L’incontro del 14 Maggio scorso, tra attori, attivisti e promotori dell’educazione diffusa, ha messo in evidenza il fermento estremamente crescente anche nella scuola pubblica dai tempi della pubblicazione del Manifesto dell’educazione diffusa.
Al di là delle defaillances dovute alle ritrosie, ai boicottaggi, al disinteresse ed alle paure ancestrali di parte della politica, degli enti e delle amministrazioni pubbliche per i cambiamenti radicali, molto si sta muovendo a livello di piccole esperienze diffuse con esperimentazioni, progetti e proposte nei territori variamente rappresentati nella riunione. Meglio di qualche scritto può darne testimonianza la registrazione dell’incontro proposta qui in “tre atti”.
La sequenza di incontri e contatti diventerà periodica e servirà a progettare, oltre ad altre iniziative di formazione, una organizzazione permanente dedicata all’educazione diffusa che potrà assumere la forma di una rete di esperienze, un archivio di pratiche, un comitato, una associazione libera e non dogmatica.
Mi viene spontaneo di ripetere come un mantra le frasi inascoltate di Giovanni Papini, Giancarlo Decarlo e Colin Ward:
1914–Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali.Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai ven ti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello?
1969– È veramente necessario che nella società contemporanea le attività educative siano organizzate in una stabile e codificata istituzione?– Le attività educative debbono per forza essere collocate in edifici progettati e costruiti appositamente per quello scopo?
2018-La libertà della strada:“la scuola decentrata ordinariamente in una pluralità di luoghi, spazi e tempi adatti all’apprendimento più incidentale”.
La città come risorsa:“rivisitandola dal punto di vista del disegno urbano,della storia, dell’arte, dell’edilizia, in funzione socializzante”.
Adattare l’ambiente imposto:“superare la convinzione degli adulti a controllare, dirigere e limitare il libero fluire della vita” organizzando spazi ad hoc e a senso unico senza alcun grado di libertà.
Il gioco come protesta ed esplorazione:“ Il fatto che i bambini scelgano ostinatamente come spazi per il gioco proprio i luoghi che ci appaiono più provocatori…” è un segno che il gioco è spesso protesta ed esplorazione insieme.
Luoghi di apprendimento:”Il bisogno naturale ad imparare va scemando man mano che viene organizzato e rinchiuso in luoghi strutturati e delimitati”.
Tutto questo perché, con sgomento mi ritrovo nel 2022 a leggere le ennesime linee guida sull’edilizia scolastica (sic!) che esordiscono con una frase emblematica e sintomatica: “Progettare nuove scuole è un’azione che guarda al futuro”. Niente di più conservatore e di retroguardia! Ma poi quando leggo i nomi del gruppo di lavoro ministeriale comprendo molte cose. C’è il mercato delle archistars e degli epigoni, c’è la nuova/vecchia pedagogia e c’è anche l’alito della burocrazia ministeriale mai defunta. Comprendo che non sono affatto servite le domande che si ponevano anni fa Aldo Rossi, Giancarlo de Carlo, Colin Ward sull’architettura delle città e sul pericolo di perseverare sulla strada del “funzionalismo ingenuo” (ma non tanto). Vedo che non si capisce ancora come occorra superare l’idea dei monumenti all’istruzione, alla cura, alla riabilitazione carceraria, alle detenzioni varie più o meno edulcorate o modernizzate. Mi viene in mente un mio articolo su Education2.0, la prima rivista che ospitò tempo fa idee rivoluzionarie in fatto di architettura ed educazione.
In occasione dell’uscita delle “Linee Guida sull’edilizia scolastica” nel 2013 scrivevo tra l’altro: “Avrei voluto chiosare capitolo per capitolo il documento ricorrendo alle idee da me più volte esposte e pubblicate, oltre che condivise da esperti e pedagogisti. Mi sono accorto che seguendo lo stesso percorso sarei di nuovo caduto nella gerarchizzazione di un luogo che, per sua intrinseca natura, non potrebbe essere nemmeno descritto “per parti” . Riproporrò allora la mia lettura e la mia “linea guida”. Non ho mai avuto il piacere di essere coinvolto, pur avendo offerto la mia disponibilità, nella ricerca istituzionale sul tema, e questo è un peccato, non per me, ma per il contributo che si sarebbe potuto trarre dalla mia trentennale esperienza sul campo, come architetto e ricercatore, docente, amministratore locale e dirigente scolastico, per il dibattito sulla costruzione delle Linee Guida veramente innovative per quella che mi ostino a voler chiamare “architettura” scolastica.”
Nell’anticipare l’idea di una intera città educante al posto di tanti reclusori scolastici scrivevo ancora in una sorta di antesignana educazione diffusa: “La scuola si dilata nel tempo e nello spazio, aderisce al concetto di lifelong learning e trova luogo in ogni angolo a vocazione culturale della città ma anche del web, come sta avvenendo di fatto senza che gli ambiti fisici si siano adeguati rimanendo pervicacemente statici e gerarchizzati come alla fine dell’800. La “scuola diffusa” sarebbe economica, sostenibile, innovativa, efficiente ed efficace. Trasformiamo ove possibile tutta l’edilizia scolastica esistente in altrettanti poli di questa rete integrata da musei, teatri, biblioteche, parchi, attrezzature sportive, monumenti, municipi. “
Dal 2013 ad oggi tanti i saggi, gli articoli, i seminari e perfino i racconti dell’idea di educazione diffusa e città educante tra architettura ed educazione ospitati con interesse all’estero. Ma il mondo dell’establishment pedagogico e architettonico pare non voglia cambiare nulla o peggio, fa finta di voler innovare e progettare per un futuro che è ancora passato, brutto passato.
Farò lo stesso spelling delle “nuove linee guida” dettate dai pontificatori “pedarchitettonici” ripensando ad ogni passo alla nostra esperienza lunga e consolidata, apprezzata abbastanza presso il popolo dell’educazione ma boicottata ed osteggiata presso il potere dell’educazione e delle accademie:
Il PNRR ordina, come altro, queste linee guida. I soldi quindi. Pochi, ma come si immagina, pecunia non olet, e le consegne tengono conto quasi solo di questo o poco più.
–La forma architettonica ospita una funzione.
Il funzionalismo ingenuo che aborriva anche il mio compianto maestro Aldo Rossi impera ancora.
–La linea tracciata potrebbe anche costituire un primo orizzonte per la necessaria, e da più parti evocata, revisione delle norme tecniche del 1975.
E le linee del 2013? Non lette?
Tutte le giaculatorie dell‘introduzione sono dei brutti e poco incoraggianti déjà vu sciorinati dai personaggi di gran moda della médiocratie scolar-architettonica.
–Nell’espansione urbana del secolo scorso gli edifici scolastici apparivano come puro “standard” o “servizio” necessario ai nuovi quartieri satellite. Oggi, invece, dobbiamo guardare a loro come veri e propri catalizzatori di vita urbana, come importanti centri di socialità e come luoghi capaci di promuovere valori importanti attraverso una “pedagogia implicita”: sensibilità di fronte all’ambiente, pari opportunità, inclusione sociale…
La città dis-educante dei monumenti alla tecnologia e ai valori indotti da un neocolonialismo pedagogico e urbanistico?
– I nuovi edifici scolastici, attraverso i progettisti sapranno trasformare questi elementi in un valore unico che li comprenda e a loro perfino sopravviva: quello della qualità, della solidità e della bellezza del paesaggio, dello spazio e degli edifici. In breve, tutto ciò che rappresenta il lascito principale della cultura urbana italiana degli ultimi venti secoli.
Nuovi ma concettualmente retrò. Timidissimi passetti, solo teorici e poco coraggiosi verso un‘idea diversa e non più ottocentesca dei luoghi per l‘apprendimento (memento Papini). Una nuova scuola non è soltanto un luogo costruito per apprendere meglio. ☹️☹️
–Fare scuola all’aperto, all’esterno, uscendo non solo dalle aule ma da tutti gli ambienti coperti, è una stra- da ancora troppo poco esplorata dalla scuola italiana. Corti e cortili di molte scuole sono oggi sottouti- lizzati, pur costituendo una grande risorsa per l’azione educativa. La pandemia, con la ricerca di maggiori spazi – anche esterni – per le attività scolastiche, ha reso ancora più ur- gente il loro inserimento fra gli am- bienti di apprendimento. L’ambiente esterno è il luogo di elezione per fare esperienza non solo legata al conte- sto naturale (il contatto con la terra, l’osservazione dei fenomeni meteo, la coltivazione), ma anche come prolungamento degli ambienti inter- ni. Spazi all’aperto dovrebbero esse- re facilmente accessibili dalle aule, ma anche da laboratori, biblioteche, spazi comuni e di ristorazione, in una sorta di continuità d’uso che ne faciliti l’appropriazione. Corti interne, terrazze, patio, giardini pensili, logge, verande, pergole, padiglioni, ecc. sono luoghi articolati per mediare la distinzione che separa l’involucro edificato dal contesto circostante. Le coperture esterne possono essere preziose in prossimità degli ingressi o per ospitare attività didattiche riparandosi dal sole o dalla pioggia. Condizione necessaria perché questi spazi diventino veri e propri ambienti di apprendimento è che siano progettati all’interno del piano della scuola, dotati di strutture, arredi, pavimentazioni diversificate, zone ombreggiate, semichiuse, depositi, sedute. Solo in questo modo si offrono alle scuole spazi diversificati che invitano a usi plurali, ad esempio adottando nello stesso sistema edificio più soluzioni che possono anda- re dall’uso della copertura, a diverse corti interne semi coperte, alle zone in piena terra dedicate al giardino e all’orto, ecc.
Solo propaggini del reclusorio scolastico, “coraggiosamente” spalancato all’esterno, in una concezione anni ’70 sulla quale perfino Giancarlo Decarlo aveva espresso seri dubbi.
–Laddove possibile, e con particolare attenzione alla scuola dell’infan- zia e primaria, le classi e gli spazi di apprendimento interni dovrebbero poter avere un’apertura diretta verso l’esterno, così da costituire fuori una sorta di aula ‘simmetrica’ verde.
Della serie: il coraggio uno non se lo può dare. Non si propone il superamento delle norme del 1975 ma neppure quelle un po’ più avanzate del 1996 e del 2013!!
–Fare scuola in modo più attivo e meno trasmissivo richiede strategie didattiche che trovino declinazione spaziale in ambienti articolati, di- versificati fra di loro e riconfigurabili all’interno grazie all’arredo. Molte sperimentazioni pongono l’accento sulla necessità di impostare l’attività scolastica integrando lavoro individuale, di gruppo, attività frontali, discussioni e momenti di confronto plenario. Questa articolazione spinge a immaginare un paesaggio di apprendimento che non lasci fuori nessuno, con spazi dentro e fuori che possano essere adattabili a modelli di insegnamento differenti e personalizzati.
–Gli spazi distributivi (corridoi, atrii, scale) assumono un ruolo centra le, non solo nei momenti di pausa, ma per lo stesso apprendimento, se messi in grado di accogliere momenti di attività collettive e di grup- po, luoghi dove svolgere attività in autonomia o semplicemente discu- tere, aspettare, incontrarsi: “spazi ri- fugio” per ritrovarsi con sé stessi, ma anche spazi grazie ai quali promu vere un processo di apprendimento che – coerentemente ai traguardi metacognitivi suggeriti dalle Indicazioni nazionali – dia rilevanza al ruolo attivo dello studente nella costruzione e nell’impiego delle diverse strategie di lavoro scolastico. Anche questi sono aspetti rilevanti, che de vono guidare un’azione progettuale capace di interpretare le necessità diverse, a seconda di età e fase evolutiva. Il ripensamento parte dall’aula, che si trasforma da spazio rigido e stere- otipato a fulcro di un sistema in grado di ospitare diverse configurazioni e allargarsi agli spazi limitrofi.
Resistono come i muri che non crollano le aule, gli arredi, i corridoi, gli atri, i laboratori. Le forme cambiano ma le sostanze decisamente no. Il reclusorio aumenta solo gli spazi per le “ore d’aria”?
Molti dei punti (circa 9 su 10) si riferiscono alle caratteristiche costruttive dei casamenti scolastici considerati implicitamente come imprescindibili.
Consiglierei agli ineffabili redattori del documento e a chi fosse interessato la selezione di articoli sull’argomento elencati in APPENDICE.
La chiave ricorrente e fondamentale per me è concepire una città educante in cui si accede da quelli che noi chiamiamo “i portali” dell’educazione diffusa, gli spazi costruiti o trasformati ad hoc, polifunzionali e aggregativi che sostituiscono almeno 5 o 6 edifici scolastici tradizionali con lo scopo di fare da base e introdurre ad una rete di luoghi della città e del territorio dove ricercare, studiare ed apprendere attraverso esperienze multiformi e flessibili nel tempo e nello spazio.
Nel libro “Educazione diffusa.Istruzioni per l’uso” di P.Mottana e Giuseppe Campagnoli Terra Nuova Edizioni 2021 si legge: Il portale, la base, la tana libera tutti.
Intanto osserviamo le caratteristiche del cosiddetto portale, sia che sia costruito ex novo, sia che sia il risultato della trasformazione di un edificio scolastico esistente o di un altro edificio per così dire, collettivo. Qualche terribile centro commerciale potrebbe smettere la sua funzione mercantile e diventare con opportuni interventi miracolosi, da spazio-rospo (con tutto il rispetto per lo splendido batrace) mercantile a spazio-principe educante: uno splendido megaportale culturale per una intera città.
Prendiamo però ora il caso di un edificio scolastico o di un cosiddetto campus esistente che abbia assodate certe caratteristiche e sia circondato da bei luoghi come biblioteche, teatri, musei, giardini, botteghe e laboratori. Bisogna aprirlo come una scatoletta e se la pianta lo consente, ridisegnare gli spazi prima gerarchicamente realizzati, eliminare scale e ascensori cercando di mantenere tutto in piano (per correre e saltare meglio già da dentro!), anche utilizzando rampe e piani inclinati.
Tanti ambiti aperti e collegati tra loro, tanto aerati e illuminati da sembrare più fuori che dentro, colorati e arredati fai da te, da voi da noi e da loro, in modo libero ed efficiente, non fisso, con l’apporto diretto di chi li vive e tanto flessibili da poterne mutare la forma e la mimesi cromatica in tempo reale come un vanitoso camaleonte educativo per le necessità del momento anche con l’aiuto di marchingegni e macchinette tecnologiche, aggeggi moderni e materiali naturali. L’uso collettivo del Portale per i momenti di partenza, condivisione e di riflessione a posteriori sulle attività da svolgere durante la giornata, la settimana o il periodo stabilito fa sì che debba prevedere spazi di aggregazione comodi e dotati di strutture adeguate a scrivere, leggere, fare rapide ricerche, raggrupparsi e dividersi per seguire ora un mentore ora l’altro ora un esperto ora l’altro.
Dal portale si diramano percorsi coperti o protetti di pedonali, ciclovie, acquavie, risciò, monopattini e pattini a rotelle, piccoli mezzi collettivi elettrici (come quelli inutili del golf) e stazioncine di bus ecologici o, più avanti nel tempo, piccole metropolitane di superficie connesse con la rete urbana principale, guidate e “segnate” ad esempio dai segni colorati che vedremo più avanti. Rileggo con ansia fattiva dalle appendici del Manifesto della educazione diffusa: “La gestione e la fruizione dello “spazio fuori” è dunque un tema importante che viene negoziato con enti pubblici e privati per l’individuazione di luoghi di apprendimento ma anche di semplici luoghi-presidio che fungano da punti di riferimento per i ragazzi e ragazze e di percorsi dedicati a forme di viabilità leggera (piste ciclabili, zone pedonali, ecc.), affinché possano muoversi nel loro territorio in sicurezza e raggiungere sempre più autonomia. L’obiettivo è che il confine tra il tempo dentro e quello fuori la cornice scolastica sia sempre meno percepita, configurandosi tutto come tempo di vita piena. Naturalmente per questioni organizzative viene delimitato un tempo scolastico che prevede la presenza degli insegnanti e lo svolgimento di attività programmate e che rispetta la configurazione e la logistica della scuola di appartenenza. L’orario complessivo settimanale o plurisettimanale, nella fase transitoria, viene rispettato ma in situazioni particolari in accordo con le famiglie può essere rivisto in base alle esigenze dei progetti e delle attività.”
Continua, per la mia disperazione, il mancato coinvolgimento, nelle sue vesti istituzionali, professionali e anche accademiche, nonostante i tanti tentativi di contatto, dell’architettura nel progetto di educazione diffusa e, di fatto, in ogni dibattito pedagogico che si rispetti. Non l’edilizia scolastica ma l’architettura. Ben altra cosa. Sembra che quel mondo, a volte anche in accordo con certa pedagogia, non riesca a proporre altro se non speculazioni edilizie più o meno dissimulate, la monumentalità del terzo millennio e il narcisismo di tante personalità diventate delle stars del sistema. Si continua a perseverare diabolicamente nel concetto di edilizia scolastica, seppure spacciata per architettura con il belletto degli open spaces, delle nuove tecniche e tecnologie, della prossemica e del design d’avanguardia, dei learning spaces esotici del Nord Europa, cooptando l’ignaro (non sempre) mondo della scuola con tanti specchietti per le allodole.
Nei numerosi convegni che ho frequentato, nei seminari presenti e passati, non ho mai trovato nulla che somigliasse all’idea della città educante che piano piano sostituisce gli edifici scolastici con altri luoghi dell’educazione, che vorrebbe progettare oggetti come i portali, le tane, le basi della educazione diffusa e ridisegnare e trasformare la città in tal senso. Non ho trovato chi proponesse di rinunciare ad inserire nel corpo vivo della città oggetti estranei ed improbabili per concentrarsi sul recupero, sulla progettazione partecipata e collettiva, sulla lettura e interpretazione di ciò che la città stessa suggerisce per la propria crescita e trasformazione anche in funzione della conoscenza e dei saperi. Pure su quel fronte non vorremmo demordere.
Qualche speranza era nata tra il 2016 e il 2018 a Cesena e a Pesaro nelle due occasioni di dibattito sui luoghi dell’apprendere, così come a Bolzano durante un convegno sulla progettazione partecipata delle scuole o alla Fiera Didacta di Firenze che si rivelò in gran parte un mercato di banchi, cattedre e sussidi per una didattica obsoleta o per i reclusori scolastici. Ma poi non ci sono stati coinvolgimenti significativi, anzi. Gli architetti non ne ho visti dall’orizzonte della città educante, tranne per suggerire, tra l’altro, scuole chiavi in mano di truciolare e multistrato, progettare grottesche imitazioni del cavalletto en plein air degli impressionisti premonizione anche linguistica dell’imminente definitivo fallimento di una certa scuola buttata oggi con enfasi para-innovatrice solo nei boschi e nei greppi. A volte i miei ex colleghi hanno fatto delle fugaci comparse, per pontificare un po’ (i ponti del resto fanno parte del loro mestiere) per poi tornare alle loro occupazioni mercantili consuete. Li cercheremo ancora e magari li ritroveremo, perché senza una città e un territorio trasformati non c’è vera educazione diffusa come benissimo sosteneva anche il nostro Colin Ward. Le città hanno luoghi abbandonati, edifici storici, spazi eccezionali che non aspettano altro se non di essere recuperati a nuova vita in una accezione anche educante e ci sono forze vive pronte ad occuparsene se solo l’architettura ufficiale e professionale smettesse di essere autoreferenziale e di replicare le solite cattive pratiche del costruire ad ogni costo per il mercato, per i monumenti della politica o per la gloria delle riviste patinate.
Ma c’è di più. Anche di recente, perfino in tempi di pandemia, questa disattenzione, o peggio, perseveranza nel mantenere l’idea obsoleta degli edifici per la scuola persiste in una parte consistente del mondo pedagogico, politico, amministrativo, accademico e scientifico. Come se la nostra idea che l’educazione diffusa non possa assolutamente prescindere dalla città e dalle sue forme, tutte, sia solo marginale e secondaria. Ciò accade anche ahimè pure in qualche esperienza coraggiosa che fatica a svincolarsi dall‘idea di scuola come manufatto che al massimo si apre solo ogni tanto, prevalentemente nei campi, nei boschi, nelle radure. Spero superino questa fase. La città e il territorio dell’educazione diffusa non sono solo questo. Per fortuna però anche in architettura qualcosa si muove. E se si muovono entrambi i campi nella stessa direzione forse è la volta buona. Come a Torino e Venezia per esempio. Miracolosamente echeggiano sulla rivista di progettazione Ardeth del Politecnico di Torino articoli (ne ho revisionato uno) che parlano di architettura dell’educazione e di città in modo diverso dal solito e che, non vorrei azzardare, ma con poco potrebbero arrivare anche a concepire l’idea di una città educante. Proprio qualche giorno fa ho ricevuto una proposta di partecipazione ad un ambizioso progetto ispirato all’educazione diffusa a Venezia che parte, questa volta, proprio dall’architettura. Ne scriverò ampiamente quando avrò abbastanza materiale ma credo si tratti senza meno di svolte significative anche se per ora isolate. Chi vuole cambiare radicalmente la scuola non può fare assolutamente a meno dell’architettura come sostenevano Colin Ward, Aldo Rossi, Giancarlo De Carlo e tanti altri. L’ educazione non si fa sugli asteroidi.
ReseArt Arte, cultura, educazione, politica, sociale e varia umanità
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