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Perché dovete andare a vedere “Veloce come il vento” di Matteo Rovere.

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E’ da un po’ di tempo che il cinema italiano ci regala chicche di indubbio talento, che riescono incredibilmente bene. E “Veloce come il vento” è uno di quei casi. La trama è senza dubbio originale, diversa dalle solite che siamo abituati a sentire: Giulia è una diciassettenne romagnola che vive in una cascina con il fratello minore di cui deve occuparsi da sola, non appena il padre muore (proprio all’inizio del film). Quel padre che la seguiva nelle corse sui circuiti automobilistici, perché, sì, Giulia è una pilota di campionato italiano GT. La madre se n’è andata via (di nuovo) e il fratello maggiore, Loris, ex campione di Rally diventato un tossicodipendente che vive ai margini di tutto in una roulotte, da anni non si vede più. Si rifà vivo adesso che il padre se n’è andato e si installa in quella che una volta era anche casa sua. Giulia non vuole (Loris porta con sé anche la compagna allo steso modo pericolosamente tossicodipendente) ma è obbligata a tenerlo con lei e Nico altrimenti verranno affidati ad altre famiglie, essendo, lei e il fratellino, minorenni.
(Ri-)nasce così un rapporto difficile ma profondo e commovente, fra lei e il fratello che non ha quasi mai avuto, che con i suoi consigli preziosi, tra una dose e l’altra, la aiuterà a migliorare le sue prestazioni automobilistiche, perché Giulia deve vincere a tutti i costi: in ballo c’è la cascina della sua famiglia.

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Coincidenze. O il furto più incredibile della storia.

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Parigi, 21 agosto 1911

Ore 5:30 

Cara madre,

 ogggi è lunedi una giornata calda e umida. Mi sono alzato presto perche non riuscvo a prendere sonno questa notte forse per il gran caldo, perche la mia nuova stanza e piccola e viene poca aria da la finestra tra i palazzi tutti ataccati del nuovo quartiere. Non e un gran posto ma ci hanno mandato qua perché ora lavoriamo per Messiè Gobier. Cominciamo un lavoro inportante al museo di Luvre, dobbiamo ripulire tutti quadri e ricoprirli con il vetro. Ieri mattina presto ci hanno mostrato velocemente i posti. E’ un museo enorme ma noi dobiamo lavorare solo in alcune sale. I miei dolori alo stomaco non passano, mi sento debole e ho spesso dela nausea. Voi come state? Arrivano le lettere del babbo da Lione? La prosima volta vi raconto del nuovo lavoro. Intanto vi mando 200 lire. Non e molto ma meglio di niente.

Mi mancate. Vi abraccio a tutti.

 Vostro caro Vincenzo.

 

Vincenzo piegò la lettera e la ripose nella busta. Scrisse lentamente l’indirizzo di casa della sua famiglia, che a Dumenza attendeva sempre con ansia quelle poche righe.

Vincenzo era emigrato insieme al padre per cercare fortuna in Francia, a Lione, perché in Italia, di lavoro, non ce n’era. Dopo qualche anno, si era spostato da solo a Parigi. Era artigiano: imbianchino e decoratore, quindi sempre a contatto con le vernici. Spesso la notte si alzava per vomitare, e i crampi allo stomaco erano, a tratti, insopportabili. Ma che doveva fare? «Vogliamo lasciare il lavoro per queste cosette?» Andava ripetendo il capomastro a chiunque lamentasse simili disturbi. «Voi siete privilegiati, a poter lavorare qua. Un giorno tornerete a casa che avete fatto fortuna! » Rideva sornione. «Ma se a qualcuno non sta bene qualcosa, quella è la porta. Andate. Tra cinque minuti ne trovo un altro, giovane, forte e bell’e pronto a lavorare, senza lamentarsi!» Pure Vincenzo era giovane, faceva trent’anni a ottobre, ma non era forte: era piccoletto e cagionevole. E però lavorava di buona lena lo stesso. Nonostante il saturnismo, la malattia da cui era affetto per via del piombo nelle vernici.

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Lo chiamavano Jeeg Robot

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LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT. UN SUPEREROE TUTTO ITALIANO.

di Angela Guardato.

Ecco perché secondo me dovreste correre a vedere questo film e perché Mainetti (il regista) e Guaglione-Menotti (ai quali si devono soggetto e sceneggiatura) con quest’opera hanno superato i super-hero movies americani.
Lo chiamavano Jeeg Robot è sì, un film di genere, ma allo stesso tempo esula da ogni tentativo di etichettamento: è un film di supereroi, di avventura, di fantascienza, d’azione, drammatico, un urban fantasy direbbe qualcuno, ma in fondo non è nessuna di queste cose in assoluto, o solamente. E’ tutto questo e molto di più. Sì, perché Lo chiamavano Jeeg Robot è un film splendidamente giostrato e meravigliosamente poetico, anche se terribilmente duro. E’ la storia di ogni uomo, in fondo, del dramma personale che diventa universale e si scontra con l’immaginario collettivo, spesso becero e gretto (pensiamo alle voci over, sugli ultimissimi minuti di pellicola), con la gente che cerca di sopravvivere e quindi se ne frega di tutto e tutti. E’ desiderio di evasione da una vita immeritata, nel bene o nel male; desiderio di svolta, fama e notorietà, ma alla fine anche solo di affetto e amore, quelli che i protagonisti probabilmente non hanno mai ricevuto da nessuno.
In questo film ci sono tutti i canoni della pellicola da supereroe anche se, si badi bene, il film non vuole essere un live action sul celebre robot dei cartoni animati giapponesi, ma qualcosa per l’appunto del tutto nuovo, pur rispettando le basilari regole di un film di (questo) genere.
La trama del film è semplicissima e si rifà al più classico filone dei film di supereroi, a cui rende palesemente omaggio: un ragazzo di borgata si ritrova a possedere strani superpoteri, si scontra con il cattivo che vuole dominare il mondo, e in mezzo c’è l’incontro con l’unica ragazza che potrebbe essere l’amore della sua vita. Ma vediamo più da vicino i personaggi principali. Continua la lettura di Lo chiamavano Jeeg Robot

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