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Edilizia scolastica 3.0

 

Ci saranno la bandiera, il prete, il sindaco, gli assessori il, maresciallo, il provveditore. Tutto come prima, tutto come sempre. E’ sorto un nuovo casamento scolastico di quelli che già ai primi del ‘900 aborriva Papini in funzione della libertà dei luoghi  dell’ educare, del riabilitarsi, del curarsi. E nella mente di ciascun cittadino  dovrebbero sorgere spontanee queste domande:

  • Quali sono gli aspetti innovativi in termini pedagogici e architettonici dell’edificio costruito?
  • Qual è la valenza ecologica e sostenibile in relazione ai materiali costruttivi e agli arredi scelti?
  • Quanto è costata la demolizione del vecchio edificio e quanto la ricostruzione del nuovo “chiavi in mano”?
  • Sono stati stipulati mutui e finanziamenti per sostenere i costi? Per quanti anni? E per quale cifra annua?
  • Per quanto tempo è stato garantito l’edificio?
  • Quali sono i costi annui di gestione e manutenzione?
  • Era ineluttabile la costruzione di nuova edilizia scolastica?
  • Non si poteva avviare un processo, forse più lungo ma sicuramente più economico e  innovativo per tutta la città, di educazione diffusa?
  • Chi ha firmato il progettato dell’architettura?
  • Quali sono i principi architettonici e pedagogici ispiratori dell’opera?
  • La ricollocazione dell’edificio nello stesso quartiere e nello stesso sito potrà migliorare la viabilità e l’impatto urbanistico generale già problematico da tempo?

Le risposte ci saranno, saranno chiare, pubbliche e tempestive?

La primavera porta l’ennesima inaugurazione di un nuovo reclusorio scolastico (leggasi scuola elementare) che quasi per una provocazione del destino è stato ricostruito sotto le mie finestre, per riprendere il contenuto di una lettera che inviai, rigorosamente in par condicio ad alcuni sindaci (di vari orientamenti politici ma di pari orientamento veteroculturale) della mia provincia, che si sono voluti cimentare nella costruzione di nuovi monumenti all’istruzione mercantile. Ricordo la lettera e il commento  che inviammo qualche mese fa con una copia del libro “La città educante. Manifesto della educazione diffusa. Per oltrepassare la scuola”. Ahinoi non siamo stati degnati di alcuna risposta e nessun commento nella miglior prassi di trasparenza e dialogo.

“Spettabile amministrazione,

così come ho fatto con altre città, sindaci e assessori propongo la lettura del volumetto che allego in omaggio con la speranza che ci si decida in futuro ad intraprendere la strada della educazione diffusa evitando lo scempio della costruzione di nuovi reclusori scolastici. Qualche amministrazione illuminata e rivoluzionaria già ci sta pensando e in molte realtà come Milano, Monza, Cosenza, Genova, Urbino, Cattolica, si stanno muovendo iniziative dal basso (genitori, insegnanti, cittadini) per sperimentare forme di educazione diffusa in luoghi diversi dagli obsoleti edifici scolastici. E’ un dono per le feste d’inverno di cui spero possiate far tesoro.” “Si moltiplicano le occasioni di uscire dalle aule scolastiche ma, ahinoi, si deve ad un certo punto inesorabilmente rientrarvi. Se non si identificano, trasformano e rivoluzionano i luoghi della città che potrebbero fare da scenari per ospitare l’educazione diffusa, temo che il nostro Manifesto possa restare ancora per molto sulla carta. Bisogna convincere e vincere le resistenze dell’apparato politico, scolastico e amministrativo e “costringerlo” in qualche modo a fare dei passi significativi verso la direzione di una città che educa. Se da una parte si insiste pervicacemente sull’aria fritta e sull’idea ancora mercantile e classiJcatoria della Buona scuola e dall’altra, come splendidi carbonari, si fanno esperimenti di educazione diffusa e progetti decisamente rivoluzionari, spesso con rischio di predazione e strumentalizzazione da parte di certa politica da folla manzoniana ma di dubbia valenza libertaria, le strade rimarranno divergenti e vincerà ancora quella falsamente innovativa delle tre “i” e delle tre “c” (inglese, informatica e impresa; conoscenze, competenze e capacità). Quando siamo stati ospitati, raramente, in qualche consesso istituzionale, per illustrare il nostro Manifesto si aveva la forte impressione di essere gli eccentrici fricchettoni di turno che facevano audience e stimolavano la curiosità per un attimo di divagazione dalle cose “serie”. Occorre infiltrarsi e contaminare attraverso progetti e interventi sempre più frequenti, reali e diffusi gli spazi lasciati liberi e contemporaneamente ma decisamente agire per trasformare la città, contrastando la costruzione di nuovi reclusori scolastici a favore della realizzazione dei portali della città educante e della trasformazione degli spazi che hanno in nuce la vocazione alla controeducazione come le piazze, le strade, le biblioteche, i musei, i teatri, le botteghe…”

Resta la speranza che si cominci da qualche parte a sperimentare altre strade architettoniche, anche se, per il momento, sembra che si voglia perseverare diabolicamente nello sprecare risorse per demolire, progettare e costruire scuole su scuole anche come monumenti propagandistici per le amministrazioni di turno. Quando abbiamo provato prima timidamente e poi un po’ meno a far presente che ci sarebbero altre strade più innovative ed efficaci, oltre che economicamente sostenibili, siamo stati nella migliore delle ipotesi ignorati o snobbati. Così va il mondo da queste parti. Le nuove scuole, sulla scia dello slogan delle belle scuole governative, in fin dei conti sono anche architettonicamente ed esteticamente discutibili, falsamente ecosostenibili (dove si prende il legno? e le tonnellate di cemento e ferro per fondazioni ridondanti?..) nelle loro forme che scimmiottano un opificio, un centro commerciale, un albergo o una stazione, non certo un luogo d’educazione.

Giuseppe Campagnoli

14 Aprile 2018

Ecco un collage di immagini di una scuola “senza corridoi, senza aule, ecologica, innovativa, architettonicamente di pregio” accanto a quelle di una scuola della fine degli anni ’70 che all’epoca veniva considerata innovativa. Infine immagini di edilizia scolastica accanto ad immagini di edilizia carceraria. Infine è opportuno un suggerimento per alcune letture che non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio culturale di qualsiasi amministratore locale e che proponiamo in coda al presente articolo. Ai posteri l’ardua sentenza? No, bastano i contemporanei.

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2018

 

Edilizia scolastica e carceraria

 

Bibliografia minima

  • Campagnoli Giuseppe (2007) L’architettura della scuola Franco Angeli Milano
  • Mottana Paolo (2012) Piccolo Manuale di controeducazione Mimesis Milano
  • Mottana Paolo e Giuseppe Campagnoli (2017) La città educante. Manifesto della educazione diffusa. Asterios Editore Trieste
  • Mottana Paolo e Luigi Gallo (2017) L’educazione diffusa Dissensi Edizioni Viareggio (LU)
  • Howard Ebenezer (2017) La città giardino del domani Asterios Editore Trieste
  • Agnoli Antonella (2014)Le piazze del sapere Editori Laterza Bari
  • Marcarini Mariagrazia (2016) Pedarchitettura Edizioni Studium Roma
  • Weyland Beate e Attia Sandy (2015) Progettare scuole, tra pedagogia e architettura Guerini Scientifica Milano
  • Giovanni Papini Chiudiamo le scuole. 1912

A proposito di scuola diffusa anticipiamo che  un convegno a Milano in Maggio sarà dedicato all’esperienza del “Quartiere educante” tra educazione, architettura e città. Noi saremo ospiti e testimonials.

In anteprima vi proponiamo il manifesto provvisorio in attesa di quello definitivo che verrà pubblicato a breve.

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Anteprima del “Disegno della città educante”. Appunti prima dell’uscita del libro tra architettura ed educazione.

Il Disegno della città educante. Anteprima 

Il racconto della costruzione di un’ architettura per la città dell’educazione diffusa.

Di Giuseppe Campagnoli (2017)

 

 

Nel racconto del viaggio guidato dentro la città educante molti sono i luoghi da disegnare e da ridisegnare. Quasi la città nella sua interezza ed il suo intorno ambientale sono da riconcepire. E’ tempo di mettere nero su bianco, nel senso del disegno anche solo raccontato e non necessariamente costruito come faceva Aldo Rossi. Ho preso i miei appunti e disegnato scene e luoghi nel viaggio breve con Paolo Mottana seguendo le sue parole e le sue considerazioni. Ho anche riletto in modo profondo ed attualizzato “La città giardino del domani” di Ebenezer Howard. Di due splendide utopie si può fare una realtà.  Per trasformare la città e la campagna in città educante occorre intervenire anzitutto nei luoghi su cui posare una nuova organizzazione di quella che una volta chiamavamo scuola perché non sia più distinta e separata dalla vita quotidiana e dai suoi personaggi e perché sia quel motore della conoscenza e della crescita che alla città manca da tempo. Il viaggio dell’ultmo capitolo del libro “La città educante. Manifesto della educazione diffusa” fa intravvedere come potrebbe essere questa città del futuro che non separa più l’urbanitas dalla campagna ma nemmeno la scuola dalla città e dalla campagna, la vita intera da tutte le sue mirabili varianti. Per poter prefigurare la vera città educante sarebbe necessario non separare più la città da una campagna abbandonata a sé stessa o allo sfruttamento selvaggio dei latifondi o lasciata alle disforie degli improvvisati borghesi agricoltori radical chic o dei falsi agriturismo. L’educazione si gioverebbe del fatto di avere a disposizione spazi urbani qualificati insieme a spazi rurali e selvatici tornati alla sostenibilità delle colture e della vita agreste. Sarebbe un male riprendere in mano l’utopia della città giardino del futuro e usarla per costruire un modello di città educante del futuro con tutti gli adattamenti e aggiornamenti necessari? Nel tentativo di fare un esperimento in una città vera, anche se piccola, sarebbe utile immettere quei germi positivi presenti in nuce nelle idee di Howard e dei suoi epigoni. Si tratta di sgombrare il campo all’organizzazione eccessiva ed alle rigidezze disegnative e simboliche da città ideale cinquecentesca per sovrapporre una rete di connessioni visrtuose e di nodi e portali significativi tra il verde e il costruito, tra i campi e i boschi, tra i monumenti e i cespugli. Il giardino urbano si fa campagna e viceversa un po’ come avviene ancora  per il Phoenix Park  di Dublino, con le greggi in città e i cittadini in campagna senza soluzione di continuità tra una piazza e una radura, un bosco e un rondeaux. Le chiameremo le campagne urbane perché sono macchie di verde coltivato o selvaggio di collinette e di radure che contaminano il costruito e lo permeano di vita naturale e di orti urbani all’ennesima potenza. L’educazione qui è di casa più che tra i muri degli edifici, più che nelle piazze e nelle strade.

Non sarebbe impossibile già da oggi partire da una piccola città e pianificarne lo sviluppo e la trasformazione virtuosa in città educante utilizzando in chiave moderna anche il modello della città giardino. Delle linee guida sulla evoluzione degli spazi e sul loro uso potrebbero avviare il processo anche dal basso. In un paese a fortissima vocazione agricola, turistica e culturale con un ambiente naturale particolare come l’Italia si dovrebbe in primis rinunciare una volta per tutte all’industria pesante e ad alto impatto ambientale che tanti danni ha provocato in termini sociali, economici ed ecologici con il falso mito del benessere e della crescita che si sono rivelati effimeri e catastrofici. Solo stabilimemnti di trasformazione leggera dei prodotti sostenibili riferiti ai tre settori vocazionali di cui si è detto, un terziario non invadente, e un settore tecnologico compatibile in un bagno di  educazione ad ogni angolo, soni il fondamento e la conditio sine qua non per il successo di questa idea di città. Un’avanguardia di sviluppo socialmente sostenibile dove non ci sia più bisogno di ascensori sociali o culturali per equilibrare le differenze di classe ed economiche che ancora esistono e diventano più sensibili. Si combatterebbe la spinta al profitto per la condivisione e la cooperazione in tutti i campi. Niente reddito di cittadinanza che potrebbe scivolare nell’assistenzialismo e nell’opportunismo ma lavoro per tutti ed educazione per tutti secondo i propri bisogni e le proprie aspirazioni e secondo una distribuzione equa e razionale delle risorse e del fabbisogno del territorio programmando le figure professionali in base alla realtà, anche europea. Un sogno? Non per chi sia disposto a rinunciare all’individualismo, alla competizione ed al falso mito della meritocrazia inventata dal mercato per mettere gli uni contro gli altri in una violenza sottile e a volte subliminale. Il potere, politico, laico, religioso o economico che sia si è sempre espresso e, ahimè, si esprime ancora, attraverso i suoi monumenti che vuole immutabili e celebrativi. I municipi, i parlamenti, i castelli, le chiese, le moschee, le scuole, i centri commerciali e i financial buildings rappresentano spesso  il dominio della politica, dell’economia e anche della cultura  di pochi sui tanti.La vendetta che la storia e le trasformazioni urbane si sono prese nel tempo ha fatto sì che un convento diventasse una scuola, una chiesa un teatro, un castello un museo. Ma questo non basta. Occorre che i luoghi e i manufatti non diventino mai dei monumenti ma crescano e si trasformino con la città per rispondere ai bisogni dei suoi abitanti e non dei suoi temporanei padroni. Allora è bene che non vi siano più degli edifici a senso unico, dedicati rigidamente ed esclusivamente  alla funzione dominante, sia essa espressa attraverso una scuola, un teatro, un centro commerciale.

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E’ finito il tempo delle tipologie d’uso e delle funzioni esclusive. Ora bisogna pensare alle forme ed agli spazi e al loro valore disgiunto dall’uso temporaneo. E per temporaneo non intendo secoli o anni, ma  solo giorni, ore e minuti. La tecnologia e il web in questo, paradossalmente, se usati bene ci possono aiutare mirabilmente. Allora si sarebbe connessi non per le perverse ed inutili funzioni dei social ma per lavorare, imparare, giocare, curarsi in qualsiasi luogo della città che sarà accogliente e bello, non una macchina tesa a far svolgere le funzioni umane ad uso e consumo di chi ci vuole organizzati e ordinati, magari imbellettata dalle sue forme esteticamente accattivanti ma subliminalmente condizionanti.Un bell’esempio che ho trovato in rete è l’iniziativa di un gruppo di retraites (pensionati) in Francia per evitare la solitudine in una casa vuota o, peggio, l’essere ospiti di uno di quei manufatti-reclusorio dedicati che noi chiamiamo eufemisticamente, ma non tanto casa di riposo. Hanno fondato una cooperativa e si stanno costruendo o ri-costruendo uno spazio a-funzionale ma accogliente, collettivo, poliedrico e flessibile oltre che bello, dove vivere insieme gli ultimi anni. Qui  la storia:

http://positivr.fr/cooperative-habitants-pas-aller-maison-retraite-chamarel/

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Aule vaganti e naviganti.

La prima cosa da fare, dopo aver sistemato a dovere le città occupando non meno di un lustro, è non costruire più nulla per un po’. E’ infatti un delitto non riutilizzare e trasformare in senso polifunzionale spazi e luoghi vecchi e nuovi abbandonati o malamente usati nelle città, magari in autocostruzione, recuperare le campagne da falsi agricoltori e falsi  agriturismo, far vivere a tempo pieno le seconde, terze e quarte egoistiche case  e tutto il patrimonio edilizio in mano alla speculazione (non si fa business sull’abitare, sulla salute, sull’educazione…) La nuova architettura sarà pensata come indifferente a ciò che conterrà ma  assumerà significati diversi e “bellezze” diverse perfino durante una stessa giornata. Un po’ come nella forma dell’acqua. Questa si adatterà al suo contenitore e ne  costruirà la forma, il colore… Attrezzature e impianti destinati a funzioni speciali (cura, manifattura, educazione…) potranno essere inseriti ed istallati modularmente, quando e per quanto tempo servissero, in strutture a parte, mobili e flessibili. E’ questa la vera anima del museo diffuso, della scuola diffusa, dell’agricoltura diffusa, della salute diffusa, della città diffusa. Niente monumenti, niente casamenti ma luoghi e spazi liberi e fluttuanti, tra edifici storici che rivivono di una esistenza nuova, ma provvisoria, e nuovi luoghi mutanti e mimetici per non violare la natura e la storia. Si sono fatti esperimenti di educazione diversa, a volte anche timidamente diffusa, si è scritto molto e da tempo di controeducazione ma, fino alla “Città educante” poco e raramente di nuova architettura della città e dell’educazione per superare muri, aule e spazi chiusi e concentrati dell’apprendere. Perfino nei tanto osannati paesi del nord Europa non si è ancora superato il concetto di “school building” se non nelle forme variegate ed ipertecnologiche ed ecologiche di una edlizia scolastica d’avanguardia. Ma pur sempre edilizia scolastica. Perfino in Finlandia. Non vi può essere a mio avviso nuova educazione ed una città educante senza rivoluzionare gli spazi e chiudere con le tipologie dell’edilizia scolastica. (Continua)

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