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Una città educante. La storia dell’educazione diffusa: 2007-2023

Aggiorno e sintetizzo,una storia pubblicata in diverse puntate. Educazione, architettura, città, pandemia, guerra, libertà, le parole chiave.

L’Educazione diffusa è un progetto educativo nato con la pubblicazione nel 2017 del Manifesto dell’educazione diffusa. Il tutto dall’idea originale frutto, già nel 2016, dell’incontro tra Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli che firmarono, insieme o autonomamente, diversi volumi e articoli sull’argomento, realizzando anche innumerevoli  seminari, incontri, iniziative e progetti sperimentali in Italia e all’estero. Sono state coinvolte le Università di Milano, Macerata, Parma e Caen (Francia). L’idea è stata oggetto anche di una audizione presso la Commissione parlamentare Istruzione e Cultura nel 2020. Le ultime pubblicazioni sull’argomento sono: una specie di racconto giocoso (“La commedia della città educante”) dedicato alle traversie burocratiche delle sperimentazioni dell’educazione diffusa, un libro di Paolo Mottana intitolato “I tabù dell’educazione” e un saggio di Giuseppe Campagnoli in una prestigiosa rivista francese di filosofia dell’educazione: Le Télémaque dell’Università di Caen intitolato “L’educazione diffusa e la città educante”.

Uscita a dicembre 2023 anche un‘antologia di scritti di Giuseppe Campagnoli sull‘architettura della città e l‘educazione. Ora è in libreria un libro di Paolo Mottana dedicato alla costruzione di un “Sistema dell‘educazione diffusa“.

Tutto cominciò negli anni settanta, quando tra la progettazione di scuole materne, medie ed elementari ispirate a principi di apertura e di flessibilità degli spazi verso l’esterno, gli insegnamenti sulla città analoga che si autocostruisce collettivamente e determina il suo stile di Aldo Rossi, le letture di Ivan Illich e Paulo Freire e i ricordi personali della crescita in una scuola rurale con il metodo Freinet iniziò la mia storia di architetto, di insegnante e di direttore di scuole d’arte. Tanta strada da lì in poi fino alla pubblicazione del Manifesto della educazione diffusa e a tutto quel che ne è seguito.

La mia classe en plein air. Giuseppe Campagnoli 2013

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Avevo consolidato l’idea di cambiamento che era già in nuce nel libro “L’architettura della scuola” edito da Franco Angeli, Milano nel 2007. Il volumetto suggeriva, dopo anni di ricerche e progetti, una concezione innovativa degli spazi per l’apprendere. Era il momento di intraprendere la strada per un dibattito più ampio e, auspicabilmente, una sua sperimentazione concreta.

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  “ La città dice come e dove fare la scuola…il rapporto con la città, per l’edificio scolastico è anche una forma di estensione della sua operatività perché occorre considerare che la funzione dell’insegnamento ed il diritto all’apprendere si esplicano anche in altri luoghi che non debbono essere considerati occasionali. Essi sono parte integrante del momento pedagogico ed educativo superando così anche i luoghi comuni sociologici della scuola aperta con una idea più avanzata di total scuola o meglio global scuola dove l’edificio è solo il luogo di partenza e di ritorno, sinesi di tanti momenti educativi svolti in molti luoghi significativi della città e del territorio”.

“La staticità della conoscenza costretta in un banco, in un corridoio, nelle aule o nelle sale di un museo non apre le menti e fornisce idee distorte della realtà che invece è sempre in movimento.”

 L’ incontro cruciale, dopo qualche anno e tante ricerche sul tema, con il professore di filosofia dell’educazione a Milano Bicocca Paolo Mottana e la sua Controeducazione ha chiuso il cerchio magico della mia storia tra educazione ed architettura aprendo i “portali” dell’educazione diffusa.

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Girovagare per la città educante. Ma gli architetti dove sono?

Ma gli architetti dove sono?

In questo scorcio di tempo si sono moltiplicate le iniziative e gli incontri sull’educazione diffusa, persino in Brasile! A questo punto occorre fare un riassunto e un consuntivo tra la fine del 2018 , anno di pubblicazione del Manifesto e l’inizio del 2019. Si ripetono e si aggiornano le occasioni di presentazione del volume “La città educante.Manifesto della educazione diffusa” di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli, occasioni per discutere anche  gli approfondimenti e i suggerimenti progettuali contenuti nel Manifesto (operativo) della educazione diffusa. Nel frattempo si avviano iniziative di formazione per educatori, insegnanti e studenti, coinvolgimenti in workshop e seminari di associazioni, enti e gruppi di docenti e cittadini che hanno scoperto con interesse e voglia di cambiamento le idee dell’educazione diffusa. In questo ultimissimo periodo siamo stati, tra l’altro, a Milano e addirittura a Sao Paulo in Brasile con il corso di Paolo Mottana programmato ora anche in altre città, siamo stati invitati a Roma in un workshop di Save the Children dedicato alla dispersione scolastica, a Parma e Biella con la Biblioteca del CEPDI e l’Università di Parma, con il licei G&Q Sella di Biella e l’Osservatorio del Biellese dei beni culturali e del paesaggio. Ad ogni incontro c’è qualche passo avanti significativo e si registrano notevoli coinvolgimenti anche se le difficoltà, che non nascondevamo fin dall’inizio di questa avventura, persistono soprattutto in una certa forte diffidenza delle istituzioni pubbliche ma anche, in parte, della gente di scuola che non sa o non vuole ancora svestirsi delle male pratiche dei programmi, delle discipline, degli orari, delle classi, dei voti…

Ulteriore difficoltà, che persiste, sta nel mancato significativo coinvolgimento dell’architettura nelle sue vesti istituzionali, professionali e anche accademiche, nonostante i tanti tentativi di contatto. Sembra che quel mondo non riesca a proporre altro se non speculazioni edilizie più o meno dissimulate, la monumentalità del terzo millennio e il narcisismo di tante personalità diventate delle stars del sistema. Si continua a perseverare diabolicamente nel concetto di edilizia scolastica, seppure spacciata per architettura con il belletto degli open spaces, delle nuove tecniche e tecnologie, della prossemica e del design d’avanguardia, dei learning spaces esotici del Nord Europa, cooptando l’ignaro mondo della scuola con tanti specchietti per le allodole. Nei numerosi convegni che ho frequentato non ho mai trovato nulla che somigliasse all’idea della città educante che piano piano sostituisce gli edifici scolastici con altri luoghi dell’educazione, che vorrebbe progettare oggetti come i portali, le tane, le basi della educazione diffusa e ridisegnare e trasformare la città in tal senso. Non ho trovato chi proponesse di rinunciare ad inserire nel corpo vivo della città  oggetti estranei ed improbabili per concentrarsi sul recupero, sulla progettazione partecipata e collettiva, sulla lettura e interpretazione di ciò che la città stessa suggerisce per la propria crescita e trasformazione anche in funzione della conoscenza e dei saperi. Ma anche su quel fronte non vorremmo demordere e, oltre a riscrivere un piccolo ma denso essai  sull'”Architettura della città educante”  concentrato su come la città si possa trasformare con l’aiuto dei mentori-architetti che in tanti articoli e riflessioni ho citato, vorremmo organizzare qualche occasione di incontro proprio con gli architetti, le loro scuole e le loro associazioni, allo scopo di riflettere concretamente su queste tematiche. Qualche speranza era nata tra il 2016 e il 2018 a Cesena e a Pesaro nelle due occasioni di dibattito sui luoghi dell’apprendere, così come a Bolzano  durante un convegno sulla progettazione partecipata delle scuole o alla Fiera Didacta di Firenze che si rivelò in gran parte un mercato di banchi, cattedre e sussidi per una didattica obsoleta o per i reclusori scolastici.  Ma poi non ci sono stati coinvolgimenti significativi, anzi. Gli architetti non si sono visti dall’orizzonte della città educante se mai vi fossero stati per un attimo, lontani e sfuggenti. A volte hanno fatto  delle fugaci comparse per poi tornare alle loro occupazioni consuete. Li cercheremo ancora e li ritroveremo, perchè senza una città e un territorio trasformati non c’è vera educazione diffusa come benissimo sosteneva anche il nostro Colin Ward. Le città hanno luoghi abbandonati, edifici storici, spazi eccezionali che non aspettano altro se non di essere recuperati a nuova vita in una accezione anche educante e ci sono  forze vive pronte ad occuparsene se solo l’architettura ufficiale e professionale smettesse di essere autoreferenziale e di replicare le solite cattive pratiche del costruire ad ogni costo per il mercato, per i monumenti della politica o per la gloria delle riviste patinate

      

10 Marzo 2019

Giuseppe Campagnoli

 

 

La scuola diffusa. Una storia.

La scuola diffusa non può essere appannaggio del populismo che dice di essere per il popolo ma lo inganna e lo manipola. Non è la “buona scuola” ma neppure ciò che si profila come il dopo “buona scuola” conservatore e autoritario. La scuola diffusa non è l’educazione civica nelle scuole e neppure più soldi per i reclusori scolastici. Educazione è libertà di pensiero, di movimento, di accoglienza, di tolleranza. Educazione è libertà dai mercati piccoli e grandi. Non è meritocrazia e nemmeno controllo e valutazione. Educazione è una città nuova per tutti gli uomini e non solo per gli italiani. Meraviglia e sconcerta che molti insegnanti abbiano sostenuto i partiti del neo governo. Partiti che hanno condiviso un programma fondato sull’intolleranza, la finta lotta alle disuguaglianze, la difesa delle imprese piuttosto che dei lavoratori, l’omofobia e la deportazione dei migranti, degli zingari e dei derelitti (non vi ricorda qualcuno?), gli interventi conservatori e retrogradi sulla scuola.Partiti applauditi dai fascisti di CasaPound. Con certi insegnanti si potrà passare solo dalla brutta “buona scuola” ad una terribile “nuova scuola”.Mala tempora currunt.

Giuseppe Campagnoli 2 Giugno 2018

 

La scuola diffusa: oltre le  aule. Una storia da raccontare per riflettere

 

La mia classe en plein air. Giuseppe Campagnoli 2013

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E’ in crescita la ricerca sull’architettura per l’apprendimento e su quella che in Italia si chiama ancora edilizia scolastica e altrove education facilities o school building. Ma non tutto oro è quel che riluce e per mia esperienza ho constatato, come diceva Manfredo Tafuri, che almeno 9 libri su 10 vanno letti in diagonale. Non ho visto nella saggistica e negli esperimenti concreti in Europa e nel mondo nulla di veramente nuovo e rivoluzionario. Il cambiamento può nascere  da un’idea che era già in nuce nel mio libro “L’architettura della scuola” edito da Franco Angeli, Milano nel 2007. Il volumetto suggeriva una concezione innovativa degli spazi per l’apprendere. E’ il momento di intraprendere la strada per un dibattito più ampio e, auspicabilmente, una sua sperimentazione concreta.

 

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Nel capitolo  “I principi stilistici e architettonici per una progettazione non di maniera” del mio libro L’architettura della scuolasi legge, tra l’altro:  “ La città dice come e dove fare la scuola…il rapporto con la città, per l’edificio scolastico è anche una forma di estensione della sua operatività perché occorre considerare che la funzione dell’insegnamento ed il diritto all’apprendere si esplicano anche in altri luoghi che non debbono essere considerati occasionali. Essi sono parte integrante del momento pedagogico ed educativo superando così anche i luoghi comuni sociologici della scuola aperta con una idea più avanzata di total scuola o meglio global scuola dove l’edificio è solo il luogo di partenza e di ritorno, sinesi di tanti momenti educativi svolti in molti luoghi significativi della città e del territorio”. “La staticità della conoscenza costretta in un banco, in un corridoio, nelle aule o nelle sale di un museo non apre le menti e fornisce idee distorte della realtà che invece è sempre in movimento.”  Da qui, dopo quasi tre anni di studi e ricerche e la partecipazione ad un Concorso Internazionale bandito da Achitecture for Humanity: “The classroom for the future” hanno avuto origine i primi documenti teorici  sulla “Scuola diffusa” pubblicati su Educationdue.0 nel  2011 e nel 2012 cui hanno fatto seguito altri interventi su riviste specializzate e sulla stampa. Due piccoli pamplhet di architettura autoprodotti hanno completato il quadro. L’incontro cruciale con il professore di filosofia dell’educazione a Milano Bicocca Paolo Mottana e la sua Controeducazione ha chiuso il cerchio magico tra educazione ed architettura del nuovo millennio 

La scuola: Luogo o non luogo?

La scuola diffusa, Provocazione o utopia?

 Per Adolf Loos quando un uomo incontra in un bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione “poetica” della natura a opera dell’uomo quella è architettura. Il locus è un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati d’uso, di memoria, di racconti, di amore… Anche la scuola dovrebbe essere un locus: uno spazio pieno di storia e di poesia, senza tempo e senza artifici. Quella dell’edilizia scolastica in Italia è una vecchia storia come peraltro quella della scuola stessa che nessuna pseudo-riforma è riuscita ancora a rinnovare. La qualità delle pochissime buone pratiche cui si può attingere porta con sé sempre tre elementi: investimenti adeguati, organizzazione della didattica rivoluzionata, gestione delle scuole in mano a un unico Ente, obbligo nella progettazione di un team multidisciplinare con anni di esperienza sul campo della scuola. Gli edifici per l’educazione debbono essere nelle città e non nelle periferie ed essere riconoscibili dentro e fuori proprio come dovrebbe essere un monumento: una chiesa, un municipio, un teatro…Da qui la riflessione sugli architetti che non fanno tesoro dell’insegnamento della creatività e dell’amore per i luoghi importanti della nostra vita come quelli dedicati all’educazione privilegiando la funzione tecnica e le evoluzioni tecnologiche. Altra è la connotazione umanistica dell’architettura che si contrappone a quella del funzionalismo ingenuo che elude ogni valenza di natura formale e non soddisfa nemmeno i bisogni di funzionamento, se è vero che l’esigenza di dare significato ai luoghi dell’apprendere è interamente assorbita dalle banali ma ineluttabili questioni di sicurezza. Il luogo infatti sarebbe di per sé sicuro e protettivo se lo si pensasse avendo chiara l’idea di scuola e l’idea di architettura insieme legate dalla voglia di costruire spazi accoglienti, inclusivi e al tempo stesso stimolanti, mai completamente scoperti e spiegati per essere ogni giorno nuovi a chi li abita e li usa. La scuola è uno spazio fisico e intellettuale autonomo culturalmente e giammai asservibile a una efficienza meccanica: un ambito della scoperta e dell’introspezione, della comunione, del dialogo come della esigenza di solitudine e di riflessione che non è più l’aula e il corridoio ma forse la piazza e la strada, il portico e il cortile. Oggi gli spazi si sono progressivamente chiusi all’educazione, per radicalizzare i soli significati di istruzione e formazione e rinunciare alla vera creatività, confinando il fare arte tra le poetiche ed i linguaggi accessori e gli spazi al funzionalismo e al tecnicismo esasperato, come se l’aula con un computer su ogni banco trasfigurasse e sublimasse il suo valore banale di spazio fisico e cablato in un vero luogo. Nella scuola come in qualsiasi azione presente fin dall’origine dell’uomo che si è evoluto con l’apprendimento e la relazione non sono indifferenti i segni tangibili dell’“ intorno” in cui si apprende: poteva essere una foresta o una caverna, una capanna, un portico e un cortile, un chiostro, una basilica o un’abbazia: oggi può essere, altrettanto significativamente, uno spazio nuovo anche perché antico e ricolmo dei segni della storia dell’insegnare e dell’imparare a vivere.

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Oltre le aule

Bisogna superare l’edificio scolastico per un territorio complesso dell’apprendimento: la città scuola. Una provocazione che potrebbe diventare un modello di ricerca per la scuola del futuro. Non si tratta di una novità in assoluto, perché, sostanzialmente, allo stesso concetto si ispirava la scuola del Medioevo, quella del palazzo e del monastero, della biblioteca e del chiostro, quellascholacome otiumche raramente coincideva con un unico luogo fisico. In realtà, luogo dell’apprendere potrebbe essere realmente la città tutta e il territorio. L’aula sarebbe aperta al mondo e composta da mille stanze diverse e dedicate, dall’universo fisico a quello virtuale del web. Oggi si fatica a tollerare la scuola in un unico edificio. La scuola non è statica ma, quasi per etimologia, dinamica nello spazio, oltre che nel tempo. Le modalità di fruizione delle informazioni, di apprendimento e di applicazione pratica mal sopportano i muri e i limiti di un unico luogo deputato. L’architettura e l’educazione dovrebbero adeguarsi alle nuove esigenze della conoscenza e della crescita delle persone: non possono essere le stesse nei secoli. Aldo Rossi, con i suoi insegnamenti, mi convinse che l’architettura disgiunge, nel tempo, la forma dalla funzione: non c’è miglior modo di concepire gli spazi per eccellenza, quelli dell’imparare. Da una idea di architettura e di scuola che coincidono, nasce forse una utopia che potrebbe, nel tempo, diventare una splendida realtà. Per le scuole di livello base o intermedio, sarebbe sufficiente concepire quotidianamente un orario di prossimità, con un sistema di trasporto integrato che consentisse di trasferire gli alunni, anche in continuità verticale (negli stessi luoghi e laboratori studenti dalle elementari alle superiori, a volte anche insieme!), ogni giorno in un posto diverso a seconda delle necessità di apprendimento e di applicazione. Naturalmente la scuola andrebbe riorganizzata in modo estremamente flessibile, per superare tutte le rigidità dovute anche a una normativa disforica sulla sicurezza, che assimila, tout court, i luoghi per l’apprendimento ai luoghi di lavoro, con tutte lelimitazioni del caso. Riuscendo a concepire un insieme di regole ad hoc, e adattando i diversi spazi della città alla frequentazione di classi e gruppi di scolari e studenti, si muterebbe l’idea di scuola attuale, tutto sommato ancora fissa negli spazi e nei tempi. Ogni luogo pubblico della città (municipio, biblioteca, mediateca, laboratori, università) avrebbe spazi dedicati e attrezzati per fare scuola, e consentirebbe a gruppi di discenti di non fossilizzarsi per ore nello stesso ambito, sempre di fronte alla medesima lavagna, allo stesso panorama. Sarebbe sufficiente solo un edificio-base, che fungesse da manufatto simbolico, una specie di portale di ridotte dimensioni, ubicato in una parte significativa e centrale della città, con servizi amministrativi e luoghi di riunione non specializzati; esso potrebbe rappresentare la stazione di partenza verso le aule virtuali e reali sparse nel territorio, un luogo di rendezvousall’inizio della giornata di studio. L’edificio–scuola, così come oggi concepito, lascerebbe il posto a una costruzione che fa da ingresso a una sorta di parco della conoscenza, sostituto innovativo delle aule tradizionali e degli spazi specializzati che, ahimè, ancora oggi altro non sono se non aule diversamente arredate e attrezzate.

 Una bibliografia  minima.

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La scuola senza mura

L’errore sta nel pensare per edifici dedicati e separati, nel far coincidere la scuola con un manufatto. Le aule, i laboratori, le palestre sono già nel territorio: basta adattarli, collegarli e usarli. Molti oggi restano ancora aggrappati all’edificio e timidamente si spingono a superare il concetto di aula, arredo, corridoio, cosa già fatta nel 1914 nel saggio «Chiudiamo le scuole» dal discusso Giovanni Papini scrittore e saggista dei primi del novecento. Perché non raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura? Ora si tratta di passare ai fatti. Provare a simulare una scuola senza mura in una vera città coinvolgendo tutti gli attori possibili. Nel volume “Oltre le aule” c’è un incipit di proposta concreta e una possibile strada per verificarne la fattibilità. La pedagogia, l’urbanistica e l’architettura dovranno essere gli attori principali. Quando Papini scriveva “chiudiamo le scuole” intendeva che dovessero essere riaperte altrove e in altro modo per fare una educazione diversa, a volte “contro” ed una architettura diversa, a volte “ultra”. Confesso che l’idea è complessa e prefigura per la sua attuazione una diversa organizzazione di tempi e luoghi della scuola. Autonomia scolastica, flessibilità, tempi scuola, non possono affatto innovarsi se irrigiditi in aule, corridoi, uffici, laboratori inflessibili e per nulla in osmosi con il territorio. E’ tempo di cambiare veramente la prospettiva e tornare ad una specie di scuola peripatetica. Possibile, auspicabile, moderna. Per preparare una simulazione in un contesto reale e statisticamente compatibile del progetto di scuola diffusa sarebbe necessario assicurarsi la collaborazione dell’amministrazione di una città di media grandezza, dei gestori della di mobilità, di una Scuola di Architettura e una di Scienze della Formazione e di almeno una scuola per ogni segmento (Infanzia, Primaria, Secondaria di primo e secondo grado). Da queste premesse si potrebbe iniziare a progettare un intervento sperimentale che possa fornire dati attendibili sulla fattibilità dell’idea e sulla sua esportabilità in contesti diversi, più ampi e magari di grandi aree metropolitane. La scuola non è un ghetto in periferia, non è un luogo chiuso da muri e comparti, non è un edificio unico e monolitico, la scuola è diffusa ed en plein air. L’incontro di affinità elettiva con il Prof. Mottana, mi ha spinto a prefigurare uno scenario condiviso in funzione di una educazione rivoluzionata insieme ai suoi luoghi, una controeducazione in una ultraarchitettura per nuove concezioni dell’istruzione e la cultura. Cento anni fa condurre tutti all’alfabetizzazione era un’ utopia. Come far giungere il messaggio educativo in tutto il territorio. Spero che anche quella di liberare chi apprende e chi insegna dai muri e dalla staticità, diventi nel tempo una realtà. In quell’accezione  di scuola che si riferisce più al tempo che allo spazio.

 

Allegoria della città-scuola. Giuseppe Campagnoli. Seminario CDE Cesena 12 Settembre 2016.

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Brani da “La città educante. Manifesto della educazione diffusa di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli e “Il disegno della città educante” di Giuseppe Campagnoli

“Immaginiamo che scelgano. Che nelle infinite possibilità di esperienza che il mondo rivela ad ogni passo essi scelgano. Scelgano di fermarsi in un giardino a chiacchierare o giocare. Scelgano di entrare in un supermarket, in un cinema, in una bottega. A vederli in circolazione liberi, senza adulti al seguito, ci sarebbe sconcerto, allarme, qualcuno chiamerebbe la forza pubblica perché dei minori si muovono indipendenti nella città, nella strada, a gruppi, a bande, a coppie, solitari. Noi non siamo più abituati a vedere bambini e bambine, ragazzi e ragazze che solcano lo spazio pubblico, da molto tempo sono stati confinati in luoghi speciali, sotto scorta, sotto vigilanza. Noi non siamo più abituati alla presenza invadente e talora insolente dei giovani e dei giovanissimi. Noi che li abbiamo posti a distanza. Che a suo tempo fummo posti a distanza, al confino, nelle mani di persone che nella maggior parte dei casi non avevano né rispetto né comprensione per noi, per loro. Ma occorre cambiare, capovolgere questo modo carcerario di intendere l’educazione. Occorre che essi possano tornare ai luoghi da amare, alla città anzitutto, che è un insieme di luoghi per apprendere, cercare, errare (l’errore!) osservare, fare e conservare per condividere, riconoscersi  riconoscere.

Le buone e belle scuole: memento

Le brutte scuole. Ancora Giovanni Papini in tempi in cui l’archi- tettura c’era ancora, accomunava la desolazione degli edifici pubblici collettivi. Il luogo comune delle costruzioni di degenza si perpetua nei comportamenti, negli spazi, negli arredi! Letti, banchi e cattedre, corsie e corridoi, sale d’attesa, uffici e sportelli, ambulatori e deambulatori! I ritmi scanditi dalle aule e dalle camerate, dai corridoi e dai gabinetti.  La modernità ha peggiorato la situazione perché ha solo imbellettato e sovrastrutturato di tecnologie e di gadgets gli stessi spazi, gli stessi arredi, le stesse forme che denunciano gerarchia e potere. Nemmeno le innovazioni pedagogiche o didattiche sono state capaci di modificare significativamente il tradizionale, ottocentesco modello: aule, corridoi, servizi… Se si prova a viaggiare nell’Italia scolastica ne sortisce uno stereotipo spaziale, superato solo da qualche rara eccezione, in cui collochiamo volentieri anche l’esperienza degli spazi suggeriti dal metodo di Maria Montessori, che si può descrivere in un racconto di avvicinamento, di accoglienza, di percorso, di uso. Il luogo dove sorge la scuola è spesso periferico o acquartierato, il verde minimale, i graffiti malamente fatti e rifatti in molte pareti (ve ne sarebbero anche di pregio se i muri lo meritassero!) Come al tempo dei romani gli studenti cercano di firmare ciò che non ritengono familiare e confortevole con graffiti, scritte, epiteti, slogan: un grido di dolore! Nelle periferie scolastiche le ampie finestrature a nastro nelle pareti squadrate e tecnologiche con ampio uso di cemento e prefabbricati, gli infissi in ferro o alluminio, denunciano la poca attenzione all’estetica, al comfort, al risparmio energetico anche nelle opere inaugurate di recente, seppure progettate più di un decennio fa.

Il disegno della città educante. Minuta

Diffondere l’educazione

Sostanzialmente quello di un secolo fa. Statico, fisso, sclerotico. Non continuiamo, come si dice a Napoli, a scrufugliare sull’esistente ormai morto o sull’ennesima finta riforma epocale attraverso convegni, seminari, pubblici incensi ed autoreferenzialità. Si abbia il coraggio di assecondare la fantasia esperta ed un sogno per vedere dove ci possono portare. Basta con le belle scuole. La città tutta è una bella scuola e forse anche sicura. È assolutamente necessario ricorrere a un po’ di fantasia e utopia e anche a un po’ di realtà per provare a cambiare, mentre ahimè quasi tutti, esperti compresi, restano ancora aggrappati all’edificio e timidamente si spingono a superare il concetto di aula, arredo, corridoio. Tutte cose tra l’altro ampiamente contestate a inizio del 900 sia dalle pedagogie nuove, con i loro laboratori, le aule all’aperto, le tipografie ecc., o più radicalmente da figure, tra le molte, come quella di Giovanni Papini, nel suo “Chiudiamo le scuole” del 1912. Perché non raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura? Come quando, un tempo, forse più di oggi, le vere aule erano il campo, il ruscello, il cortile, la strada, la piazzetta e i nostri mèntori erano tanti altri maestri oltre a quello ufficiale, formale, non scelto. Realisticamente l’edificio scolastico attuale potrebbe divenire la porta di accesso a tanti e diversi luoghi dove apprendere per ogni cittadino in fase di educazione formale o informale che sia. Ogni città potrebbe avere un “monumento” che conduce a di- versi spazi culturali del territorio urbano, rurale, montano, marino, reale o virtuale, in un sistema complesso dove si applichi il motto mai superato “non scholae sed vitae discimus” . Sgombriamo il campo dall’equivoco secondo cui esistono solo spazi specializzati e funzionalmente dedicati all’apprendimento e alla cultura anche istituzionali. Ecco allora la “scuola diffusa”, intendendo per “scuola” il tempo dedicato alla scoperta, alla ricerca, al gioco, al tempo libero, alla crescita. È tempo di una nuova scuola dell’arte e di un’arte della scuola: questo accadrà quando la mente sarà libera da burocrazie quotidiane e pianificazioni scolastico-aziendali e si riuscirà a pensare che la memoria dei veri maestri del fare poeticamente l’architettura della scuola anch’essa ahimè divenuta preda del mercato, è la stessa del “fare scuola”. Progettare con la storia, con l’amore per l’anima dei luoghi e con quell’idea dell’imprevisto prevedibile e poetico, dell’immaginazione e della creatività è l’agire più prossimo alla relazione umana che della scuola deve essere il fondamento. La scuola è infatti spazio fisico e intellettuale autonomo culturalmente e giammai asservibile a una efficienza meccanica: un ambito della scoperta e dell’introspezione, della comunicazione, del dialogo come della esigenza di solitudine e di riflessione che non sono più l’aula e il corridoio ma forse la piazza e la strada, il portico e il cortile. Come in qualsiasi azione presente fin dall’origine dell’uomo che si è evoluto con l’apprendimento e la relazione, non sono indifferenti i segni tangibili dell’ “intorno” in cui si apprende: poteva essere una foresta o una caverna, una capanna, un portico e un cortile, un chiostro, una basilica o un’abbazia: oggi può essere, al- trettanto significativamente, uno spazio “nuovo” anche perché “antico” e ricolmo dei segni della storia dell’insegnare e dell’imparare a vivere.

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“Ora entriamo in quella che lei definisce la “Casa Matta”, ci specifica che si scrive con la C e la M maiuscole, una delle cinque basi o tane dove si riuniscono le ragazze e i ragazzi e le bambine e i bambini per ritrovarsi con i mèntori e per prendere decisioni, discutere, concordare progetti…Nel racconto del viaggio guidato dentro la città educante molti sono i luoghi da disegnare e da ridisegnare. Quasi la città nella sua interezza ed il suo intorno ambientale sono da riconcepire. Occorre ora mettere nero su bianco, nel senso del disegno anche solo raccontato e non necessariamente costruito come faceva Aldo Rossi. Ho preso i miei appunti e disegnato scene e luoghi nel viaggio breve con Paolo Mottana seguendo le sue parole e le sue considerazioni. Ho anche riletto in modo profondo ed attualizzato “La città giardino del domani” di Ebenezer Howard. Di due splendide utopie si può fare una realtà. Per trasformare la città e la campagna in città educante occorre intervenire anzitutto nei luoghi su cui posare una nuova organizzazione di quella che una volta chiamavamo scuola perché non sia più distinta e separata dalla vita quotidiana e dai suoi personaggi e perché sia quel motore della conoscenza e della crescita che alla città manca da tempo. Il viaggio dell’ultimo capitolo del libro “La città educante. Manifesto della educazione diffusa” fa intravvedere come potrebbe essere questa città del futuro che non separa più l’urbanitas dalla campagna ma nemmeno la scuola dalla città e dalla campagna, la vita intera da tutte le sue mirabili varianti. Per poter prefigurare la vera città educante sarebbe necessario non separare più la città da una campagna abbandonata a sé stessa o allo sfruttamento selvaggio dei latifondi o lasciata alle disforie degli improvvisati borghesi agricoltori radical chic o dei falsi agriturismo. L’educazione si gioverebbe del fatto di avere a disposizione spazi urbani qualificati insieme a spazi rurali e selvatici tornati alla sostenibilità delle colture e della vita agreste. Sarebbe un male riprendere in mano l’utopia della città giardino del futuro e usarla per costruire un modello di città educante del futuro con tutti gli adattamenti e aggiornamenti necessari? Nel tentativo di fare un esperimento in una città vera, anche se piccola, sarebbe utile immettere quei germi positivi presenti in nuce nelle idee di Howard e dei suoi epigoni. Si tratta di sgombrare il campo all’organizzazione eccessiva ed alle rigidezze disegnative e simboliche da città ideale cinquecentesca per sovrapporre una rete di connessioni virtuose e di nodi e portali significativi tra il verde e il costruito, tra i campi e i boschi, tra i monumenti e i cespugli. Il giardino urbano si fa campagna e viceversa un po’ come avviene ancora per il Phoenix Park di Dublino, con le greggi in città e i cittadini in campagna senza soluzione di continuità tra una piazza e una radura, un bosco e un rondeaux. Le chiameremo le campagne urbane perché sono macchie di verde coltivato o selvaggio di collinette e di radure che contaminano il costruito e lo permeano di vita naturale e di orti urbani all’ennesima potenza. L’educazione qui è di casa più che tra i muri degli edifici, più che nelle piazze e nelle strade.La trasformazione di musei, teatri, biblioteche, castelli, botteghe e laboratori in portali e aule diffuse.

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Da tempo stiamo girando e disegnando attorno a questi oggetti strani e misteriosi inseriti nella città accanto ai suoi edifici storici e ai suoi spazi emergenti (le piazze, i viali, le corti) in diverse occasioni virtuali dove hanno interpretato spazi diversi e multiformi, dal caffè letterario, all’internet point, dal laboratorio alla serra urbana, dalla biblioteca di quartiere all’aula vagante. Prendiamo le mosse dalla città “per parti” o da un piccolo borgo che è già di per sé una parte e un tutto. Identifichiamo i luoghi, i percorsi e le basi di partenza. Identifichiamo gli edifici e il costruito virtuoso che possano fungere da basi, tane, radure, piazze dell’educazione. In una prima fase i gruppetti (le classi che sperimentano o i gruppi visti orizzontali o verticali) si muoveranno sempre di più nell’arco della giornata e con il loro mèntore dal portale collettivo verso tutte le “aule” diffuse dove troveranno, esperti, sapienti ed amici più grandi che soddisferanno le loro curiosità e la loro ricerca aiutandoli nel contempo a conoscere e apprendere. In una prima fase i portali potranno essere edifici contigui ed integrati composti di vecchie scuole riadattate, biblioteche, auditorium, manufatti che prima erano una cosa e ora ne saranno un’altra.

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Il quartiere educante

Quando studiavo la parte di città con Aldo Rossi e le caratteristiche di autonomia e di correlazione insieme con tutto l’organismo urbano si poteva pensare ad una mini town autosufficiente. Una parte di città potrebbe essere un quartiere che nella nostra idea urbana educante contiene in sé il portale, le vie e i luoghi dell’educare in stretta connessione e interscambio con gli altri portali e le altre reti della città. Cominciamo per semplicità da un quartiere. Compito dell’architetto educante è quello di disegnare o ridisegnare i luoghi e i loro nessi insieme a chi governa la città. Compito dell’educatore e dell’amministratore scolastico (finchè duri) sarà quello di pensare alla organizzazione, ai tempi, alle aree educative, ai mentori e agli esperti, alla gestione e alla discreta organizzazione. La base o il portale educativo è un luogo multifunzionale di raccolta e di partenza dei gruppi. Può essere un complesso di biblioteche, auditorium, ateliers, piccoli laboratori aperti, piazze e cortili. Qui si ritrovano le “orde” di assetati di conoscenza e da qui partono per le “aule diffuse” a svolgere le attività concordate per la giornata secondo un canovaccio plurisettimanale annotato solo allo scopo di non sovrapporre i gruppi ai luoghi disponibili. I gruppi di bambini che stanno apprendendo a leggere, scrivere, osservare la natura, disegnare, scolpire, suonare e far di conto si ritroveranno sparsi per la città ora in una biblioteca, ora in un museo, ora in un giardino dove ci saranno spazi accoglienti e pronti all’uso. I teams di ragazzi della fascia di età tra i 10 e i 14 anni sono impegnati nelle loro ricerche per argomenti trasversali mentre i giovani tra i 14 e i 19 anni si divertono a risolvere problemi di diversa natura attingendo ai media, alle risorse delle biblioteche multimediali, ai laboratori, alle botteghe ed agli archivi storici e scientifici. Non sarà difficile per una amministrazione municipale e scolastica svestite di burocrazia, per associazioni di cittadini e lavoratori volonterose e realmente no profit, e per una città aperta, capace e laboriosa organizzare giornate, settimane, mesi di educazione diffusa. Le formule e le soluzioni non sono già pronte all’uso, ogni realtà è diversa, ogni gruppo è diverso, ogni persona è diversa e l’educazione come l’insegnamento debbono giocoforza essere personalizzate e multiformi. Non c’è un ricettario dell’educazione diffusa. C’è uno scenario ideale dove collocare le diverse esperienze di volta in volta ed organizzare le persone, i luoghi il tempo e le cose da fare e da imparare a fare. Si sa che occorre nel tempo chiudere i reclusori scolastici, moltiplicare le occasioni di uso collettivo dei luoghi della città adattandone gli spazi e rendendoli pronti ad accogliere 24h su 24 i flussi di cittadini in formazione, da 0 a cento anni.

Giuseppe Campagnoli 19 Maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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