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L’ITALICA MERITOCRATICA : CHI HA I DANÀ CE LA FA

“La  storia ha  inizio più di dieci anni fa al termine di un percorso di studi secondario. La passione e il risultato ottimo della maturità, oltre ad alcune sofferte economie  familiari non supportate da agevolazioni del diritto allo studio riservate a chi evadendo tasse e rubando a man bassa dichiara meno dei dipendenti pubblici o privati, spinge il nostro protagonista ad intraprendere gli studi coerenti con il liceo appena frequentato.

Superate, bene o male, le prove di ammissione in due atenei,  sceglie l’università italiana sede di una prestigiosa scuola specialistica di tipo umanistico e tecnico e quindi   inizia così l’anno accademico insieme ad un immeritato calvario. Gran parte della preparazione viene lasciata all’iniziativa del singolo studente che deve barcamenarsi attraverso indicazioni generiche, riferimenti confusi, pochi interventi correttivi e di vero insegnamento proprio come l’università di quasi mezzo secolo fa, insieme ad una competitività parossistica e feroce alimentata a volte sotto traccia dagli stessi docenti.

Il percorso triennale termina con il massimo dei voti. Dopo una ulteriore preparazione estiva “matta e disperata”, tesa a colmare la carente preparazione propedeutica al percorso magistrale della stessa università, sostiene l’esame di ammissione per il biennio specialistico. Nello stesso periodo, solo in base all’esame approfondito e certificato del suo curriculum e non in una specie di test breve e dominato dal caso e dal tempo, viene ammesso anche ad una prestigiosa scuola dello stesso tipo in un altro paese europeo. La scelta deve però cadere giocoforza sull’Italia, per ovvi motivi economici. Da qui ricomincia un percorso ancora peggiore di quello del triennio, per la feroce competitività e per una sorta di crescente inadeguatezza pedagogica e didattica. Un percorso ad ostacoli indegno di un paese civile dove la scuola e l’università dovrebbero lasciare indietro meno studenti possibile se fossero pedagogicamente e didatticamente all’altezza del loro compito istituzionale. Dopo una parentesi proficua di studio e lavoro all’estero  termina il corso biennale magistrale notando con un po’ di rammarico (forte dello studio rigoroso, delle valutazioni e degli elogi ricevuti all’estero) come in patria non sia stato proprio un profeta nel finire inopinatamente al disotto delle aspettative “metriche” e anche con un immeritato antipatico strascico personale. Consolerebbe solo il fatto che il giudizio dell’Università sia stato poi smentito da una esperienza sul campo all’estero in un organismo di fama internazionale nonostante degli imprevisti ed improvvisi ostacoli sopraggiunti abbiano in seguito portato ad escludere con estremo rammarico proprio il percorso di professionista. Da allora, non avendo potuto contare su un realmente efficace servizio di orientamento, il nostro eroe è alla disperata ricerca di un lavoro all’altezza del curriculum, delle capacità e delle aspirazioni sperando di non dover essere costretti a penosi e umilianti ripieghi come ahinoi, sta già avvenendo, a dispetto dei trionfalistici dati della propaganda nella sua. Manda centinaia di CV in tutta Europa e nel mondo dove pare che i “neofiti” debbano avere almeno un quinquennio di esperienza altrimenti cestinano subito le tue candidature. Riceve una unica risposta positiva e interessata da un direttore di ricerca per un dottorato alla Sorbonne cui forse non si potrà neppure candidare per mancanza di una borsa di studio con la quale potersi mantenere visto che gli sponsors familiari avevano finito le riserve e che per svolgere un’attività accademica così impegnativa occorreva il tempo pieno.

La storia non finisce ancora e subisce una certa evoluzione. In concomitanza con un incarico di insegnamento in scuole statali all’estero il nostro eroe vince una borsa per un dottorato di ricerca, incentrato su un personaggio letterario di fama mondiale in letteratura, presso una Università italiana.

Il dottorato diventa una  cotutela con una prestigiosa università di una capitale europea, dove nel frattempo si impegna anche nei famigerati e impossibili (tanti autori famosi lo hanno tentato più volte senza esito) concorsi per l’insegnamento (italianizzando:l’Aggregazione o il Capes-(tro) Il dottorato si sviluppa per 4 anni in parallelo con l’ingresso nella comunità internazionale dei ricercatori e critici dell’opera di un  famosissimo letterato, partecipando anche come relatore a diversi seminari, convegni ed eventi di un certo prestigio. Terminato il percorso ottiene il doppio diploma di dottore di ricerca, rilasciato dall’università italiana e da quella partner, con lode  e  nel frattempo vince anche entrambi i concorsi come docente nelle scuole secondarie italiane dove avvia, in attesa di sviluppi accademici, l’attività di insegnamento da fuori sede, depredato della metà dello stipendio dai ladroni del  mercato immobiliare ormai abbandonato alla speculazione selvaggia e viziato dalla caccia al profitto turistico. Proseguono le attività di saggistica e di intervento nei convegni dedicati allo scrittore di cui è diventato de facto esperto. Gli viene dato anche un incarico di prestazione autonoma da una università italiana naturalmente di corsa e sottopagato mentre viene contattato anche per una possibilità di lavoro di ricerca in una università tedesca ed in una italiana sempre nel suo campo disciplinare con tante incertezze e precarietà, comunque con emolumenti nettamente insufficienti per vivere. Con una sorta di incredulo sgomento deve constatare che dopo la bellezza di 11 anni dall’avvio del percorso universitario resiste ancora una fortissima precarietà, soprattutto nel percorso accademico auspicato, dove vige ancora la baronia, la raccomandazione, gli sponsors e tanto altro con l’unica rara eccezione di qualche mentore che ancora resiste ma ha pochissimo potere e spesso deve adattarsi giocoforza al clima clientelare che vige nell’ambiente. Anche l’establishment accademico sia esso italiano che europeo soffre degli stessi malanni.

La meritocrazia e i suoi inganni resistono ancora coniugati con l’iniquità delle dispari opportunità, della competizione sfrenata e disonesta, delle sponsorizzazioni ad usum delphini, delle cattiverie gratuite.Si è precari o sotto occupati ad libitum. Chi è fortunato e sponsorizzto si sistema non prima dei quarant’anni.Non si va avanti senza la scrittura parossistica di articoli su articoli purché sia, sottoponendosi a revisioni con esiti spesso contraddittori se non opposti nei giudizi. Gli interventi, spesso apprezzati a convegni anche prestigiosi e internazionali in genere sono gratis et amore dei con rari rimborsi spese a meno che non si sia un “luminare” non sempre conclamato dell’argomento con il criterio ormai miseramente assodato della pioggia sul bagnato e di quel successo di cui ben scrisse Victor Hugo nei suoi Miserabili. E pensare che si chiacchiera ancora di merito, di talento o di fughe di cervelli (anche queste diventate difficili, per lo meno in Europa). Il falso mito della meritocrazia è dimostrato anche da tanti racconti come questo che purtroppo sono all’ordine del giorno anche in altri campi di studio, perfino in quelli scientifici che sono ancora di moda solo perché assai appetiti dal capitalismo industriale e tecnologico. Per pudore non addentriamoci su quello che è il mondo del lavoro pubblico e privato dove il merito è strumento di potere, di ricatto, di esclusione, di iniquità, di nepotismo ed impari opportunità.  Cosa dovrebbero fare i giovani in scenari rivoltanti come questi? Con chi prendersela per avere un po’ di soddisfazione? Perché i media e la politica non preparano un bel dossier degli infiniti casi come questo che sono le perle testimoni di quanto la miseranda meritocrazia sia l’ennesimo regime trasversale e diffuso da destra ahimè fino alla sedicente “sinistra” che continua a blaterare a vanvera di equità sociale.Viene da piangere o da combattere con tutte le forze.

Giuseppe Campagnoli

Maggio 2023

L’école de demain doit rompre tout lien avec le travail

Uno spunto e piccoli passi…

UN BRANO DA UN ARTICOLO DI EMANUELE COCCIA FILOSOFO, DOCENTE PRESSO LA SCUOLA PER GLI STUDI SUPERIORI IN SCIENZE SOCIALI DI PARIGI (EHESS). PICCOLI PASSI…

« La scuola di domani deve recidere ogni legame con il lavoro »

Di fronte a un mondo trasformato e soggetto a un’accelerazione dell’informazione, il lavoro sta scomparendo. Nuovi luoghi di apprendimento, più liberi, collettivi e degerarchizzati, saranno essenziali per orientarci nel mondo. Il termine “scuola” deriva da una parola greca che significa “mancanza di occupazione”. In latino lo stesso concetto era espresso dal vocabolo otium, “ozio”, assenza totale di mestiere, affari, incombenze, commerci. La scuola non è stata così per secoli. È uno spazio dove la conoscenza è un dovere, un lavoro, e dove ogni conoscenza deve preparare gli studenti al lavoro. La scuola non ha mai avuto voglia o bisogno di ritornare all’idea espressa dal suo stesso nome.

L’ordine geopolitico continua a essere sconvolto. Viviamo in un mondo in cui il lavoro sta scomparendo. Non solo nel senso che sta diventando sempre più una merce rara. Soprattutto, è l’ideale stesso del lavoro che scompare. Quella che negli Stati Uniti viene chiamata “la grande rassegnazione”, la rinuncia a fare del lavoro l’orizzonte definitivo ed esclusivo della propria identità, è ormai un fenomeno onnipresente nelle società occidentali. Non è una moda delle giovani generazioni: la ricchezza non si produce più con il lavoro, e il lavoro non porta più la prosperità che aveva sempre promesso. Qualsiasi lavoro, qualsiasi occupazione è diventata tossica perché rinchiude l’individuo in una forma di schiavitù mal pagata. In un tale contesto, è più che urgente riformare la scuola, tutte le scuole, ma soprattutto le università. Tutti i legami con il lavoro devono essere recisi. La scuola deve tornare ad essere uno spazio in cui ogni professione è sospesa, ogni idea del mondo messa in discussione, ogni sapere decostruito e riformato.

Le università dovrebbero finalmente ammettere che le conoscenze che abbiamo ereditato e custodito non ci permettono più di orientarci nel mondo. Il pianeta che abitiamo è cambiato: la natura non risponde più agli stessi ritmi di un tempo, l’ordine geopolitico continua a essere sconvolto, le tradizioni culturali sono state travolte dall’arrivo dei nuovi media che permettono a qualsiasi idea di circolare istantaneamente e di vivere solo quando circola. Invece di continuare ad illuderci che esista una classe di conoscitori del mondo il cui ruolo è quello di introdurre i più giovani all’esperienza del pianeta, dovremmo renderci conto che tutti abbiamo ancora bisogno di studio, e che l’unico modo per farlo è incontrarsi , regolarmente e collettivamente produrre conoscenza.
Non ci devono più essere insegnanti da una parte e studenti dall’altra: ci sono solo studenti, alcuni dei quali possono essere più esperti di altri, e che si fanno carico dello studio collettivo. Dobbiamo anche smettere di vedere l’università come il luogo in cui le generazioni si separano, dove i vecchi insegnano ai giovani. Le università devono diventare lo spazio della mescolanza delle generazioni, l’esercizio del loro reciproco apprendimento di cose che ancora non conoscono.
Occorre cambiare ritmo. Vedersi due ore alla settimana era forse una misura opportuna vent’anni fa: in una settimana non succedeva niente, e soprattutto le informazioni ricevute o prodotte avevano il tempo di assestarsi. Una settimana oggi sono tre mesi di qualche anno fa: gli tsunami di informazioni ed esperienze che ci travolgono ogni giorno rendono il ritmo settimanale del tutto obsoleto. Bisognerebbe vedersi per un’intera settimana, tutti i giorni, in modo flessibile e non statico per tante ore al giorno per fare un’esperienza significativa dal punto di vista umano e cognitivo.

Occorre cambiare la forma stessa della produzione del sapere: dobbiamo abbandonare il feticismo delle parole che ha trasformato tutte le università in templi dove il saggio detiene l’unica forma di verità. Oggi viviamo consumando immagini e comunicando attraverso le immagini: è imperativo che le università e non solo riconoscano che qualsiasi oggetto è in grado di trasmettere verità e che una performance, uno spettacolo teatrale, un videogioco, una fotografia, un film, un video o un’opera plastica hanno la stessa potenza e la stessa precisione di un saggio accademico.
Dovremmo finalmente sbarazzarci della più sterile delle strutture: la divisione tra scienze umane e scienze naturali, l’illusione che lo studio della natura (esseri viventi, fisica, chimica, informatica, matematica) implichi una visione diversa dell’umanità e della sua storia. L’essere umano non è una sfera separata dal cosmo. Siamo fatti della stessa materia del cosmo. Contrariamente costringiamo chi studia matematica o informatica a non sapere nulla di letteratura e continuiamo a pensare che chi studia sociologia possa fare a meno di un’idea precisa di cosa sia l’acido desossiribonucleico. Resiste una forma di snobismo ottocentesco che non possiamo più permetterci.
Chiudiamo le scuole e le università attuali. Creiamo qualcosa di nuovo.. Solo allora potremo orientarci nuovamente su questo pianeta.”

Traduzione e adattamento di Giuseppe Campagnoli

La meritocrazia. Un falso mito.

Mi sono fatto persuaso, come direbbe il Commissario Montalbano, che le questioni di meritocrazia di cui tanto si parla, a destra, a sinistra (!) in alto e in basso, nel lavoro, nell’amministrazione, a scuola, nelle università etc. siano falsi miti, pericolosi e iniqui nella sostanza. Il merito sembra essere diventato la foglia di fico del neo-neoliberismo a destra come nella sedicente sinistra.

Affinché il concetto corrente di merito possa essere valido e giusto dovrebbero essere assicurate alcune fondamentali propedeuticità: la parità di condizioni di partenza (economiche, culturali, sociali, di salute..) la parità di trattamento durante le attività (di lavoro, di apprendimento..), l’assenza di discriminazioni in base al sesso, alla razza, alle convinzioni religiose, ideali e politiche e l’assenza di ostacoli esterni e indipendenti dalla propria volontà. Chi sproloquia ad ogni angolo di merito ne tratta a prescindere dalle condizioni o ha tenuto conto dei requisiti basilari affinché sia garantita a tutti la libertà e l’eguaglianza nello svolgimento dei propri compiti e doveri? La meritocrazia credo, ahimè, che non possa prescindere, per come è strutturata la società in occidente e, peggio, in oriente e nel terzo mondo, dal concetto di competizione e competitività esasperate tutte legate al mercato ed alla classificazione anche quando si tratti di istruzione, salute, benessere e sicurezza.

Il merito legato alla competizione è quindi una parola d’ordine liberista e non libertaria, una parola d’ordine fondata sulle disuguaglianze e su parametri di giudizio livellanti e non adattabili alle diversità delle persone che dovrebbero essere considerate e salvaguardate.  Chi la usa non può definirsi progressista e liberal ma tuttosommato neppure pragmatico e concretamente positivo.. Da molte parti, partendo dal campo educativo e non solo si sta affrontando una rivoluzione culturale che tende a ridurre se non ad eliminare la competizione, nemica dell’apprendimento, del lavoro e del raggiungimento di obbiettivi di qualità, in netta controtendenza rispetto a quanto si è creduto finora. I risultati di tale inversione si stanno già apprezzando ma faticano molto ad affermarsi e diffondersi.

Poiché la natura, come si sa, non ama fare  salti sono convinto che ognuno abbia in nuce  uno o più talenti. Il compito della società è allora solo quello di aiutarci a scoprirli e valorizzarli, non invece quello  di premiare solo chi abbia avuto la fortuna, l’avventura o i mezzi di poterli utilizzare perché già palesi ed evidenti. Chi dà al massimo delle proprie capacità merita lo stesso compenso di chi ha avuto fortuna e talento. Questa è equità. Continua la lettura di La meritocrazia. Un falso mito.

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