Ripropongo questo scritto con più veemenza dopo aver visto il manufatto destinato al Music and conference Centre di Lucerna del 1999 che ripropone anche a prima vista la ratio mercantile,tecnocratica ed autocelebrativa del progetto.
Ricordando come la penso in fatto di architettura che ho appreso a non disgiungere dal concetto di educazione e di città, oggi vorrei ripercorrere criticamente una intervista all’archistar francese Jean Nouvel sulla rivista Domus di dicembre 2021. Il titolo “Emozione e ragione”. Il contenuto mi pare già scontato e preannuncia temi che spesso mi hanno trovato dissenziente ed hanno provocato il mio precoce allontanamento da una professione ormai divenuta mercantile seppure a volte ipocritamente “sociale”.
Se l’architettura, come sostiene Nouvel, dovesse essere resistenza contro il sistema e contro una globalizzazione che non rispetta il genius loci forse non progetterebbe ciò che progetta e soprattutto in modo così globalizzato ed ecletticamente bipartisan. Se l’architettura fosse partecipata direttamente o indirettamente dalla città non avrebbe un suo stile legato ai tempi come il gotico? Se la storia è fondamentale perché la si può liquidare accennando agli interventi su edifici storici che manterrebbero la loro dimensione? Nouvel prosegue la sua intervista sostenendo che la tecnologia è uno strumento e non un fine ma osservando le immagini delle sue opere pare proprio che non sia così. Perché poi evoca una non meglio precisata dimensione spirituale dell’uomo che sarebbe uno dei fini della tecnologia?
Se l’architettura fosse una risposta a domande concrete, sociali ed individuali come mai le città crescono in modo abnorme confermando in pieno ancora oggi ciò che scriveva Alexander Mitscherlich nel suo Feticcio Urbano? Di quale crescita della popolazione si parla e di quali scenari economici? Come mai le archistars non hanno affatto inciso su questa terribile tendenza con i loro ponti-gondola, le loro nuvole i loro sigari falloformi o i loro osannati Beiborghi intubati?
D’accordo che l’architettura sia un atto umano. Ma occorre che sia anche e soprattutto un atto collettivo e sociale, non certo dei mopnumenti a sè stessi o ai propri potenti committenti. Rilevo tanti luoghi comuni e dichiarazioni di principio quali “occorre produrre una visione che eviti di creare luoghi morti nelle città, zone frammentate che, da una parte, hanno solo uffici, dall’altra solo edifici residenziali” con cui tutte le archistars pontificano ogni volta che vengono interpellate smentendosi ad ogni edificio o parte di città che realizzano mentre si impegnano a Dubai,per Dolce&Gabbana, per le multinazionali finanziarie o gli improbabili musei poliedrici e cattedrali in deserti di degrado urbano. Non è singolare che alcune opere mi fanno pensare addirittura alle scenografie di alcuni edifici (più degradati ma con forti affinità stilistiche) della Scampia di Gomorra? I primi edifici in cui mi sono imbattuto sono a Lione e a Nantes e mi suscitavano già allora forti perplessità proprio come i ponti di Calatrava o i tubi parigini di Renzo Piano. Sed absit iniuria verbis!
Più che le parole possono le immagini. Ecco una bella galleria.
Archistars
“Per Adolf Loos6 quando un uomo incontra in un bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione “poetica” della natura a opera dell’uomo quella è architettura. Il locus è un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati d’uso, di memoria, di racconti, di amore… Da qui la riflessione sugli architetti che non fanno tesoro dell’insegnamento della creatività e dell’amore per i luoghi importanti della nostra vita come quelli dedicati all’educazione privilegiando la funzione tecnica e le evoluzioni tecnologiche. Altra è la connotazione umanistica dell’architettura che si contrappone a quella del funzionalismo ingenuo che elude ogni valenza di natura formale e non soddisfa nemmeno i bisogni di funzionamento, se è vero che l’esigenza di dare significato ai luoghi dell’apprendere è interamente assorbita dalle banali ma ineluttabili questioni di sicurezza. Il luogo infatti sarebbe di per sé sicuro e protettivo se lo si pensasse avendo chiara l’idea di scuola e l’idea di architettura insieme legate dalla voglia di costruire spazi accoglienti, inclusivi e al tempo stesso stimolanti, mai completamente scoperti e spiegati per essere ogni giorno nuovi a chi li abita e li usa.” Da “L’educazione diffusa e la città educante” N° 60/2022 Le Télémaque.
“L’architettura del Medioevo à raggiunto la sua grandezza non soltanto, perchè fu il fiorire spontaneo di un mestiere, come si è detto recentemente; non soltanto perchè ogni costruzione, ogni decorazione architettonica era l’opera d’uomini che conoscevano con l’esperienza delle loro proprie mani gli effetti artistici che si possono ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, od anche da semplici travi e calcina; non soltanto perchè ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura medioevale fu grande, perchè nata da una grande idea. Come l’arte greca, essa scaturì da una concezione di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva un’audacia che non può acquistarsi che con le lotte e le vittorie; esprimeva il vigore, perchè il vigore impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, una casa comunale, un quartiere, simboleggiavano la grandezza d’un organismo di cui ciascun muratore e ciascun tagliatore di pietra era un costruttore; e un monumento del non appariva mai uno sforzo saltuario, dove migliaia di schiavi avrebbero eseguita la parte assegnata ad essi dalla immaginazione d’un solo uomo – tutta la città vi aveva contribuito”P. Kropotkin “Il mutuo appoggio”.
Giuseppe Campagnoli 26 Dicembre 2021. Aggiornato il 4 Gennaio 2023.
Mi viene spontaneo di ripetere come un mantra le frasi inascoltate di Giovanni Papini, Giancarlo Decarlo e Colin Ward:
1914–Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali.Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai ven ti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello?
1969– È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?– Le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo?
2018-La libertà della strada:“la scuola decentrata ordinariamente in una pluralità di luoghi, spazi e tempi adatti all’apprendimento più incidentale”.
La città come risorsa:“rivisitandola dal punto di vista del disegno urbano,della storia, dell’arte, dell’edilizia, in funzione socializzante”.
Adattare l’ambiente imposto:“superare la convinzione degli adulti a controllare, dirigere e limitare il libero fluire della vita” organizzando spazi ad hoc e a senso unico senza alcun grado di libertà.
Il gioco come protesta ed esplorazione:“ Il fatto che i bambini scelgano ostinatamente come spazi per il gioco proprio i luoghi che ci appaiono più provocatori…” è un segno che il gioco è spesso protesta ed esplorazione insieme.
Luoghi di apprendimento:”Il bisogno naturale ad imparare va scemando man mano che viene organizzato e rinchiuso in luoghi strutturati e delimitati”.
Tutto questo perché, con sgomento mi ritrovo nel 2022 a leggere le ennesime linee guida sull’edilizia scolastica (sic!) che esordiscono con una frase emblematica e sintomatica: “Progettare nuove scuole è un’azione che guarda al futuro”. Niente di più conservatore e di retroguardia! Ma poi quando leggo i nomi del gruppo di lavoro ministeriale comprendo molte cose. C’è il mercato delle archistars e degli epigoni, c’è la nuova/vecchia pedagogia e c’è anche l’alito della burocrazia ministeriale mai defunta. Comprendo che non sono affatto servite le domande che si ponevano anni fa Aldo Rossi, Giancarlo de Carlo, Colin Ward sull’architettura delle città e sul pericolo di perseverare sulla strada del “funzionalismo ingenuo” (ma non tanto). Vedo che non si capisce ancora come occorra superare l’idea dei monumenti all’istruzione, alla cura, alla riabilitazione carceraria, alle detenzioni varie più o meno edulcorate o modernizzate. Mi viene in mente un mio articolo su Education2.0, la prima rivista che ospitò tempo fa idee rivoluzionarie in fatto di architettura ed educazione.
In occasione dell’uscita delle “Linee Guida sull’edilizia scolastica” nel 2013 scrivevo tra l’altro: “Avrei voluto chiosare capitolo per capitolo il documento ricorrendo alle idee da me più volte esposte e pubblicate, oltre che condivise da esperti e pedagogisti. Mi sono accorto che seguendo lo stesso percorso sarei di nuovo caduto nella gerarchizzazione di un luogo che, per sua intrinseca natura, non potrebbe essere nemmeno descritto “per parti” . Riproporrò allora la mia lettura e la mia “linea guida”. Non ho mai avuto il piacere di essere coinvolto, pur avendo offerto la mia disponibilità, nella ricerca istituzionale sul tema, e questo è un peccato, non per me, ma per il contributo che si sarebbe potuto trarre dalla mia trentennale esperienza sul campo, come architetto e ricercatore, docente, amministratore locale e dirigente scolastico, per il dibattito sulla costruzione delle Linee Guida veramente innovative per quella che mi ostino a voler chiamare “architettura” scolastica.”
Nell’anticipare l’idea di una intera città educante al posto di tanti reclusori scolastici scrivevo ancora in una sorta di antesignana educazione diffusa: “La scuola si dilata nel tempo e nello spazio, aderisce al concetto di lifelong learning e trova luogo in ogni angolo a vocazione culturale della città ma anche del web, come sta avvenendo di fatto senza che gli ambiti fisici si siano adeguati rimanendo pervicacemente statici e gerarchizzati come alla fine dell’800. La “scuola diffusa” sarebbe economica, sostenibile, innovativa, efficiente ed efficace. Trasformiamo ove possibile tutta l’edilizia scolastica esistente in altrettanti poli di questa rete integrata da musei, teatri, biblioteche, parchi, attrezzature sportive, monumenti, municipi. “
Dal 2013 ad oggi tanti i saggi, gli articoli, i seminari e perfino i racconti dell’idea di educazione diffusa e città educante tra architettura ed educazione ospitati con interesse all’estero. Ma il mondo dell’establishment pedagogico e architettonico pare non voglia cambiare nulla o peggio, fa finta di voler innovare e progettare per un futuro che è ancora passato, brutto passato.
Farò lo stesso spelling delle “nuove linee guida” dettate dai pontificatori “pedarchitettonici” ripensando ad ogni passo alla nostra esperienza lunga e consolidata, apprezzata abbastanza presso il popolo dell’educazione ma boicottata ed osteggiata presso il potere dell’educazione e delle accademie:
Il PNRR ordina, come altro, queste linee guida. I soldi quindi. Pochi, ma come si immagina, pecunia non olet, e le consegne tengono conto quasi solo di questo o poco più.
–La forma architettonica ospita una funzione.
Il funzionalismo ingenuo che aborriva anche il mio compianto maestro Aldo Rossi impera ancora.
–La linea tracciata potrebbe anche costituire un primo orizzonte per la necessaria, e da più parti evocata, revisione delle norme tecniche del 1975.
E le linee del 2013? Non lette?
Tutte le giaculatorie dell‘introduzione sono dei brutti e poco incoraggianti déjà vu sciorinati dai personaggi di gran moda della médiocratie scolar-architettonica.
–Nell’espansione urbana del secolo scorso gli edifici scolastici apparivano come puro “standard” o “servizio” necessario ai nuovi quartieri satellite. Oggi, invece, dobbiamo guardare a loro come veri e propri catalizzatori di vita urbana, come importanti centri di socialità e come luoghi capaci di promuovere valori importanti attraverso una “pedagogia implicita”: sensibilità di fronte all’ambiente, pari opportunità, inclusione sociale…
La città dis-educante dei monumenti alla tecnologia e ai valori indotti da un neocolonialismo pedagogico e urbanistico?
– I nuovi edifici scolastici, attraverso i progettisti sapranno trasformare questi elementi in un valore unico che li comprenda e a loro perfino sopravviva: quello della qualità, della solidità e della bellezza del paesaggio, dello spazio e degli edifici. In breve, tutto ciò che rappresenta il lascito principale della cultura urbana italiana degli ultimi venti secoli.
Nuovi ma concettualmente retrò. Timidissimi passetti, solo teorici e poco coraggiosi verso un‘idea diversa e non più ottocentesca dei luoghi per l‘apprendimento (memento Papini). Una nuova scuola non è soltanto un luogo costruito per apprendere meglio. ☹️☹️
–Fare scuola all’aperto, all’esterno, uscendo non solo dalle aule ma da tutti gli ambienti coperti, è una stra- da ancora troppo poco esplorata dalla scuola italiana. Corti e cortili di molte scuole sono oggi sottouti- lizzati, pur costituendo una grande risorsa per l’azione educativa. La pandemia, con la ricerca di maggiori spazi – anche esterni – per le attività scolastiche, ha reso ancora più ur- gente il loro inserimento fra gli am- bienti di apprendimento. L’ambiente esterno è il luogo di elezione per fare esperienza non solo legata al conte- sto naturale (il contatto con la terra, l’osservazione dei fenomeni meteo, la coltivazione), ma anche come prolungamento degli ambienti inter- ni. Spazi all’aperto dovrebbero esse- re facilmente accessibili dalle aule, ma anche da laboratori, biblioteche, spazi comuni e di ristorazione, in una sorta di continuità d’uso che ne faciliti l’appropriazione. Corti interne, terrazze, patio, giardini pensili, logge, verande, pergole, padiglioni, ecc. sono luoghi articolati per mediare la distinzione che separa l’involucro edificato dal contesto circostante. Le coperture esterne possono essere preziose in prossimità degli ingressi o per ospitare attività didattiche riparandosi dal sole o dalla pioggia. Condizione necessaria perché questi spazi diventino veri e propri ambienti di apprendimento è che siano progettati all’interno del piano della scuola, dotati di strutture, arredi, pavimentazioni diversificate, zone ombreggiate, semichiuse, depositi, sedute. Solo in questo modo si offrono alle scuole spazi diversificati che invitano a usi plurali, ad esempio adottando nello stesso sistema edificio più soluzioni che possono anda- re dall’uso della copertura, a diverse corti interne semi coperte, alle zone in piena terra dedicate al giardino e all’orto, ecc.
Solo propaggini del reclusorio scolastico, “coraggiosamente” spalancato all’esterno, in una concezione anni ’70 sulla quale perfino Giancarlo Decarlo aveva espresso seri dubbi.
–Laddove possibile, e con particolare attenzione alla scuola dell’infan- zia e primaria, le classi e gli spazi di apprendimento interni dovrebbero poter avere un’apertura diretta verso l’esterno, così da costituire fuori una sorta di aula ‘simmetrica’ verde.
Della serie: il coraggio uno non se lo può dare. Non si propone il superamento delle norme del 1975 ma neppure quelle un po’ più avanzate del 1996 e del 2013!!
–Fare scuola in modo più attivo e meno trasmissivo richiede strategie didattiche che trovino declinazione spaziale in ambienti articolati, di- versificati fra di loro e riconfigurabili all’interno grazie all’arredo. Molte sperimentazioni pongono l’accento sulla necessità di impostare l’attività scolastica integrando lavoro individuale, di gruppo, attività frontali, discussioni e momenti di confronto plenario. Questa articolazione spinge a immaginare un paesaggio di apprendimento che non lasci fuori nessuno, con spazi dentro e fuori che possano essere adattabili a modelli di insegnamento differenti e personalizzati.
–Gli spazi distributivi (corridoi, atrii, scale) assumono un ruolo centra le, non solo nei momenti di pausa, ma per lo stesso apprendimento, se messi in grado di accogliere momenti di attività collettive e di grup- po, luoghi dove svolgere attività in autonomia o semplicemente discu- tere, aspettare, incontrarsi: “spazi ri- fugio” per ritrovarsi con sé stessi, ma anche spazi grazie ai quali promu vere un processo di apprendimento che – coerentemente ai traguardi metacognitivi suggeriti dalle Indicazioni nazionali – dia rilevanza al ruolo attivo dello studente nella costruzione e nell’impiego delle diverse strategie di lavoro scolastico. Anche questi sono aspetti rilevanti, che de vono guidare un’azione progettuale capace di interpretare le necessità diverse, a seconda di età e fase evolutiva. Il ripensamento parte dall’aula, che si trasforma da spazio rigido e stere- otipato a fulcro di un sistema in grado di ospitare diverse configurazioni e allargarsi agli spazi limitrofi.
Resistono come i muri che non crollano le aule, gli arredi, i corridoi, gli atri, i laboratori. Le forme cambiano ma le sostanze decisamente no. Il reclusorio aumenta solo gli spazi per le “ore d’aria”?
Molti dei punti (circa 9 su 10) si riferiscono alle caratteristiche costruttive dei casamenti scolastici considerati implicitamente come imprescindibili.
Consiglierei agli ineffabili redattori del documento e a chi fosse interessato la selezione di articoli sull’argomento elencati in APPENDICE.
La chiave ricorrente e fondamentale per me è concepire una città educante in cui si accede da quelli che noi chiamiamo “i portali” dell’educazione diffusa, gli spazi costruiti o trasformati ad hoc, polifunzionali e aggregativi che sostituiscono almeno 5 o 6 edifici scolastici tradizionali con lo scopo di fare da base e introdurre ad una rete di luoghi della città e del territorio dove ricercare, studiare ed apprendere attraverso esperienze multiformi e flessibili nel tempo e nello spazio.
Nel libro “Educazione diffusa.Istruzioni per l’uso” di P.Mottana e Giuseppe Campagnoli Terra Nuova Edizioni 2021 si legge: Il portale, la base, la tana libera tutti.
Intanto osserviamo le caratteristiche del cosiddetto portale, sia che sia costruito ex novo, sia che sia il risultato della trasformazione di un edificio scolastico esistente o di un altro edificio per così dire, collettivo. Qualche terribile centro commerciale potrebbe smettere la sua funzione mercantile e diventare con opportuni interventi miracolosi, da spazio-rospo (con tutto il rispetto per lo splendido batrace) mercantile a spazio-principe educante: uno splendido megaportale culturale per una intera città.
Prendiamo però ora il caso di un edificio scolastico o di un cosiddetto campus esistente che abbia assodate certe caratteristiche e sia circondato da bei luoghi come biblioteche, teatri, musei, giardini, botteghe e laboratori. Bisogna aprirlo come una scatoletta e se la pianta lo consente, ridisegnare gli spazi prima gerarchicamente realizzati, eliminare scale e ascensori cercando di mantenere tutto in piano (per correre e saltare meglio già da dentro!), anche utilizzando rampe e piani inclinati.
Tanti ambiti aperti e collegati tra loro, tanto aerati e illuminati da sembrare più fuori che dentro, colorati e arredati fai da te, da voi da noi e da loro, in modo libero ed efficiente, non fisso, con l’apporto diretto di chi li vive e tanto flessibili da poterne mutare la forma e la mimesi cromatica in tempo reale come un vanitoso camaleonte educativo per le necessità del momento anche con l’aiuto di marchingegni e macchinette tecnologiche, aggeggi moderni e materiali naturali. L’uso collettivo del Portale per i momenti di partenza, condivisione e di riflessione a posteriori sulle attività da svolgere durante la giornata, la settimana o il periodo stabilito fa sì che debba prevedere spazi di aggregazione comodi e dotati di strutture adeguate a scrivere, leggere, fare rapide ricerche, raggrupparsi e dividersi per seguire ora un mentore ora l’altro ora un esperto ora l’altro.
Dal portale si diramano percorsi coperti o protetti di pedonali, ciclovie, acquavie, risciò, monopattini e pattini a rotelle, piccoli mezzi collettivi elettrici (come quelli inutili del golf) e stazioncine di bus ecologici o, più avanti nel tempo, piccole metropolitane di superficie connesse con la rete urbana principale, guidate e “segnate” ad esempio dai segni colorati che vedremo più avanti. Rileggo con ansia fattiva dalle appendici del Manifesto della educazione diffusa: “La gestione e la fruizione dello “spazio fuori” è dunque un tema importante che viene negoziato con enti pubblici e privati per l’individuazione di luoghi di apprendimento ma anche di semplici luoghi-presidio che fungano da punti di riferimento per i ragazzi e ragazze e di percorsi dedicati a forme di viabilità leggera (piste ciclabili, zone pedonali, ecc.), affinché possano muoversi nel loro territorio in sicurezza e raggiungere sempre più autonomia. L’obiettivo è che il confine tra il tempo dentro e quello fuori la cornice scolastica sia sempre meno percepita, configurandosi tutto come tempo di vita piena. Naturalmente per questioni organizzative viene delimitato un tempo scolastico che prevede la presenza degli insegnanti e lo svolgimento di attività programmate e che rispetta la configurazione e la logistica della scuola di appartenenza. L’orario complessivo settimanale o plurisettimanale, nella fase transitoria, viene rispettato ma in situazioni particolari in accordo con le famiglie può essere rivisto in base alle esigenze dei progetti e delle attività.”
Ripubblico in occasione degli incensi mediatici e politici all’architettura mercantile dei pontificatori con una dedica speciale al mio nuovo amico Claudio. Si ravvederà?😉
“Juste assez d’architecture pour briller en société” è il titolo di un piccolo libro di Philip Wilkinson tradotto da Danie Gouadec, apparentemente superficiale ed innocuo ma in fondo molto utile perché mette a confronto semplicemente gli “stili” architettonici storici e contemporanei concentrandosi soprattutto su quelli attuali mettendone a nudo alcune caratteristiche che a volte hanno generato dannose sopravvalutazioni. Le teorie e le pratiche che mi preme mettere a confronto più di altre sono quelle di due mostri sacri internazionali oltre che unici premi Pritzker italiani come il compianto Aldo Rossi e l’archistar (!) Renzo Piano. Ecco la descrizione delle due esperienze ed alcune chiose per testo ed immagini.
“Il neo razionalismo è nato in Italia sotto il nome di “La tendenza” in reazione agli eccessi del modernismo e del postmoderno. Proponendo una architettura corrispondente alla loro epoca, i neorazionalisti, a partire da Aldo Rossi, propongono il rispetto dell’identità e della storia urbana (strutture, forme e disegni della città) come se si fosse difronte ad un vero e proprio organismo vivente, che si trasforma virtuosamente solo attraverso interventi ispirati dalla collettività e non dal singolo. Il post moderno al contrario (insieme all’high tech) si pone come urbanistico, ludico, commerciale e popolare, con riferimenti storici nulli o disinvolti, quasi completamente assoggettato al mercato e alla globalizzazione “L’high tech” E’ il tipo di architettura che diventa design e che sfrutta con ostentazione le tecnologie cosiddette d’avanguardia e di moda. Apparsa intorno agli anni ’70 l’architettura “high tech” ostenta la sua alta tecnologia con una forte presenza scenica tesa a provocare un brutale shock di novità a tutti i costi. Gli elementi chiave sono la prefabbricazione, l’uso di materiali “pret à porter” e l’esibizione esteriore della tecnologia. Gli adepti principali di questo tipo di design di architettura, che trae le sue lontane origini anche dalle idee di R.B. Fuller sono stati e sono Richard Rogers, Renzo Piano, Norman Foster, Nicholas Grimshaw e Michael Hopkins. “
Questo scrissi invece nel lontano 1973: “Integrando le letture fondamentali della città e del movimento moderno si arriva ad acquisire gli strumenti essenziali alle nostra disciplina, gli unici strumenti capaci di portare alla costruzione logica di un progetto che non è nient’altro se non di architettura perchè per essere tale non deve assolutamente sconfinare in campi che non sono di pertinenza dell’architetto e che invece pretendono di risolvere problemi di architettura con strumenti che le sono estranei. Il concetto di funzione preclude l’essenza autonoma dell’oggetto architettonico, facendone una forma concepita per una specializzazione, mistificando la validità di una operazione progettuale che si configura come la costruzione di un manufatto architettonico o di una parte di città che potranno assumere nel tempo diverse funzioni. Un intervento da architetti nel territorio deve essere solo un progetto di architettura che a sua volta è una elaborazione collettiva nella storia in un luogo che è la città, capace di formarsi e trasformarsi rileggendo continuamente sè stessa. E’ solo leggendo e scomponendo la città e il territorio nelle loro parti che può derivare il progetto come costruzione sull’architettura per ristabilire quell’equilibrio spezzato dalla speculazione edilizia, agli interventi dissennati sul territorio dai monumenti a sé stessi di tanti architetti privi di storia.”
Un emblema singolare di questa brutta rottura con la città e della città e del cosiddetto funzionalismo ingenuo è proprio il cosiddetto Beaubourg a Parigi tanto celebrato ed osannato e ripreso recentemente da un media francese. Proprio qui un parigino ha ben definito il Centro Pompidou come bellissimo ed entusiasmante per ciò che contiene ma non per il contenitore:“Ce centre est frequenté pour l’interêt de son contenu et non pour son architecture, toujours aussi affreuse. La situation, dans le plus vieux quartier de paris, aurait merité un style different: rien de glorieux donc!..” Una bella impalcatura permanente?
Al di là della personale propensione per una architettura dissenziente e vicina al concetto collettivo della costruzione della città medievale prima delle signorie, la mia scuola fondamentale è stata proprio quella della cosiddetta “Tendenza” e molti germi di quella educazione sono rimasti intatti e si riferiscono alla “città analoga”, ai linguaggi comuni dell’architettura storica che andrebbero trasformati e non rinnegati, alla città che si autocostruisce collettivamente con l’architetto che fa solo da interprete e mentore. come scrive Colin Ward tra l’altro: “L’idea popolare del mestiere di architetto è quella di un mucchio di primedonne che se la spassano con lavori di lusso, oppure di schiavi della speculazione privata o della burocrazia pubblica. C’è invece un approccio minoritario e dissidente che vede l’architettura come una diffusa attività sociale, nella quale l’architetto è un propiziatore, o un riparatore, più che un dittatore estetico…”. “La libertà è l’abolizione del dovere di rispettare le regole della maestria e dell’estetica. Può «andar bene» qualunque cosa. Questo distacco da un sistema meccanico e dalle regole, insieme al bisogno di innovazione, è la forza che apre la strada alla creatività e all’espressione dell’inconscio”.
Il Centro Pompidou oltre ad essere il simbolo della distruzione realizzata in varie fasi di una parte di città (Les Halles, Plateau Beaubourg in questo caso) quasi come gli sventramenti dissennati di Via della Conciliazione a Roma e dei piani Haussmanniani della medesima Parigi, senza alcun rispetto per la storia e per un dialogo Leto, progressivo e costruttivo con questa, come è sempre avvenuto, rappresenta l’avvio dell’architettura di rottura non virtuosa mercantile e ipertecnologica dei tubi e del ferro che non hanno nulla a che fare con il Christal Palace o con La Tour Eiffel nati per scopi diversi, decisamente provvisori e meno esibizionisti. Un enorme giocattolo colorato per architetti infantili e provocatori ma non rispettosi del cuore pulsante di una città che a ben vedere dalla mia prima visita proprio nel 1977 anno della sua inaugurazione a due anni fa non dà l’impressione di averlo ancora né accolto né assimilato come del resto checchè se ne dica e sene scriva,anche il famoso megapilone del ponte dell’ingegner Eiffel.
“Rara è l’architettura che rifiuta di essere corpo estraneo per moda o per tensione esibizionista all’originalità ed al “Fanta building”. La cultura del trasformare correttamente la realtà per vivere e lavorare deve essere prima radicata nella gente, nei cittadini e nella committenza oltre che nella politica e nella professione. La società non ha bisogno delle archistars. Sono loro che ne hanno avuto bisogno e l’hanno sfruttata e turlupinata ad usum delphini. Ma tant’è, in qualche paese, si diventa senatori anche per questo e si capisce allora anche l’antica provocazione di Caligola! Il tempo, si diceva all’università negli anni ’70, si sarebbe dovuto spendere, almeno per un ventennio, nella ricerca urbana e architettonica per costruire uno stile contemporaneo sia per la città che per la campagna, per gli edifici pubblici che per quelli privati e residenziali. Niente di tutto ciò in realtà è stato davvero fatto. Basta osservare il territorio : dell’architettura non c’è traccia. Lo stile contemporaneo è un desolante eclettismo informe, un’accozzaglia di manufatti che non hanno nulla di estetico e sovente nemmeno nulla di funzionale. Se si glissa sul comprensibile ma non accettabile analfabetismo estetico e architettonico di figure come geometri e ingegneri non si può trascurare il penoso vuoto culturale della maggior parte degli architetti sul mercato e la loro vocazione prevalente e comune anche ad altre categorie di professionisti ed imprenditori al mero profitto o alla elucubrazione stilistica fine a se stessa. Non si capisce nemmeno il gran successo delle nostre archistars nel mondo se non con un degrado culturale che si è globalizzzato e che giudica l’architettura prevalentemente dai falsi miti della tecnologia e dalla ecologia. Non ci sarebbe bisogno di tante elucubrazioni tecno-ecologiche se solo si conoscesse la storia e ci si comportasse di conseguenza senza eccesive fratture e con la continuità che un organismo come la città e il suo intorno richiedono, attraverso interventi innovativi ma non completamente estranei. E’ indispensabile garantire una sorta di biocompatibilità con un organismo che è vivente e mal sopporta corpi estranei o trapianti innaturali. Persino oggetti tanto declamati come il Beaubourg, gli l’high-tech, spesso solo high di Renzo Piano, Santiago Calatrava, Massimiliano Fuksass & Co. temo restino una estraneità nel contesto urbano in cui si collocano. Si fatica a immaginare che possano, nel tempo, integrarsi mirabilmente con i loro intorni urbani come è accaduto per le architetture civili ed emergenti costruite prima degli anni ’50.”
Ormai ci sono oggetti del culto contemporaneo sui quali non si ha il coraggio di discutere. Ma basta aver occhio per osservare la città nel suo insieme, le sue trasformazioni nel tempo e il vulnus che certi oggetti le procurano al di là del turismo o delle chiacchiere pseudo scientifiche e artistiche. Come certi oggetti d’arte anche certi oggetti di architettura non sono affatto né arte né architettura perché non sono universali se non per il mercato che oggi, ahinoi, comprende e deforma anche l’informazione, la critica, la storia. Osservare la continuità o la sublime continua- discontinuità tra medioevo, rinascimento, barocco e neoclassico non provoca nei lettori saggi ed accorti lo sgomento che provocano certi corpi estranei nel corpus di una città da intendere come un organismo vivente in cui sia stata inserita una orrenda protesi. Aldo Rossi, non profeta in patria e per lungo tempo anche all’estero, aveva capito e letto la città e come vi si dovesse intervenire. A suo modo e in modo singolarmente convergente ma per altra via l’aveva capito anche Giancarlo de Carlo. Una buona architettura sarebbe una sintesi virtuosa di affinità elettive tra il pensiero di Aldo Rossi, de Carlo e Colin Ward. Questo è quello che sto tentando di fare nel mio piccolo di vecchio architetto controcorrente, inserendo anche il sublime concetto della città che educa sè stessa e i suoi abitanti, che suggerisce a questi le proprie vocazioni di crescita e trasformazione coerenti con la salute del suo mirabile organismo che indica come pensare e costruire collettivamente spazi per abitare, per condividere, per mostrare, per apprendere, per pensare e per divertirsi.
ReseArt Arte, cultura, educazione, politica, sociale e varia umanità
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