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Venezia, la luna e tu

Non andiamo più a Venezia!
A causa del sovraffollamento che subisce durante tutto l’anno, la città dei Dogi potrebbe entrare a far parte della lista UNESCO dei patrimoni in via di estinzione. Non ci sono più soluzioni per salvarla: devi smettere di visitarlo.

DI RODOLPHE CHRISTIN SOCIOLOGO su Libèration.

Revisione della traduzione: Giuseppe Campagnoli


Venezia va male, e non è una novità. La città, nel 2021, era già sfuggita di poco alla classificazione dell’Unesco come “patrimonio mondiale in pericolo”. Di fronte a questo possibile disconoscimento, le autorità avevano poi adottato diverse misure che andavano dal controllo del numero dei visitatori alla tutela e ristrutturazione urbana, passando anche per il divieto di avvicinamento per le navi da crociera dalla stazza troppo elevata: troppa massa e potenza e troppe emissioni, che minacciano la salute e le architetture. Le onde destabilizzano gli argini, indeboliscono gli edifici e tormentano un intero ecosistema: città, acque, isole. Alle grandi onde abbiamo quindi preferito quelle più piccole: quelle delle imbarcazioni più modeste e gli innumerevoli motoscafi che assicurano il trasporto dei passeggeri tra le navi e la città. La sfida è solo una: non perdere un solo visitatore.


Le gondole non passano più sotto i ponti.


Ovviamente, non era abbastanza. La minaccia ritorna perché il turismo post-pandemia è tornato con una vendetta. E Venezia ancora non migliora, potrebbe assomigliare sempre meno alla Venezia eterna, città d’arte e di storia dove si esprime parte del genio dell’umanità. Inoltre, l’acqua sta salendo. Venezia ci arriva fino alle ginocchia e le gondole non passano più sotto i ponti.
Venezia classificata come capolavoro in pericolo. Per non aver fatto abbastanza per preservare la città dalle trasformazioni sia locali che universali, legate al riscaldamento globale? Per aver perseguito solo il profitto illimitato? In ogni caso, se non si interviene, la città potrebbe essere simbolicamente punita con la rimozione a settembre dalla World Heritage List dell’UNESCO, nella quale figura dal 1987. La motivazione: non aver soddisfatto i criteri che ne fanno un “sito culturale di valore universale”.


E se invece proprio questo apparente disonore di “demarketing” forzato contribuisse al salvataggio di Venezia? Ricordiamo che il successo del turismo si basa su un sistema che associa tre grandi categorie di attori: gli attori privati che promuovono e vendono prodotti turistici, gli attori pubblici che sono i registi dell’attrattività territoriale e i turisti che obbediscono alle influenze delle due categorie precedenti .
In questo trio, la classificazione UNESCO accontenta tutti: giustifica il viaggio circondando di prestigio la città, onora gli amministratori locali e arricchisce gli uomini d’affari. Da parte loro, le ONG e le associazioni sono più o meno soddisfatte delle misure di protezione che l’etichetta UNESCO prevede e imporrebbe. Tra questi attori si raggiunge facilmente un consenso poiché tutto sarebbe fatto in nome del Bene. I motivi per rallegrarsi sembrano, infatti, numerosi se si spera in qualche guadagno economico e simbolico.
Ma di fatto l’Unesco, organizzazione favolosa, censendo e classificando un sito alimenta il marketing turistico dei luoghi su cui punta come una strega Carabosse travestita da principessa. Davvero i suoi esperti non sanno che tutto contribuisce allo sviluppo dell’industria del turismo, accompagnato da tutti i suoi derivati, il cui elenco sarebbe lungo e tedioso, ma dimostrerebbe quanto il turismo metta in atto una serie di settori economici (speculativi e mercantili)? Come stupirsi, se nel 2023, anche chi vive di turismo a Venezia si lamenti?


Si sta organizzando il declino

Questo è vero per tutti i territori iperturistici. In alcuni luoghi ci viene detto di lottare contro l’eccesso promuovendo un turismo quattro stagioni, come se l’alta stagione dell’inferno turistico da sola non bastasse! Venezia è di fatto, nel tempo, diventata un santuario abbandonato dai suoi abitanti storici. È una città già morta. La vita sociale relegata alla sua periferia, le classi lavoratrici senza più i mezzi per mettervi piede e viverci.
Piuttosto che gestire i fastidi senza eliminarli, bisognerebbe organizzare democraticamente il declino del turismo, a Venezia e altrove, sia per liberarne i luoghi dalla sua perniciosa morsa che per affrontarne e scongiurare le ripercussioni sul cambiamento climatico. Occorre prendere a modello, per una volta, il fatto che l’ipermobilità non è un segno di successo sociale.
Dovremmo porci delle semplici domande mentre visitiamo quei luoghi: di cosa sono sintomo tante frenesie ? Cosa stiamo cercando altrove che non potrebbe essere trovato qui? Come migliorare la vita di questi luoghi?

Per salvare Venezia bisogna dimenticarla. Smettiamo di metterla in vendita . Quando il turismo diminuirà drasticamente (o sarà interamente sostituito dal viaggio raro e consapevole) la vita tornerà a Venezia.

Aggiungerei che tutto ciò varrebbe per tante altre città, Parigi compresa.

Mi viene in mente un bel progetto del 2020 che, come accade spesso in Italia, è naufragato presto nell’acqua alta, per i soliti beceri dissidi di natura bassamente ideologica. L’idea era assai buona e poteva essere un modesto ma potente seme ben piantato ai fini del salvataggio della città lagunare. Tanti gli attori coinvolti: cittadini, associazioni, municipalità, università, scuole. Eccone un estratto:

“La situazione di degrado e aumento di povertà, in una città come Venezia che ha fondato la sua economia su una monocoltura turistica si è acuita in questo anno di pandemia che è stato preceduto dalla seconda “Acqua Granda” della storia (novembre 2019). Questo progetto nasce dallesigenza di valorizzare e promuovere nuove modalità di convivenza eterogenea per una comunità resiliente attraverso pratiche di: economia del dono, comunicazione empatica ed educazione diffusa.

Lex Convento può diventare un punto di riferimento per l’intero quartiere che, per le sue caratteristiche popolari, ha diverse zone senza servizi e luoghi di ritrovo (la Giudecca è un“isola nellisola” abitata storicamente dalla popolazione della città con meno risorse economiche).

Obiettivo di questo progetto è proprio quello di mettere in atto una serie di pratiche virtuose per costruire un processo democratico partecipato che valorizzi lutilizzo degli spazi comuni in unintegrazione sociale di tutti i cittadini. Cercando di coinvolgere tutte le parti, approntando dei percorsi di formazione ad hoc vorremmo mettere laccento su pratiche metodologiche inclusive, che costruiranno le basi per sviluppare un forte senso di appartenenza alla comunità, una comunità che diventa “educante”. Attraverso i principi dellEducazione Diffusa si vuole sviluppare un innovativo metodo di apprendimento che metta in relazione la città (dal punto di vista culturale ed economico) con i più giovani, città che diventa luogo di scoperta, città che si apre alla scuola, che si trasforma in scuola “di vita” a tutti gli effetti, città che da subito diventa accessibile e trasformabile dalle nuove generazioni. Il Convento potrebbe diventare un esempio virtuoso ed un modello riproducibile, potenzialmente ricchissimo dal punto di vista sociale, artistico e culturale che ha solo bisogno di essere valorizzato adeguatamente.”

Una parte di città educante poteva nascere alla Giudecca e magari,nel tempo, contaminare virtuosamente altri contesti urbani. Peccato. Gli individualismi ed i corporativismi sono il male diffuso di questi tempi.

La redazione

I disegni sono dell’arch. Giuseppe Campagnoli. I fotomontaggi e rendering dell’arch. Stanislao Biondo.

La mappa colorata è tratta da un disegno di Antoine Corbineau.

Immagini di quadri di Claude Monet

L’architettura della città educante.Una autobiografia poetica.

Il superamento dell’edilizia e dell’architettura scolastica.

Si potrebbe finalmente fare a meno di certi monumenti monolitici del potere (scuole, ospedali, carceri…)a favore di tanti luoghi di cura (we care) e di collettività del territorio

Ricordo le tappe importanti e un po’ autobiografiche del percorso verso la negazione dell’efficacia dell’edilizia scolastica nell’educazione diffusa, a favore di una intera città educante. Da Aldo Rossi a Giancarlo De Carlo e Colin Ward, ho ritrovato le idee di una architettura “medievale” della città  tra apparenti contrasti e sublimi affinità.

Prendo spunto da passi della  relazione della mia tesi di laurea (1973) e del primo dei rari progetti di edilizia scolastica (1977)  realizzati nella ondivaga carriera di architetto “condotto” , passando attraverso brani dei saggi fondamentali, per raccontare la marcia di avvicinamento all’architettura della città educante che troverà presto un esito in una specie di breviario utile a suggerire modi per realizzare l’educazione diffusa in una città concepita come educante senza appositi reclusori scolastici. Dell’edilizia scolastica e dei suoi anfitrioni pedagoghi e progettisti ho già detto abbastanza anche nelle loro versioni più o meno avanguardiste. La mia storia è la prova di un cammino di idee sulla città e sulla sua capacità di educare chi la vive senza bisogno di costruire manufatti frutto anche di funzionalismi ingenui o in mala fede.

Memorie e appunti in evoluzione. Dall’edificio reclusorio verso la città educante.

1973. Intervento sulla città di Chieti.

“Una parte di città “universitaria”: “L’architettura è una elaborazione collettiva nella storia ed il luogo di tale elaborazione altro non è se non la città capace di formarsi e trasformarsi rileggendo continuamente sé stessa”

1977. Progetto di Scuola Media a Villa Teresa di Recanati:

” Il problema pedagogico-didattico rientra nella concezione della scuola che si proietta verso l’esterno ad evitare anche che il tempo pieno finisca per aumentare la segregazione già in atto nella scuola rispetto alla collettività. Al processo educativo deve partecipare tutta la società nelle sue componenti ad estendere ed integrare l’attività propriamente didattica.. E’ il caso a questo punto di fare riferimento alle esperienze educative di Paulo Freire ed Ivan Illich che già hanno ribaltato il concetto di educazione e parlano di descolarizzazione anche ne l senso di rendere continuo l’apprendimento nello spazio sociale ed attraverso esso”

1997. Progetto di restauro e ridisegno dell’Istituto d’Arte di Pesaro:

” Le scelte di progetto nascono da queste considerazioni sulla storia del quartiere, degli edifici, della scuola per generare una occasione di recupero dell’area in sintonia con altri interventi nella residenza, nelle botteghe, nell’area pubblica a ridosso del “Mengaroni”, il piazzale, le corti interne…”  “…riconnettere le parti alla parte di città generando occasioni di vitalità tra contenuti residenziali, culturali e di servizio riconsiderando vuoti e pieni come se fossero tutti pieni”

2009. Concorso internazionale Open Architecture Network. An artistic Classroom:

L’aula vagante. “Uno spazio aperto dentro e fuori non indifferente alla città in cui si muove ed alla vecchia scuola che gli fa da base. Ci si muove verso un futuro concetto di “scuola diffusa” (spread school) dalla città, alla campagna, al mare, al cielo…

Il viaggio verso un intero territorio educante.

2007. Franco Angeli Milano. “L’architettura della scuola”:

“ La città dice come e dove fare la scuola…il rapporto con la città, per l’edificio scolastico è anche una forma di estensione della sua operatività perché occorre considerare che la funzione dell’insegnamento ed il diritto all’apprendere si esplicano anche in altri luoghi che non debbono essere considerati occasionali. Essi sono parte integrante del momento pedagogico ed educativo superando così anche i luoghi comuni sociologici della scuola aperta con una idea più avanzata di total scuola o meglio global scuola dove l’edificio è solo il luogo di partenza e di ritorno, sinesi di tanti momenti educativi svolti in molti luoghi significativi della città e del territorio”.  “La staticità della conoscenza costretta in un banco, in un corridoio, nelle aule o nelle sale di un museo non apre le menti e fornisce idee distorte della realtà che invece è sempre in movimento.”

2014. ReseArt Pesaro “Questione di stile:”

“Le scuole, come tutti i civici e sociali monumenti, a parte le banali considerazioni logistiche e di comfort non debbono essere periferizzate ma debbono essere integrate con le aree residenziali e con quelle culturali e dei servizi principali delle città. Per questo abbiamo parlato di “scuola diffusa” per definire la non obbligata collocazione dei luoghi di una scuola in un unico corpus architettonico e in un unico sito della città. “Alla fine della storia non sarà il caso di tornare alla scuola “diffusa” nella città e nel territorio come per i musei? Un sistema già felicemente in uso nell’antichità dove la “schola” era una teoria di luoghi significativi e legati alle diverse attività di apprendimento: la scienza, le lettere, l’arte… “

2015. ReseArt Pesaro. “Oltre le aule”:

“La città e tutti i suoi luoghi si svegliano all’alba. Ogni spazio è pronto a far apprendere e in ogni angolo ci sono maestri e allievi in simultanea (la scuola e la bottega) e in differita (la storia e la cultura). Attraverso la “porta” dell’edificio comune che non ha aule nè luoghi chiusi per studiare ma solo un auditorium, una biblioteca, gli uffici e i servizi, arrivano e partono gruppi di bimbi da diverse direzioni accompagnati e non. Sanno dove andare. Il piccolo bus elettrico lascia un gruppetto al museo dove trascorrerà la giornata a visitare, a parlare di storia ad imparare facendo nei laboratori annessi. Un altro gruppetto, a piedi, con i suoi maestri raggiunge la mediateca per effettuare ricerche di matematica, storia, scienze sui libri, sulle riviste, in rete. Lo stesso tragitto è già scuola e se ne parla con i maestri. Ogni ambito li accoglie con uno spazio collettivo dove c’è l’occorrente per sedere, condividere, leggere, scrivere, lavorare. La mobilità è la chiave di questo modo nuovo di concepire la scuola e i suoi luoghi. Ci si muove a piedi, in bicicletta, con bus elettrici, con la metro. Ci si muove verso le aule reali sparse[…]”

2017. Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli. Asterios Editore. Trieste. “La città educante. Manifesto della educazione diffusa”:

“Perché non raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura? Come quando, un tempo, forse più di oggi, le vere aule erano il campo, il ruscello, il cortile, la strada, la piazzetta e i nostri mèntori erano tanti altri maestri oltre a quello ufficiale, formale, non scelto. Realisticamente l’edificio scolastico attuale potrebbe divenire la porta di accesso a tanti e diversi luoghi dove apprendere per ogni cittadino in fase di educazione formale o informale che sia. Ogni città potrebbe avere un “monumento” che conduce a diversi spazi culturali del territorio urbano, rurale, montano, marino, reale o virtuale, in un sistema complesso dove si applichi il motto mai superato “non scholae sed vitae discimus” . Sgombriamo il campo dall’equivoco secondo cui esistono solo spazi specializzati e funzionalmente dedicati all’apprendimento e alla cultura anche istituzionali. Ecco allora la “scuola diffusa”, intendendo per “scuola” il tempo dedicato alla scoperta, alla ricerca, al gioco, al tempo libero, alla crescita.”

2020. Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli.Terra Nuova Edizioni Firenze. “Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso”

“•Trasformare in modo leggero e senza sprechi alcuni edifici scolastici esistenti adatti allo scopo in strutture di base polivalenti e flessibili (i portali) e collegarli con luoghi e spazi della città in qualche modo predisposti, che possano diventare occasioni di educazione diffusa

•Disegnare in maniera partecipata e realizzare un reticolo di portali e luoghi della città, trasformando manufatti, oggetti, edifici, botteghe, rendendoli pronti a ospitare le attività e i momenti di educazione diffusa. Il sistema si può articolare nelle varie parti di città adottando come polo una base ottenuta dal recupero o trasformazione di una biblioteca, un centro culturale, un museo, un teatro polivalente e perfino, come vedremo, una vecchia scuola. Questa trasformazione può essere anche fatta direttamente, partecipando, spostando, costruendo, aprendo, tutti insieme appassionatamente.

•Scrivere e realizzare ex novo un articolato ma non rigido sistema, da replicare in varie parti di città, composto da un portale e una rete di luoghi e di aule vaganti, a esso collegati e disegnati seguendo le indicazioni dei cittadini, dei mentori, della gente di scuola e di quartiere. Anche con un reticolo di fili guidanti diffusi, come vedremo.”

Come si vede dalle frasi significative scelte è ben chiaro il cammino e  il punto di arrivo che consiste nel rifiuto di concepire lo spazio per l’educazione come un manufatto collettivo dedicato, chiuso, delimitato, controllato: un edificio tipologicamente definito anche oggi alla stregua di un carcere, un ospedale, un collegio, una caserma…

L’ autonomia dell’architettura di Aldo Rossi e di conseguenza la sua città analoga, al di là dei fraintendimenti di molti suoi contemporanei e dei critici postumi, era a mio avviso un rimando alla costruzione collettiva della città, delle sue parti e dei suoi manufatti lontana dal funzionalismo e dal tecnicismo, con il linguaggio comune e quasi innato degli archetipi che la storia trasmette nel tempo. La storia stessa della città innesca una partecipazione non individuale ma corale e collettiva, di memoria e non di banale intervento diretto, con un mediatore colto, una mentore esperto che è la figura dell’architetto decisamente diversa da quella che, in fondo, con modi diversi aborriscono anche De Carlo e Ward. Non ho trovato contraddizioni leggendo Rossi, De Carlo e Ward. La mia mente e la mia esperienza hanno individuato le forti connotazioni comuni seppure espresse in termini e modalità comunicative a volte estremamente diverse. Le architetture di Rossi (che sono da considerare dei manifesti e non degli oggetti compiuti, sono da interpretare come delle poesie tese a suggerire la costruzione di una architettura leggendo la città e le sue esplicite indicazioni che si concretizzano in una lingua di segni, di forme e di situazioni moderne ma dialogiche con un passato virtuoso) e quelle di De Carlo (che sono prodotti di una partecipazione virtuosa ma un po’ demagogica e che lascia comunque più spazio al progettista intellettuale di quanto si creda sottovalutando la partecipazione “collettiva” attraverso la storia e la memoria che non è intervento di singoli o di gruppi ma dell’intera  città e dei suoi luoghi) non sono poi così distanti e fanno parte di vie parallele verso un traguardo molto affine. Entrambi hanno progettato edifici scolastici e culturali. I tempi non erano proprio maturi. Credo che avessero in mente già una intera città educante. 

Dal catalogo dell’esperienza ispirata anche all’ educazione diffusa Bimbisvegli di Serravalle di Asti curato dall’Università di Macerata leggo queste mie frasi:

“Non solo boschi, prati e radure, non solo all’aperto. Tutta la città e il territorio sono luoghi di per sé educanti. Pochi adattamenti garantirebbero libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in luoghi significativi, educanti aperti o protetti ma ampi. L’edificio tradizionale solo in questa fase, assolutamente transitoria, assumerebbe il ruolo di “portale” verso tante esperienze significative altrove. Non vi è un momento storico migliore di questo per sperimentare e mettere alla prova opportunità che si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente praticata nelle sue chances innovative. Si può cominciare a interpolare pedagogia e architettura per integrare il dove con il cosa, il come e il quando: tempi, luoghi ed esperienze. L’architettura dell’educazione è anche questo. Si prefigura l’eliminazione graduale dell’edilizia scolastica verso la città educante fatta di una rete di luoghi per l’esperienza e l’apprendimento, pubblici o privati, aperti o chiusi ma trasparenti e ampi. Certamente non per fare le stesse cose che si facevano in classe o nei cosiddetti viaggi di istruzione, visite guidate e uscite didattiche. La destrutturazione delle discipline sconnesse e separate a favore di aree esperienziali e campi di educazione incidentale dove il bambino/la bambina, il/la giovane, l’adulto/a che crescono e apprendono insieme sono soggetti protagonisti che si educano reciprocamente prefigura tanti luoghi, diversi e interconnessi.”

“Si domandava l’architetto della città partecipata Giancarlo De Carlo già nel 1969: 

– È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?

– Le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo?

– Esiste una diretta e reciproca relazione tra le attività educative e la qualità degli edifici (o dei luoghi) dove si svolgono?”

Qualche risposta la potete trovare anche ne ” La comoedia de la civita educante”:

Una specie di pezzo teatrale da mettere in scena con personaggi, scenari e sceneggiature, in campo attraverso un chiaro canovaccio in diverse situazioni, tempi ed ambienti reali.Si tratterebbe di rappresentare i l’insieme delle aree di esperienza, le loro possibili attività, con i protagonisti e le reti dei siti nelle città e nei territori oltre che con le forme dei portali e delle basi da cui prendere le mosse.Con delle bande di fanciulli d’ogni età e pur di quella che un mio vecchio “provveditore” non senza sarcasmo e delusione ma con una punta di speme di mutar, chiamava tre anni di coatta ricreazione.

Ma qualcosa si muove, timidamente anche nel campo dell’architettura per l’educazione che è poi, in sostanza, disegno urbano e del territorio. Con le immaginabili difficoltà date dal momento storico sostanzialmente teso ad una specie di restaurazione in ogni campo, approfittando dell’emergenza mondiale, sulla rivista Ardeth del Politecnico di Torino comparirà presto un bell’articolo sulla città come luogo di cura che tratta anche di educazione in modo diverso dal consueto; un gruppo di visionari volontari e appassionati  stanno coinvolgendo a Venezia, tra la Giudecca e  università di design, di architettura, di educazione, amministrazioni, associazioni e scuole pubbliche in una bella prova di educazione diffusa che parte proprio dai luoghi e dalle loro trasformazioni.Pochi ma buoni si direbbe.  Dulcis in fundo un bel dossier sull’educazione diffusa in cui si fa la storia dell’idea anche in chiave urbana e architettonica è stato accolto, approvato e programmato per la pubblicazione sul N° 60 della rivista di filosofia dell’educazione Le Télémaque edita da UniCaen. Il volume è una  monografia in tema di pratiche artistiche  e di arte dell’educazione. L’ arte di educare anche con l’arte e non solo.

Giuseppe Campagnoli  24 Febbraio 2021. Aggiornato al 3 Luglio 2021

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