamente bipartisan. Se l’architettura fosse partecipata direttamente o indirettamente dalla città non avrebbe un suo stile legato ai tempi come il gotico? Se la storia è fondamentale perché la si può liquidare accennando agli interventi su edifici storici che manterrebbero la loro dimensione? Nouvel prosegue la sua intervista sostenendo che la tecnologia è uno strumento e non un fine ma osservando le immagini delle sue opere pare proprio che non sia così. Perché poi evoca una non meglio precisata dimensione spirituale dell’uomo che sarebbe uno dei fini della tecnologia?

Se l’architettura fosse una risposta a domande concrete, sociali ed individuali come mai le città crescono in modo abnorme confermando in pieno ancora oggi ciò che scriveva Alexander Mitscherlich nel suo Feticcio Urbano? Di quale crescita della popolazione si parla e di quali scenari economici? Come mai le archistars non hanno affatto inciso su questa terribile tendenza con i loro ponti-gondola, le loro nuvole i loro sigari falloformi o i loro osannati Beiborghi intubati?

D’accordo che l’architettura sia un atto umano. Ma occorre che sia anche e soprattutto un atto collettivo e sociale, non certo dei mopnumenti a sè stessi o ai propri potenti committenti. Rilevo tanti luoghi comuni e dichiarazioni di principio quali “occorre produrre una visione che eviti di creare luoghi morti nelle città, zone frammentate che, da una parte, hanno solo uffici, dall’altra solo edifici residenziali” con cui tutte le archistars pontificano ogni volta che vengono interpellate smentendosi ad ogni edificio o parte di città che realizzano mentre si impegnano a Dubai,per Dolce&Gabbana, per le multinazionali finanziarie o gli improbabili musei poliedrici e cattedrali in deserti di degrado urbano. Non è singolare che alcune opere mi fanno pensare addirittura alle scenografie di alcuni edifici (più degradati ma con forti affinità stilistiche) della Scampia di Gomorra? I primi edifici in cui mi sono imbattuto sono a Lione e a Nantes e mi suscitavano già allora forti perplessità proprio come i ponti di Calatrava o i tubi parigini di Renzo Piano. Sed absit iniuria verbis!

Più che le parole possono le immagini. Ecco una bella galleria.

“Per Adolf Loos6 quando un uomo incontra in un bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione “poetica” della natura a opera dell’uomo quella è architettura. Il locus è un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati d’uso, di memoria, di racconti, di amore… Da qui la riflessione sugli architetti che non fanno tesoro dell’insegnamento della creatività e dell’amore per i luoghi importanti della nostra vita come quelli dedicati all’educazione privilegiando la funzione tecnica e le evoluzioni tecnologiche. Altra è la connotazione umanistica dell’architettura che si contrappone a quella del funzionalismo ingenuo che elude ogni valenza di natura formale e non soddisfa nemmeno i bisogni di funzionamento, se è vero che l’esigenza di dare significato ai luoghi dell’apprendere è interamente assorbita dalle banali ma ineluttabili questioni di sicurezza. Il luogo infatti sarebbe di per sé sicuro e protettivo se lo si pensasse avendo chiara l’idea di scuola e l’idea di architettura insieme legate dalla voglia di costruire spazi accoglienti, inclusivi e al tempo stesso stimolanti, mai completamente scoperti e spiegati per essere ogni giorno nuovi a chi li abita e li usa.” Da “L’educazione diffusa e la città educante” N° 60/2022 Le Télémaque.

“L’architettura del Medioevo à raggiunto la sua grandezza non soltanto, perchè fu il fiorire spontaneo di un mestiere, come si è detto recentemente; non soltanto perchè ogni costruzione, ogni decorazione architettonica era l’opera d’uomini che conoscevano con l’esperienza delle loro proprie mani gli effetti artistici che si possono ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, od anche da semplici travi e calcina; non soltanto perchè ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura medioevale fu grande, perchè nata da una grande idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezione di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva un’audacia che non può acquistarsi che con le lotte e le vittorie; esprimeva il vigore, perchè il vigore impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, una casa comunale, un quartiere, simboleggiavano la grandezza d’un organismo di cui ciascun muratore e ciascun tagliatore di pietra era un costruttore; e un monumento del non appariva mai uno sforzo saltuario, dove migliaia di schiavi avrebbero eseguita la parte assegnata ad essi dalla immaginazione d’un solo uomo – tutta la città vi aveva contribuito”P. Kropotkin “Il mutuo appoggio”.

Giuseppe Campagnoli 26 Dicembre 2021. Aggiornato il 4 Gennaio 2023.

La giostra

Tornano e ritornano a giro come in una brutta giostra certi nomi che rientrano nel recinto dei pontificatori di successo (vedi Victor Hugo) su una scuola che a loro avviso sarebbe solo da cambiare magari con trovate originali e rimandi pretestuosi e mistificatori a veri rivoluzionari pedagogici del passato. Un’idea di scuola che andrebbe giusto modernizzata e tuttosommato da mantenere così com’è con tante belle trovate di senzazaini, bastacompiti, nonsolobanchi, bimbineiboschi, piccole, belle, nuove, libere scuole, tutt’altre scuole, reti e irretimenti vari. Comunque una scuola (sempre scuola!) ma non da oltrepassare e abolire. Una sorta di liberalesimo educativo con qualche timida progressione verso cambiamenti impercettibili e sempre con juicio spesso promossa da  nuovi bobos fautori di un’ idea di educazione in un’accezione  decisamente conservatrice spesso anche a sinistra che a volte fa perfino il verso alla destra che vorrebbe chiudere di più e meglio, controllare fino alla libertà di conoscere fino in fondo cosa sia la nostra natura. Proliferano  di contro pure protagonismi eclettici, estemporanei e spesso anche settari ad ampio spettro di singoli e di gruppi che ottengono affollate tifoserie mediatiche sia negli ambiti pedagogici pubblici o para pubblici che in quelli privati   delle congreghe mistico-eco-educative familiari, parrocchiali, fricchettone o tribali che siano. Io mi ritengo decisamente  fuori da certi recinti. Con una battuta: il mio essere ibrido e forse beneficamente schizofrenico tra architettura, educazione, arte e mestiere di insegnante e direttore di scuole d’arte mi tiene lontano da certi impulsi di protagonismo specialistico.

Tenendo comunque fuori dai ragionamenti l’idea di scuola della destra liberista o peggio sovranista, reclusoria, classista e meritocratica, oggi cosa succede?

-Se critichi la scuola pubblica così com‘è, sei ostracizzato  dall‘establishment burocratico, politico e pedagogico.

-Se critichi l‘idea di scuola dell‘opposizione di sinistra tiepida e neoliberal-liberista o anche  massimalista e vetero gramsciana, sei emarginato e compatito come visionario.

-Se critichi alcune (troppe) esperienze e idee privatamente e parentalmente  finto libertarie e real liberiste e fricchettone  delle cento educazioni del bosco, delle radure, degli gnomi e degli stregoni, sei attaccato con altrettanta e forse più intensa veemenza.

Senza possibilità di dialogo in ogni caso. Provare per credere.

Personalmente vorrei distinguere le possibili iniziative ispirate chiaramente  alla nostra idea di società educante da tutte queste congreghe che qualche volta provano, anche solo linguisticamente a saltare sul carro dell’educazione diffusa. Molti che trattano di scuola indicandola come “fuori o diffusa” non hanno spesso fatto, neppure per sbaglio, alcun riferimento al Manifesto della educazione diffusa e alle sue successive indicazioni. Oggi tutti sono pronti a fare di tutto in questa bailamme bulimica sulla scuola. Mi piacerebbe solo  che  si provasse sinceramente e seriamente in molti contesti a sperimentare l’educazione diffusa in tutte le sue prerogative. Per vedere l’effetto che fa. L’ appello che ho di recente “diffuso” per invitare a sperimentare la nostra proposta di educazione e di città riprende una mia riflessione totalmente controcorrente su educazione e territorio tratta da “L’educazione è fuori” edito dall’Università di Macerata che credo sarà l’ultima mia uscita pubblica di questo tipo, almeno finché non passerà la buriana.

Non solo boschi, prati e radure, non solo all’aperto. Tutta la città e il territorio sono luoghi di per sé educanti. Pochi adattamenti garantirebbero libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in luoghi significativi, educanti aperti o protetti ma ampi. L’edificio tradizionale solo in questa fase, assolutamente transitoria, assumerebbe il ruolo di “portale” verso tante esperienze significative altrove. Non vi è un momento storico migliore di questo per sperimentare e mettere alla prova opportunità che si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente praticata nelle sue chances innovative. Si può cominciare a interpolare pedagogia e architettura per integrare il dove con il cosa, il come e il quando: tempi, luoghi ed esperienze. L’architettura dell’educazione è anche questo. Si prefigura l’eliminazione graduale dell’edilizia scolastica verso la città educante fatta di una rete di luoghi per l’esperienza e l’apprendimento, pubblici o privati, aperti o chiusi ma trasparenti e ampi. Certamente non per fare le stesse cose che si facevano in classe o nei cosiddetti viaggi di istruzione, visite guidate e uscite didattiche. La destrutturazione delle discipline sconnesse e separate a favore di aree esperienziali e campi di educazione incidentale dove il bambino/la bambina, il/la giovane, l’adulto/a che crescono e apprendono insieme sono soggetti protagonisti che si educano reciprocamente prefigura tanti luoghi, diversi e interconnessi. Indispensabile per la città educante è lo smontaggio dell’orario scolastico a favore di tempi flessibili e orari di prossimità, con l’anno educativo che potrebbe durare dodici mesi con pause di tempo libero diluite e diffuse. Le cose da apprendere, l’educazione e la crescita sicuramente non sono indifferenti ai luoghi in cui avvengono e che influiscono enormemente sulla crescita, la creatività, la libertà. La marcia di avvicinamento a una nuova idea di educazione potrebbe integrare mirabilmente, in tante sperimentazioni brevi, che facessero tesoro delle eventuali buone pratiche nel territorio, l’insieme dei progetti-scuola, dei tempi-scuola e dei luoghi-scuola sfruttando tutte le potenzialità dei territori. Se si trasformassero, riducendoli anche di numero, gli edifici scolastici per un uso misto e flessibile (museo e scuola, biblioteca e scuola, terziario e scuola…) e si usassero gli spazi di cultura e non solo, pubblici e privati della città e di tutto il territorio sarebbe un gran bel passo verso l’educazione diffusa. Si domandava l’architetto della città partecipata Giancarlo De Carlo già nel 1969:

– È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?

– Le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo?

– Esiste una diretta e reciproca relazione tra le attività educative e la qualità degli edifici (o dei luoghi) dove si svolgono?”

Racconterò sempre l’idea di educazione e città che condivido in pieno con l’amico Paolo Mottana quando me lo chiederanno senza intravvedere sottotraccia secondi o terzi fini, mentre parteciperò volentieri a tutte le iniziative che volessero metterla in pratica così come l’abbiamo declinata.

Non mi resta per ora che viaggiare  con i saggi e rivoluzionari che da tempo sognavano una società interamente educante anche in una accezione publica di città e territori. E ora mi metto realmente in viaggio per un po’.Una sana vacatio da tutto.

Quando tornerò cambierò gli attori, qualche scena e il finale della mia Commedia giocosa. Troppe cose sono cambiate nel frattempo.

Giuseppe Campagnoli 24 Luglio 2021      

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