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Maria Montessori, i lati sconosciuti della celebre pedagogia

Articolo di Libération del 7 Febbraio 2023. Traduzione di Giuseppe Campagnoli.

 “Da un’educazione ottenuta dopo una dura lotta in Italia alla fine dell’Ottocento, al coinvolgimento nel fascismo, da cui finì per fuggire passando per l’India, la vita della pedagogista ha conosciuto molte svolte inopinate, spesso nascoste dal grande successo del metodo che porta il suo nome.

 DI CAMILLE PACE

Dal metodo Montessori alle idee di educazione affini. Un testo significativo e illuminante.

 Quello che sappiamo di Maria Montessori è inversamente proporzionale alla fama del suo nome, e le immagini di cubi colorati che il suo nome evocano faticano a cogliere la complessità del personaggio.  Poco male, visto che i fumetti sembrano essere diventati il ​​mezzo privilegiato della sua biografia, il caso ha fatto sì che negli ultimi mesi due diverse pubblicazioni si siano concentrati sul personaggio: la Casa dei bambini, dell’illustratrice italiana operante in Francia Caterina Zandonella insieme all’autrice Halima Steinkis in uno scenario romanzato, e Maria Montessori, la scuola di vita, di Caroline Lepeu e Jérôme Mondolini.  Due opere che evidenziano le zone d’ombra altrettanto affascinanti quanto quelle luminose della storia ufficiale.

 Maria Montessori nacque il 31 agosto 1870 da una famiglia borghese a Chiaravalle, nell’Italia orientale.  A priori, il suo ingresso nella vita ha tutto dalla storia perfetta della determinazione femminista, quella dell’ostinata self made woman: lei vuole studiare, non suo padre, che cerca di metterle i bastoni tra le ruote anche se avesse scelto di essere un’insegnante di scuola elementare. Sfortunatamente si è infatuata della biologia e insiste.  Oltre al padre, deve superare molti ostacoli: il Ministro dell’Educazione Nazionale che non vuole nemmeno una donna a medicina, i banchi universitari dove certi corsi le sono vietati e dove si ritrova sola la notte, unica modo per lei di praticare le dissezioni…

 DRAMMA PERSONALE

 Una delle prime italiane a laurearsi in medicina, Maria Montessori pose le basi per quella che sarebbe diventata la lotta di una vita in un istituto psichiatrico a Roma.  Chiamata ad accudire i bambini “ritardati mentali”, è scioccata nel vedere che non sono separati dagli adulti e sono totalmente poco stimolati: sono messi lì per trattenerli e controllarli, non per curarli.  La dottoressa riesce a isolarli e verifica ciò che sospettava: i giochi e le interazioni tra bambini sono elementi essenziali del loro sviluppo.  Maria Montessori si pone sullo stesso piano del bambino, lo osserva, lo lascia fare liberamente.  Un metodo di apprendimento in autogestione che presto estanderà oltre i cosiddetti “bambini difficili” aprendo la sua prima scuola romana, la Casa dei bambini. Così Maria Montessori diventa pedagogista. Nel frattempo, il suo dramma personale si sviluppa in silenzio.  Incinta fuori dal matrimonio, Maria Montessori deve scegliere tra la sua carriera pagata a caro prezzo e la nascita di suo figlio.  Lo affida a una famiglia di contadini.  Mario Montesano, divenuto poi Mario Montessori, ha ritrovato sua madre solo quando era adolescente.  Sarà il suo braccio destro, il suo segretario personale, e non la lascerà mai.  Ma le sono mancati quei primi anni con lui, gli anni che considerava così importanti.

 BAMBINI IN CAMICIA NERA

 Maria Montessori ha una visione e delle ambizioni e non si fermerà davanti a nulla per metterle in pratica.  Quando Benito Mussolini si appassiona al suo metodo perché vi vede un ottimo modo per mettere in pratica il fascismo a scuola. Così colei che si definiva apolitica e pacifista finì socia onoraria del Partito Fascista, con bimbi in camicia nera nelle sue classi.  La situazione si era evoluta decisamente al di fuori del suo controllo finché non si dimise nel 1933 e fuggì dal paese con suo figlio un anno dopo.  Benito Mussolini volta pagina sull’educazione Montessori, ma non sarà per niente facile la sua fondatrice.  Braccata in Spagna, Maria Montessori si stabilì infine nei Paesi Bassi, dove nel 1929 creò la sua organizzazione, l’Associazione Internazionale Montessori, ancora attiva e fiorente quasi cento anni dopo.

Qui sotto alcuni disegni tratti dai due volumi citati: La Casa dei Bambini ,Maria Montessori,la scuola di vita.

Maria Montessori visse da lontano la seconda guerra mondiale, esiliata in India (NDR: grazie anche alla sua adesione alla Società Teosofica e comunque in domicilio coatto in quanto cittadina di un paese nemico) dove inizialmente sarebbe dovuta rimanere solo tre mesi. Le ci vorranno ancora sei anni pieni prima di rientrare e trovare un continente distrutto. Consolidò fino alla fine con studi, pubblicazioni e conferenze la sua influenza di superstar planetaria della pedagogia, costruttrice di un impero che oggi rivendica 25.000 scuole nel mondo.”

Questo articolo, che di fatto è una recensione scarna di due volumi recenti sull’argomento, spinge ad alcune riflessioni che incuriosiscono e forse invitano ad approfondire leggendo le due singolari pubblicazioni. Io lo farò e cercherò di fare a mia volta una recensione. Ma alcune domande provocatorie, assai provocatorie, per inciso, mi sorgono spontanee: come mai Mussolini era così interessato al metodo Montessori? Che significato ha la sua adesione alla Società Teosofica? Quali e di quale tipo i rapporti con Rudolf Steiner capo dal 1902 della sezione tedesca fino alla secessione antroposofica del 1912?

La Società Teosofica

ReseArt 2023

 

Una divisa per nascondere le diseguaglianze.

«C’est l’idée qu’on va gommer Mai 68»

Pour le sociologue François Dubet, Brigitte Macron est «en train d’inventer une tradition» qui ne saurait régler le problème des inégalités à l’école. Libération. Intervista raccolta da Romain Boulho.

Traduzione di Giuseppe Campagnoli

Tutto il mondo è paese. E i nostri cugini pare abbiano un concetto di educazione ancora molto conservatore.

“È l’idea che cancellerebbe il ’68”

 Per il sociologo François Dubet, Brigitte Macron sta “reinventando una tradizione” che non può risolvere il problema delle disuguaglianze a scuola.

 RACCOLTA DA ROMAIN BOULHO

 Un ritornello a destra e all’estrema destra, la divisa scolastica, che sarebbe l’antidoto a tutti i mali della scuola, ha un nuovo megafono.  Brigitte Macron, ex insegnante privata di francese, ha appena inserito un nuovo tassello. Mercoledì, alla vigilia della proposta di legge in materia del Rassemblement National di Marine Lepen, la first lady si è detta favorevole: “Cancella le differenze, e fa risparmiare tempo. Scegliere come vestirsi al mattino è dispendioso in termini di tempo e denaro “.  Per François Dubet, sociologo specializzato in scuola e disuguaglianze, già direttore degli studi presso la School of Advanced Studies in Social Sciences, l’idea è un “pensiero illusorio”.

 L’uniforme scolastica suscita molte fantasie, la prima è la sua stessa esistenza…

 Infatti non ce n’è mai stata una in Francia di uniforme.  Nella scuola repubblicana è una leggenda metropolitana.  C’erano camiciotti per ragazze e ragazzi, ma nessuna uniforme.  Era, come dice Brigitte Macron, gonne blu a pieghe e simili, ma nelle scuole private chic, non nella scuola di Jules Ferry.  Ai genitori è stato detto di comprare un camice in modo che i loro figli non si sporcassero, ma non per amore dell’anonimato.  Viviamo oggi in un immaginario scolastico che è in gran parte una ricostituzione.  Sono entrato nella scuola elementare nel 1950 e non ho mai visto una divisa.  È assurdo. Brigitte Macron parla di un modo per “cancellare le differenze”.  Ma cosa viene preso di mira?  La differenza tra ricchi e poveri o è piuttosto un modo indiretto di prendere di mira i segni della differenza religiosa?  Non lo so.  In ogni caso, l’idea che la divisa possa cancellare le differenze è, a mio avviso, puramente immaginaria.  Gli adolescenti sono ossessionati dal loro stile, dal loro aspetto, dai loro capelli, tinti o meno, dalla loro marca di basket… Per quanto riguarda le differenze scolastiche, abbiamo recentemente avuto dati dal Ministero dell’Istruzione sulla composizione sociale degli istituti e non vedo come questo ridurrà le disparità che sono notevoli tra stabilimenti chic, non chic o popolari da cui tutti rifuggono.  È un pensiero magico.

 È una manovra diversiva.  Intanto non riusciamo ad assumere docenti, i risultati scolastici misurati dallo stesso ministero sono un po’ preoccupanti, le classi medio-alte sono a sé stanti, come le classi lavoratrici… Di fronte a disuguaglianze, difficoltà di apprendimento, agli orientamenti che sono un vero e proprio smistamento sociale tra gli alunni, questa idea della divisa mi sembra ridicola.

 Insomma, è solo nostalgia conservatrice, che, peraltro, non può vantare un ritorno a un vecchio sistema, visto che non è mai esistito.  Questa è l’idea che cancellerebbe il maggio del ’68, per standardizzare l’adolescenza.  Alcuni istituti privati ​​estremamente chic adottarono l’uniforme.  Non per creare uniformità, appunto, ma piuttosto per distinguersi, come segno di appartenenza a una casta.  Anche alcuni paesi hanno questa tradizione.  Ho lavorato in Cile e la gente ci è molto affezionata.  Ma ce n’è sempre stato uno!  In Francia stiamo inventando una tradizione, una storia che non c’è. È strano.  Credo sia solo per accontentare le correnti più conservatrici.  Questo tema, che era minoritario perfino nell’estrema destra, viene ripreso oggi senza che nessuno sembri sorpreso.  Zemmour l’aveva messa al centro del suo programma per le presidenziali sulla scuola.  Stiamo solo aspettando il ritorno delle punizioni corporali…

 Tra le ragioni spesso citate, la laicità sta tornando sempre più…

 È un concetto molto strano.  Laicità è il diritto degli individui ad essere tutelati nella loro singolarità. Si dice che tutti sono uguali e che si separa la scuola dalla società.  È un laicismo autoritario, non la tradizione laica.  Il secolarismo visto da Zemmour.  Stupisce che la first lady, ex insegnante in un liceo privato chic, faccia sua questa idea, proprio come aveva avanzato qualche settimana fa quella del dettato quotidiano.  Sappiamo che ci sono problemi con i bambini e i ragazzi – e soprattutto con le ragazze – che reintroducono tranquillamente i simboli religiosi a scuola, i veli, i vestiti lunghi, ecc.  Ma spetta alle istituzioni avere una politica in merito.  Qualche settimana fa, Pap Ndiaye ha assicurato che non spetta allo stato legiferare sugli abiti degli studenti, ma semmai agli istituti stabilire regole….”

Insomma i dibattiti sono sui meriti, sulle divise, sui cellulari in classe! Non solo da noi.

A memoria

Scuola: basta con l’imparare a memoria?

L’apprendimento a memoria ha fatto soffrire intere generazioni e molti educatori sono convinti della sua inutilità. Sarebbe da eliminare questa pratica di insegnamento? Non è poi così sicuro.

DI RACHID ZERROUKI PROFESSORE ALLA SEGPA A MARSIGLIA E GIORNALISTA. Libération 3 gennaio 2023.

Traduzione e commento di Giuseppe Campagnoli

Ci sono parole che occupano i nostri ricordi con insistenza come macchie di calcare che non vanno via neppure con il bicarbonato. Possono essere frasi, testi di canzoni o slogan pubblicitari. Per Amine sono i versi di una poesia: “Todo Pasa y todo queda” ( «Tutto passa e tutto rimane»). Le recita il giorno del suo matrimonio e alla minima esitazione, il suo testimone, Adil, prosegue. I due trentenni sono cresciuti insieme a Cavaillon, nel Vaucluse. Uno è un infermiere in un ospedale di Nizza, l’altro compra e rivende criptovalute a Dubai. Erano nella stessa classe alle medie quando il loro insegnante di spagnolo ha chiesto loro di imparare a memoria questa poesia di Antonio Machado. È stato 17 anni fa.

Adil è certo che questo esercizio non gli ha permesso di progredire nella lingua straniera ma si rende conto che lo scopo dell’esercizio era un’altro: «Cercava di insegnarci la vita più dello spagnolo», spiega. Conserva l’immagine del sig. Hortelano come un professore romantico, tra coloro che mandano al diavolo le istruzioni ufficiali e che insegnano con il cuore e con le viscere. Faceva l’appello una volta su tre, saliva sui tavoli e preparava le sue lezioni sui post-it, ma le sue mille vite gli permettevano di affascinare il suo pubblico come nessun altro. Era stato marinaio, saltimbanco, poeta, manutentore. Insegnare era per lui un’arte e mai una scienza. Far imparare ai suoi allievi una poesia che gli stava a cuore non obbediva ad alcuna logica pedagogica ma rispondeva ad una volontà umana tutto sommato banale: trasmettere agli altri ciò che si ama.

INGURGITARE A MAN BASSA

Durante la mia formazione universitaria, mi è stato descritto il professore che ricorre al metodo della memoria come, più o meno, una nullità. Bisogna dire che, come il dettato o la lavagna col gesso, l‘imparare a memoria fa parte di quei dibattiti che sono stati padroni nelle sale dei professori. Alcuni reclamano il loro ritorno per idolatria del passato; altri, per reazione, combattono tutto ciò che vi si avvicina. I miei formatori, provenienti da una generazione che questa pratica ha maltrattato facevano parte della seconda categoria: l’apprendere a memoria è stato posto al servizio della loro preparazione diventando lo strumento di quello che il pedagogo Paulo Freire chiamava «la pedagogia bancaria»: una visione dell’insegnamento secondo cui l’unico margine di manovra che si offre agli alunni è quello di ricevere e accumulare, conservare e risputare in cambio di un voto numerico. Risultato: «Ripensando al concorso dei professori delle scuole, avevo l’impressione di scoprire per la prima volta l’età d’oro dei Capetingi o la portata dell’editto di Nantes», racconta Damien, professore in Dordogna. Oggi, alle nozioni che gli sono state fatte «ingerire a man bassa » oppone l’approccio creativo e di ricerca insieme alle elaborazioni libere degli allievi stessi.

La sua collega nella scuola Vaucluse, Hélène, non ha eliminato la memoria ma, nella sua modo di insegnare, ha tenuto a distinguerla da un’altra pratica: «Conoscere a memoria con curiosità, libertà e animo è anche fare proprio un sapere, un testo, un’espressione matematica…Lo psittacismo invece consiste nel ripetere meccanicamente come un pappagallo»

Questo termine, che utilizza in senso figurato, designa un autentico disturbo del linguaggio che spinge chi ne soffre a ripetere le parole altrui in modo meccanico, senza comprenderne il senso. La distinzione che fa Helena allevierà le apparenti contraddizioni di tutte le persone irritate dall’imparare a memoria ma che sono beate di ammirazione nel vedere i loro ottantenni genitori declamare le lunghe tirate del Cid de Corneille apprese decenni prima.

Caroline Boudet, autrice, è una di queste. Racconta che l’imparare a memoria che l’ha disgustata è quello in cui non si percepisce «né la logica, né l’interesse, né la bellezza». C’è infatti un altro apprendimento, né stupido né malvagio, che non si oppone all’apprendimento e alla comprensione ma le nutre. Certo, «sapere a memoria non è sapere» come diceva Montaigne, aggiungendo che è «conservare in memoria ciò che si è ricevuto». Ma è forse, ci dicono le recenti scoperte in neuroscienze, c’è un po’ di più: lungi dall’offuscare l’intelligenza, la memoria la alimenta, la suscita, le fornisce dei materiali.

«UNA PICCOLA IMPRESA CHE NE PREFIGURA DI PIÙ GRANDI»

Si tendeva a credere nel neuromito secondo cui ognuno di noi avrebbe avuto una memoria di apprendimento privilegiata che ci permetterebbe di comprendere meglio e memorizzare le conoscenze: visiva per gli uni, uditiva o cinestetica per gli altri. Nelle sue opere, il ricercatore di psicologia cognitiva Alain Lieury, spazza via questa idea spiegando che le informazioni visive o uditive non fanno che transitare nelle memorie sensoriali, e si ritrovano fuse in una memoria comune, memoria lessicale o memoria delle parole di cui l’apprendimento a memoria è il motore principale. Certo, il significato delle parole è altrove, alloggiato in un’altra memoria detta semantica e che si nutre di esperienza e di manipolazione. Ma la memoria lessicale è la carrozzeria, è quella che i genitori nutrono ripetendo senza fine la parola «automobile» al loro bambino quando quest’ultimo disegna l’oggetto in questione. Senza questo elementare apprendere a memoria, unanimemente incoraggiato, nessuna forma di comprensione potrebbe svilupparsi nel bambino.

Al di là della comprensione, credo che ci sia una memoria che nutre la fiducia in se stessi. È una convinzione personale che non mi ispira alcuno studio ma nella quale la mia esperienza mi conforta. In un piccolo raccoglitore in fondo alla classe, metto insieme poesie, monologhi o estratti di romanzi che mi hanno personalmente colpito. Se uno studente ne impara uno, viene ricompensato; altrimenti, tanto peggio. Ma la stessa musica si ripete ogni anno: giurano che il loro cervello non è capace di trattenere nulla. Provano per orgoglio o per costrizione, lottano e poi riescono. E poi, nel sorriso da vincitore che mostrano dopo aver recitato Prévert o Mahmoud Darwich, nel loro alzare la testa e nella loro palpabile sicurezza, lo vedo: hanno fatto tacere la piaga delle vocine che dicevano loro che non ne erano capaci. L’apprendere a memoria assume allora la definizione di Paul Ricœur: «Una piccola impresa che ne prepara di più grandi.» Perché alla fine è vero, “todo pasa”, ma tre cose di sicuro «quedan»: le parole che abbiamo imparato, la fiducia che abbiamo acquisito e la bellezza che abbiamo coltivato.”

CHE FARE?

La chiave in ogni attività di ricerca, scoperta e apprendimento è la curiosità, l’interesse, la passione anche nel libero e, a volte, faticoso trattenere idee, pensieri, parole, concetti e segni, senza alcuna costrizione ma con la consapevolezza non indotta ma condivisa della loro utilità per la vita.La memoria è una componente naturale che dovrebbe intervenire quando se ne ravvisi l’importanza e la validità che la mente chiede per assimilare in virtù di un profondo interesse senza finalità competitive o classificatorie ma di crescita personale e pure collettiva.

Pensiamo all’apprendimento a volte affrontato con un apparente inutile ripetere, della simbologia e dell’essenza della lingua, della musica, delle arti senza il quale non si potrebbero possedere e praticare anche attraverso l’estrema libera creatività delle combinazioni e dei richiami, questi linguaggi soprattutto con l’esperienza dell’induzione e una serie infinita di “chocs educativi“.

Nell’educazione diffusa c’è anche questo in controluce ma in una modalità opposta rispetto a quella usata e abusata da tempo. Lo vedremo bene nel prossimo scritto in uscita di Paolo Mottana sul “sistema dell’educazione diffusa”, dove ne verrà delineato tutto il percorso pedagogico, ambientale e anche didattico. Il 2023 sarà l’anno cruciale.

Giuseppe Campagnoli Gennaio 2023

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