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Antisemitismo, sionismo, islamismo

CONTRO LE CORRENTI

Articoli di RISS e Yovan Simovic su Charlie Hebdo.Traduzione e riedizione di Giuseppe Campagnoli.

Estrema destra: odiare gli ebrei o i musulmani, bisogna scegliere! Dalla Francia in Europa tutto il mondo è paese.

La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese risveglia una febbre antisemita in una parte dell’estrema destra europea. Ma nell’altra parte (vedi Italia) si è voltata pagina da tempo e si sostiene Israele, soprattutto per odio dei musulmani e per convenienza internazionale. Si era quasi dimenticato che prima di cacciare il capretto arabo l’estrema destra gli ha a lungo preferito il «giudeo». Fortunatamente per le nostre piccole e misere memorie, la grande storia torna sempre a ricordarcelo. Così, in occasione della rinascita del conflitto israelo-palestinese, i confratelli negazionista e antisemita non hanno mancato di salutare il «certo coraggio» di Jean-Luc Mélenchon che non si è «allineato incondizionatamente sull’entità sionista». Il patrono ufficioso della coalizione francese do sinistra oggi viene «demonizzato come lo era ieri Le Pen». Jean-Marie naturalmente. Dal momento che vi si dice che il fiore fine dell’antisemitismo francese è uscito per difendere gli islamisti palestinesi: Alain Soral stesso, sul suo sito «Uguaglianza e Riconciliazione», segnalava «il legame tra il terrorismo israeliano e Hamas».

Certo, sono profili quasi «storici» dell’antisemitismo di estrema destra, ricorda lo storico Nicolas Lebourg. E l’attualità internazionale li spinge, logicamente, a posizionarsi dietro i terroristi di Hamas, alleati di circostanza.

Perché nel campo di fronte c’è il nemico giurato: Israele.

Ma è anche un odio tenace dell’imperialismo che può avvicinare le estreme destre europee al terrorismo islamico antisemita. In un articolo di Le Monde, pubblicato il 23 ottobre, si apprende che un ex eurodeputato «nazionale conservatore» proveniente dal Partito della libertà d’Austria (FPÖ), nonché tre vicini della formazione politica, a fine settembre hanno effettuato una piccola visita di cortesia presso i talebani afgani. Ufficialmente, la piccola delegazione veniva «ad organizzare, o almeno a riorganizzare, il ritorno di un certo numero di afghani in direzione del loro paese d’origine», spiega Patrick Moreau, storico e politologo specialista degli estremismi in Europa. «Ma in realtà è anche per la fortissima dimensione ideologica, antiamericana, che li riunisce», si affretta ad aggiungere. Si trattava quindi di venire sul posto a rallegrarsi, in prima fila, del successo di questi talebani che sono riusciti comunque a mettere gli Yankees alla porta.

Da noi stranamente, almeno nella facciata governativa la destra, anche estrema è allineata di fatto con USA e Israele dimenticando che di essere l‘erede di quell‘Almirante mai rinnegato redattore della famigerata antisemita “Difesa della razza“ La Storia recente provocata dalle persecuzoni nazifasciste italotedesche, russe, polacche, ungheresi…”

Un po’ di storia:

In risposta al crescente antisemitismo contro gli ebrei in Europa, alla fine del XIX secolo dopo secoli di Diaspora (già da prima del tempo dei romani) emerse un movimento sionista che sosteneva la necessità di uno stato ebraico. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si tennero le prime Aliyah che portarono decine di migliaia di ebrei europei a stabilirsi in Palestina; l’immigrazione ebraica nella regione accelerò in seguito alla seconda guerra mondiale e all’Olocausto. Il ritorno in massa degli ebrei in Terra di Israele è una costante della tradizione religiosa ebraica scritta ed orale, in genere associata alla venuta del Messia. Per molti rabbini, e comunque per i laici, il sionismo è appunto l’inizio dell’era messianica. Nel 1950 lo Stato di Israele ha codificato l’aliyah (e la cittadinanza) come un diritto di ogni ebreo nella legge del ritorno. Israele è in effetti un paese di immigrati (per ragioni religiose o, dal 1882, sioniste) o, più propriamente, un paese di profughi (dal 1933).

Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.

Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.

Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì lo aliyah –  cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.

All’epoca circa il 90 per cento della popolazione palestinese era di etnia araba.

Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei.

In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.”

L’occupazione nata con la favola

di una terra promessa da una entità inesistente continuò a discapito delle popolazioni autoctone che scivolarono nel tempo tra le braccia dell’integralismo fanatico religioso e terrorista.

Le religioni appunto, oppio dei popoli e istigatrici di violenza.              

Fonte: Il Post Aprile 2016

QUESTE MORTI CHE NON CI SERVONO A NIENTE

 Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra in Siria tra il 2011 e il 2022? Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra nello Yemen tra il 2014 e il 2017? Probabilmente no. Per contro, conoscete il numero di civili uccisi nella striscia di Gaza, grazie ad Hamas, che ci ha comunicato le sue cifre: 9.770 (nel momento in cui siamo in stampa). Hamas sarebbe quindi diventata un’agenzia di stampa più affidabile dell’AFP e della BBC. In fondo, non importa, perché ciò che conta è che siano gli israeliani, e più precisamente gli ebrei, ad essere responsabili della morte di queste vittime civili, per di più quando si tratta di bambini. Questa accusa ne ricorda una più antica, tipica della propaganda antisemita, secondo la quale gli ebrei mettevano a morte dei bambini non ebrei per fare del pane azzimo con il loro sangue.

D’altronde gli esperti sono formali: le bombe lanciate da Tsahal sui combattenti armati di Hamas uccidono i civili nelle vicinanze, il che costituisce, nel peggiore dei casi, un «genocidio», almeno un «crimine di guerra». A sentire loro, sembrerebbe che a Gaza vi siano solo civili e che gli islamisti di Hamas siano scomparsi. Il trattamento dei civili in altri conflitti, come in Siria o nello Yemen, è sempre stato così delicato? Bisogna dire che la sorte delle popolazioni di questi paesi non ha mai avuto tanta attenzione.

Curiosamente, quando i popoli arabi si massacrano tra di loro, gli attivisti di guerra si fanno discreti. 200.000 civili arabi massacrati dai soldati arabi appare meno grave di 2000 civili uccisi nei bombardamenti dai soldati ebrei di Tsahal. Con conflitti come quelli dello Yemen e della Siria, infatti l’attivista propalestiniano-anticolonialista non può servirci la sua zuppa antioccidentale poiché nessun ex paese colonizzatore vi ha svolto un ruolo determinante e nessun israeliano, nessun ebreo, vi ha partecipato. Con questi conflitti che contrappongono popolazioni arabe e musulmane tra loro, impossibile gridare «morte agli ebrei! » nei campus americani. Quindi, le donne e i bambini massacrati, gasati, decapitati dai soldati arabi durante questi conflitti saranno nascosti sotto il tappeto, perché non hanno alcuna utilità ideologica per i militanti acritici e a senso unico.

Per la cronaca, il numero di civili uccisi durante la guerra in Siria ammonta a 306.000. Nello Yemen sarebbero morte 380.000 persone, di cui 227.000 a causa della carestia e della malnutrizione causate dal conflitto. Per quanto ne sappiamo, nessun generale siriano, yemenita o saudita è sotto processo. Nessuno darà loro fastidio e proseguiranno la loro bella carriera dopo aver fatto passare dalla vita alla morte centinaia di migliaia di civili del loro stesso popolo. Bashar al-Assad, che ha fatto gasare la sua popolazione, è ancora libero, e nessuno lo ha portato davanti alla giustizia internazionale per aver liquidato migliaia di civili arabi e musulmani del suo paese. Ne ha il diritto, perché è proprietario del suo popolo? Ne ha il diritto perchè non è ebreo? E che dire dei curdi?

Questa settimana abbiamo visto un capo houthista eruttare contro Israele davanti al suo microfono. Questo triste signore si indignava per l’offensiva israeliana, proprio lui, il cui esercito ha partecipato a una guerra, che ha ucciso oltre 380.000 arabo-musulmani.

Non si tratta assolutamente di firmare un assegno in bianco all’esercito israeliano e di passare sotto silenzio gli abusi terrificanti che sta commettendo ma si constata che, guarda caso, ci sono civili uccisi durante alcuni conflitti che sono utili e altri che non lo sono. La vostra morte sotto le bombe servirà alla distruzione di Israele o no? Da ciò dipenderà il vostro posto nella storia?”

8 Novembre 2023

Una divisa per nascondere le diseguaglianze.

«C’est l’idée qu’on va gommer Mai 68»

Pour le sociologue François Dubet, Brigitte Macron est «en train d’inventer une tradition» qui ne saurait régler le problème des inégalités à l’école. Libération. Intervista raccolta da Romain Boulho.

Traduzione di Giuseppe Campagnoli

Tutto il mondo è paese. E i nostri cugini pare abbiano un concetto di educazione ancora molto conservatore.

“È l’idea che cancellerebbe il ’68”

 Per il sociologo François Dubet, Brigitte Macron sta “reinventando una tradizione” che non può risolvere il problema delle disuguaglianze a scuola.

 RACCOLTA DA ROMAIN BOULHO

 Un ritornello a destra e all’estrema destra, la divisa scolastica, che sarebbe l’antidoto a tutti i mali della scuola, ha un nuovo megafono.  Brigitte Macron, ex insegnante privata di francese, ha appena inserito un nuovo tassello. Mercoledì, alla vigilia della proposta di legge in materia del Rassemblement National di Marine Lepen, la first lady si è detta favorevole: “Cancella le differenze, e fa risparmiare tempo. Scegliere come vestirsi al mattino è dispendioso in termini di tempo e denaro “.  Per François Dubet, sociologo specializzato in scuola e disuguaglianze, già direttore degli studi presso la School of Advanced Studies in Social Sciences, l’idea è un “pensiero illusorio”.

 L’uniforme scolastica suscita molte fantasie, la prima è la sua stessa esistenza…

 Infatti non ce n’è mai stata una in Francia di uniforme.  Nella scuola repubblicana è una leggenda metropolitana.  C’erano camiciotti per ragazze e ragazzi, ma nessuna uniforme.  Era, come dice Brigitte Macron, gonne blu a pieghe e simili, ma nelle scuole private chic, non nella scuola di Jules Ferry.  Ai genitori è stato detto di comprare un camice in modo che i loro figli non si sporcassero, ma non per amore dell’anonimato.  Viviamo oggi in un immaginario scolastico che è in gran parte una ricostituzione.  Sono entrato nella scuola elementare nel 1950 e non ho mai visto una divisa.  È assurdo. Brigitte Macron parla di un modo per “cancellare le differenze”.  Ma cosa viene preso di mira?  La differenza tra ricchi e poveri o è piuttosto un modo indiretto di prendere di mira i segni della differenza religiosa?  Non lo so.  In ogni caso, l’idea che la divisa possa cancellare le differenze è, a mio avviso, puramente immaginaria.  Gli adolescenti sono ossessionati dal loro stile, dal loro aspetto, dai loro capelli, tinti o meno, dalla loro marca di basket… Per quanto riguarda le differenze scolastiche, abbiamo recentemente avuto dati dal Ministero dell’Istruzione sulla composizione sociale degli istituti e non vedo come questo ridurrà le disparità che sono notevoli tra stabilimenti chic, non chic o popolari da cui tutti rifuggono.  È un pensiero magico.

 È una manovra diversiva.  Intanto non riusciamo ad assumere docenti, i risultati scolastici misurati dallo stesso ministero sono un po’ preoccupanti, le classi medio-alte sono a sé stanti, come le classi lavoratrici… Di fronte a disuguaglianze, difficoltà di apprendimento, agli orientamenti che sono un vero e proprio smistamento sociale tra gli alunni, questa idea della divisa mi sembra ridicola.

 Insomma, è solo nostalgia conservatrice, che, peraltro, non può vantare un ritorno a un vecchio sistema, visto che non è mai esistito.  Questa è l’idea che cancellerebbe il maggio del ’68, per standardizzare l’adolescenza.  Alcuni istituti privati ​​estremamente chic adottarono l’uniforme.  Non per creare uniformità, appunto, ma piuttosto per distinguersi, come segno di appartenenza a una casta.  Anche alcuni paesi hanno questa tradizione.  Ho lavorato in Cile e la gente ci è molto affezionata.  Ma ce n’è sempre stato uno!  In Francia stiamo inventando una tradizione, una storia che non c’è. È strano.  Credo sia solo per accontentare le correnti più conservatrici.  Questo tema, che era minoritario perfino nell’estrema destra, viene ripreso oggi senza che nessuno sembri sorpreso.  Zemmour l’aveva messa al centro del suo programma per le presidenziali sulla scuola.  Stiamo solo aspettando il ritorno delle punizioni corporali…

 Tra le ragioni spesso citate, la laicità sta tornando sempre più…

 È un concetto molto strano.  Laicità è il diritto degli individui ad essere tutelati nella loro singolarità. Si dice che tutti sono uguali e che si separa la scuola dalla società.  È un laicismo autoritario, non la tradizione laica.  Il secolarismo visto da Zemmour.  Stupisce che la first lady, ex insegnante in un liceo privato chic, faccia sua questa idea, proprio come aveva avanzato qualche settimana fa quella del dettato quotidiano.  Sappiamo che ci sono problemi con i bambini e i ragazzi – e soprattutto con le ragazze – che reintroducono tranquillamente i simboli religiosi a scuola, i veli, i vestiti lunghi, ecc.  Ma spetta alle istituzioni avere una politica in merito.  Qualche settimana fa, Pap Ndiaye ha assicurato che non spetta allo stato legiferare sugli abiti degli studenti, ma semmai agli istituti stabilire regole….”

Insomma i dibattiti sono sui meriti, sulle divise, sui cellulari in classe! Non solo da noi.

La scuola del mercato.

Che bisogno c’è dell’attuale sistema scolastico italiano e globale? Perché costruire ancora reclusori scolastici? Anche nel clima convulso, confuso e sostanzialmente gattopardesco post elettorale non  vedo all’orizzonte chi provi concretamente a cambiare le cose in fatto di educazione e luoghi per apprendere. Colgo l’occasione di un dibattito emerso tra innovatori governativi, ingenui innovatori dialoganti e rivoluzionari sottili della scuola, per alcune riflessioni politiche.

Almeno in Italia non c’è nessun partito o movimento che sieda in Parlamento che prospetti qualcosa di diverso dall’attuale sistema scolastico, più o meno riformato, fintamente rivoluzionato o edulcorato e adattato alle proprie ideologie. Ricordo co un certo sgomento la “Fiera” di Didacta, i suoi anfitrioni politici, istituzionali e aziendali. Ma anche l’erba del vicino non è più verde. Learning world, Quatar foundation, Edulearning, Avanguardie educative e tante altre sigle care al mercato non promettono nulla di nuovo o di buono. Della destra ormai canonica o di stampo neodemocristiano conosciamo i danni più eclatanti ed attuali a partire da Moratti e Gelmini fino a Giannini e la “Buona scuola”. Non citiamo la destra xenofoba e nazionalista della Lega e di altri cespugli neofascisti per pudore abìnche se le loro idee pseudoinnovative sono oggi sulla cresta dell’onda. Il nuovo che avanza dei movimenti eteroguiudati non si discosta dalla visione  liberal liberista dell’educazione e  dell’istruzione perché non ha mai dichiarato nè agito per rinunciare alla convenzione schiavista e  imperante del libero mercato.Le loro ricette sono solo, in sostanza, più soldi, più legami col mondo delle imprese, più modernità ma sempre nel recinto dell’economia di mercato. Al di là dell’abolizione di alcune riforme vigenti su cui non si può non essere d’accordo non vedo altro di rilevante. I programmi aleatori, apparsi e scomparsi nel tempo sono in fondo chiari anche nella loro fumigine e propongono una serie di domande retoriche fondamentali.

  • L’edilizia scolastica rimane edilizia scolastica solo con più investimenti per rabberciare l’esistente e costruire ancora nuove scuole?
  • Viene auspicata la diffusione obbligatoria di internet  nelle scuole senza alcuna proposta sulla qualità ed onestà della rete e sul suo ruolo nell’educazione?
  • L’insegnamento obbligatorio dell’inglese  dall’asilo serve ad aumentare la sudditanza all’ anglosassone linguaggio predatorio della globalizzazione?
  • La proposta di  insegnamento a distanza via internet non ricorda  il disastro dell’e-learning e tutti i suoi guai indotti da un ventennio?
  • L’ integrazione università-aziende per aumentare la sudditanza al mercato ed ai bisogni dell’impresa che non ha mai perso il vizio di voler fare della scuola una sua gregaria priva di autonomia?

Non c’è qualcosa di veramente nuovo all’orizzonte? Purtroppo tra i partiti italiani (come sempre) c’è solo una guerra per bande all’interno dello stesso recinto condiviso che è quello del mercato e del capitalismo che nessuno realmente vuol combattere se non con le rare ed effimere parole degli slogans. Una idea vera e nuova di educazione  aborrisce il mercato per ragioni di libertà e di autonomia del pensiero che si forma e sarà forse l’unica via per liberare i cittadini e le città dalle prigioni dei luoghi comuni, dai flautimagici della politica sempre serva di qualcuno o di qualcosa e dall’idea perniciosa della tensione al successo ad ogni costo che ipoteca qualsiasi anelito di crescita e di libero apprendere nel mondo.

Un’ educazione diffusa che salti a piè pari il concetto attuale di scuola, potrà liberare le future generazioni da ogni galera, reale o virtuale che sia, in una città e in territori nuovi  dell’apprendere  insieme ciò che veramente serve a noi stessi, alla comunità, alla natura che ci ha generati e che si aspettava molto di più da noi. Ma intanto piccole e grandi realtà, grazie ai nuovi architetti-mercanti continuano a progettare e costruire nuovi e brutti “muri” scolastici.

Giuseppe Campagnoli 6 Agosto 2017

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