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Marx ecologista

Di Nicolas Celnik su Libération. Tradotto da Giuseppe Campagnoli

Kohei Saito «Karl Marx ha fornito la chiave per riconciliare ecologia e lotta di classe

Autore di un inaspettato best-seller in Giappone, il giovane filosofo ha analizzato gli scritti tardivi di Marx dove pensatore del comunismo appare preoccupato per l’esaurimento delle risorse naturali.

Il Giappone ha riscoperto Karl Marx, grazie al primo libro di un giovane accademico che teorizza il comunismo decrescente. Questo bestseller , che in pochi mesi ha venduto oltre 500.000 copie nel sesto paese più produttore di CO2 del mondo, «è un nonsenso», riconosce volentieri Kohei Saito, Professore associato all’Università di Tokyo, improvvisamente trasformato in una stella dell’ecologia nell’arcipelago.

Il libro ha anche ottenuto un premio, nominato nella lista dei migliori libri asiatici dell’Asia Book Awards nel 2021, ed è stato tradotto in diverse lingue (la Seuil dovrebbe pubblicarne una versione francese prossimamente). La NHK, la televisione nazionale, ha dedicato a Kohei Saito due ore di documentario, mentre un team del canale concorrente, TBS, ha partecipato alla nostra intervista per mostrare l’interesse della stampa internazionale per il giovane autore. La tesi del libro ne ha abbastanza per far sollevare alcune sopracciglia: studiando gli scritti tardivi di Karl Marx, Kohei Saito scopre che il padre del comunismo si è innamorato tardi delle scienze naturali, e che la sua visione del mondo per questo è stata in parte sconvolta. Avrebbe quindi voltato le spalle all’idea che occorresse concentrarsi a sviluppare le forze produttive e sarebbe maturato invece un pensiero preoccupato per la sostenibilità delle società e dell’ambiente concepita come condizione essenziale per la riduzione delle disuguaglianze. Karl Marx avrebbe allora ri-fondato la sua critica del capitalismo su argomenti che assomigliano strettamente a quelli portati dai pensatori contemporanei dell’ecologia. Sperando di riconciliare «rossi» e «verdi», questo libro vuole convincere i nuovi attivisti ambientalisti, che non sempre hanno il marxismo in mano, che si tratta invece di uno strumento di prim’ordine per rispondere alle sfide attuali.

Si potrebbe avere l’impressione che tutto sia già stato detto su Marx. Perché proporre una nuova lettura oggi?

Sono stato a lungo un marxista molto classico, preoccupato solo della lotta di classe. All’università avevo partecipato a creare un sindacato che militava per migliorare le condizioni di lavoro dei giovani. Era dopo la crisi economica del 2008, quando molti lavoratori precari avevano perso il lavoro, erano stati espropriati, ecc. Poi c’è stato il disastro di Fukushima. L’analisi marxista tradizionale, che sostiene la necessità di sviluppare le forze produttive per lottare contro le disuguaglianze, non mi sembrava più pertinente all’epoca delle catastrofi nucleari. Così mi sono chiesto come Marx avrebbe analizzato il problema delle centrali nucleari ed altro ancora in fatto di sostenibilità. Nello stesso periodo, stavo lavorando su dei taccuini inediti che Marx aveva riempito di appunti alla fine della sua vita. Ho scoperto che leggeva molto di scienze naturali e che era interessato allo sfruttamento del suolo in Irlanda o del carbone in Inghilterra. Leggeva trattati di geologia mentre Friedrich Engels [con il quale aveva scritto il Manifesto del Partito Comunista, ndr] lo pressava per scrivere gli ultimi volumi del Capitale. Da questi testi mi è sembrato che Marx stesse sviluppando un’analisi estremamente pertinente della produzione capitalista in una prospettiva ecologica.

La Cina o l’URSS, sedicenti comunisti, hanno provocato disastri ecologici cercando di sviluppare la produzione a tutti i costi. È stata una lettura sbagliata di Marx?

Credere che l’innovazione tecnologica e l’aumento della produzione risolveranno i problemi sociali e ambientali è non voler far fronte alle proprie responsabilità ed è un modo per relegare questo compito agli esperti e ai politici. Mi sembra, al contrario, che si abbia bisogno di una società più democratica anche allo scopo di stabilire una società più sostenibile. Questo è il principio della «giustizia ambientale». Ora, il marxismo (quello portato da molti sindacati, da accademici o da economisti marxisti) è molto orientato verso le tecnologie. Oggi è anche la tentazione degli eco-modernisti, che pensano che accelerando lo sviluppo tecnologico troveremo una soluzione alla crisi ambientale. Non credo sia così.

Lei identifica un concetto chiave per lo sviluppo di questa analisi: la «faglia metabolica». Di che si tratta?

L’idea è molto semplice: le interazioni tra gli esseri umani e la natura sono alla base delle nostre condizioni di vita. Il capitalismo organizza queste relazioni in un modo da sfruttare le risorse della natura senza prendere in considerazione il lungo termine. Si crea dunque una sorta di faglia metabolica quando si utilizza, in due secoli, la maggior parte delle risorse fossili che si sono costituite nel corso di diversi millenni. Questo evidenzia due caratteri essenziali. In primo luogo, c’è una posta in gioco di ritmo: quello del capitalismo (che peraltro si accelera) è incompatibile con quello della natura e delle condizioni materiali della sua riproduzione. È la tensione alla base del modo di produzione capitalista. L’altro elemento è che il capitalismo si preoccupa solo del valore – che Marx definisce come la quantità di lavoro incorporato in una merce. Ma il valore è solo un aspetto astratto e restrittivo del lavoro, che implica processi di scambio di energia e risorse. Questa analisi rende Marx ancora fondamentale oggi.

Nei suoi diari si apprende che si è ispirato anche alle società precapitaliste o non occidentali. Cosa ne ha ricavato?

All’inizio degli anni 1870 si interessò agli studi dello storico Georg Ludwig von Maurer (1790-1872) sui comuni germanici del XVIII e XIX secolo, che avevano raggiunto una forma di economia stazionaria [dove i movimenti di crescita e decremento economico sono deboli, ndr].  Ne è derivata una profonda crisi della sua visione del mondo e una concezione totalmente nuova di quella che dovrebbe essere una società alternativa. Georg Ludwig von Maurer mostra come queste società avevano istituito meccanismi di regolazione del consumo, della produzione e dell’accumulo di ricchezza. Alcuni comuni organizzavano una rotazione della proprietà delle terre: ogni tre anni gli abitanti utilizzavano aree diverse; questo garantiva che le terre più fertili non fossero sempre nelle mani della stessa persona. Queste società avevano adottato queste organizzazioni non perché fossero primitive, contrariamente a quanto avrebbe potuto scrivere Marx qualche anno prima, ma perché avevano deciso consapevolmente di evitare i rapporti di dominio indotti dallo Stato stesso. Negli ultimi anni della sua vita, Marx si rese conto che le sfide della sostenibilità e dell’equità sociale erano strettamente collegate. Oggi si giunge alle stesse conclusioni quando si denuncia il fatto che sono le persone più ricche a emettere più gas a effetto serra. Karl Marx ne dedusse che bisognava cambiare il sistema, ma non sviluppando ulteriormente le forze produttive. Proponeva piuttosto di tornare a vecchie forme di produzione, pur utilizzando alcune delle tecnologie più recenti – quelle che ci permettono di raggiungere l’obiettivo di organizzare la produzione in modo sostenibile. Per lui si trattava di pensare ad una società che non più motivata dalla crescita economica. Ho definito questa una «società di comunismo decrescente». In questa logica, seguendo il suo pensiero, mi sembra di poter dire che gli obiettivi di sviluppo sostenibile che si pongono dentro il recinto capitalista, sono il nuovo oppio del popolo, perché fanno credere a un futuro migliore senza proporre radicali cambiamenti strutturali.

Questa modalità di produzione sarebbe basato sull’associazione piuttosto che sulla cooperazione. Di che si tratta?

Il capitalismo organizza la cooperazione dei lavoratori in modo che essi non possano più lavorare in modo autonomo e indipendente: si tratta di una forma particolare di cooperazione, nell’ambito della divisione del lavoro. Karl Marx mostra che l’aumento delle capacità produttive da parte del capitalismo non porta all’emancipazione dei lavoratori, perché porta solo a rafforzare il potere del capitale su di loro. Se oggi i lavoratori si impadronissero dei mezzi di produzione, come una fabbrica di automobili, non sarebbero in grado di fabbricare neppure una automobile, perché non controllano ogni fase della catena di produzione. Di fronte a questo, Marx si interessa a un altro modo di cooperazione, che chiama «associazione», e che suppone che i lavoratori decidano collettivamente ciò che vogliono produrre, e come vogliono farlo. È un processo di produzione più lento, quindi meno efficiente, ma più democratico. In effetti, la democrazia non è sempre il metodo più efficiente, ma è quello che porta alla riduzione delle disuguaglianze. E questo rallentamento della produzione permette di chiudere una delle faglie metaboliche aperte dal capitalismo. Ciò consentirebbe anche di ridurre l’orario di lavoro – che Marx considerava un prerequisito per raggiungere la libertà – e di adottare ritmi come la settimana di quattro giorni – un modello da cui siamo molto lontani per esempio da noi in Giappone.

Karl Marx disegnava anche una strategia politica per riprendere il controllo dei mezzi di produzione. Come si spera di ottenere un comunismo decrescente?

È abbastanza difficile, a causa dell’esternalizzazione dell’inquinamento: il governo giapponese finanzia attualmente delle centrali a carbone in Bangladesh! Di conseguenza, molte persone, soprattutto in Giappone, continuano a non collegare il consumo all’inquinamento. È qualcosa che è stato rimesso in discussione durante la pandemia, dove si è presa coscienza dell’importanza dei cosiddetti lavoratori essenziali ma la parentesi, ahinoi, è stata chiusa molto rapidamente. Il primo scoglio da superare in Giappone resta dunque questa presa di coscienza che è meno solida che in Europa. Occorre senza meno proporre delle alternative. Non solo proposte concrete, come ad esempio chiedere finanziamenti per l’educazione o per le infrastrutture pubbliche ma anche avere delle utopie che vendano sogni prima o poi realizzabili.. Infine, occorrono tante iniziative locali: credo che verranno sicuramente dal ritorno delle azioni comuni. Insieme ad alcuni amici ho comprato un pezzo di foresta, e stiamo cercando di mantenerlo in modo collettivo, di sviluppare una comunità intorno a questo luogo. Mi sembrava importante perché in Giappone esistono forme di comuni tradizionali, ma non possiamo accontentarci di ciò che ereditiamo; occorre anche esplorare nuovi usi comuni e inventare insieme nuovi modelli democratici.”

C’è da dire che anche l’anarchismo aveva da tempo considerato questo aspetto ma con una auto organizzazione capillare dal basso senza il bisogno di uno Stato centralista che il comunismo ha sempre mantenuto e ancora manterrebbe come sostituzione di un potere con un’altro. Ricordiamo per inciso l’idea del mutuo appoggio di Kropotkin e i suoi studi sulla natura. « L’ecologia di Kropotkin » è anche un libro di Brian Morris sull’argomento. Altri tra saggi, articoli e interventi hanno ricordato il legame tra anarchismo e tutela della natura e dell’ambiente. Noi stessi abbiamo scritto di recente un articolo sulla ineluttabilità del verde insieme al rosso e nero.

Educazione ambientale.

di Giuseppe Campagnoli Giuseppe-Campagnoli

L’arte della tutela.

Oggi su La Stampa Opinioni l’editoriale di Giuseppe Campagnoli sulla cura del territorio e delle città e l’educazione

ambientale dei cittadini. Luoghi comuni e ipocrisie.

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Chi è causa del suo mal…

di Giuseppe Campagnoli Giuseppe-Campagnoli

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Ripropongo, ad uso e consumo di quelle che si definiscono “nuove”, “trasparenti” ed “ecologiche” amministrazioni locali un vecchio/nuovo articolo apparso anche su La Stampa di Torino perchè poteva ben riguardare tanti esempi diffusi nel nostro italico territorio. Il pezzo, questa volta è corredato da una immagine che non ha bisogno di commenti ma che dovrebbe far riflettere su ciò che è urgente fare per eliminare tutte quelle anestetiche macchie grigie di un paesaggio che avrebbe ancora (non so per quanto tempo) delle forti connotazioni di bene ambientale e storico-artistico. Quelle macchie oscure sono state colpevolmente realizzate con la scusa di uno sviluppo che non era e non sarà certamente più compatibile con l’insieme dei beni naturali e storici. Lo è stato invece per chi ci si è arricchito nel tempo e continua forse a farlo anche oggi.

Chi è causa del suo mal

Viviamo in un’area del centro nord una volta ricca di un importante distretto produttivo monotematico.

Quasi 15 anni fa fu commissionato dalle amministrazioni locali uno studio sullo sviluppo industriale della zona nel ventennio successivo. Gli esperti dissero che se non ci si fosse riconvertiti ad altre attività sarebbe stata la fine. Nessun imprenditore seguì il consiglio tecnico pensando solo al proprio immediato alto profitto e ora è successo quello che era stato previsto. Fin dagli anni 90 abbiamo assistito a imprese commerciali improvvisate che poi hanno dovuto chiudere nel giro di un anno e si era in tempi in cui il credito veniva erogato senza tanti complimenti. Solo uno sprovveduto avrebbe potuto pensare che la pacchia sarebbe durata più di 10 anni.

Anche oggi si vedono numerosi esercizi commerciali con gli stessi prodotti nel raggio di 100-200 metri! E’ la concorrenza? No. E’ la follia. Si è buttata a mare l’agricoltura disseminando le campagne di falsi agriturismi (in parte sovvenzionati a fondo perduto) turismo e cultura lasciati a una libera impresa spesso impreparata e votata ad alti profitti in tempi brevi. Le banche nel frattempo hanno fatto il loro dubbio lavoro dando soldi a chi non li meritava e dato il colpo di grazia ad un mercato già viziato dall’improvvisazione imprenditoriale e dalla mancata pianificazione produttiva… La tragedia è che ci stanno rimettendo le persone preparate, oneste e non venali che si trovano sia nel pubblico che nel privato tra quelli che lavorano il tempo necessario, raggiungono gli obbiettivi, guadagnano il giusto e pagano tutte le tasse spesso per avere i servizi inefficienti per colpa di chi non le paga.

Per risollevarsi occorre puntare prima sull’istruzione, sulla ricerca, sulla limitazione all’iniziativa privata imprenditoriale e commerciale quando provocano danni alla collettività.

Per risollevarsi occorre  investire  nei soli settori che in Italia possono rendere: agricoltura, cultura, turismo, artigianato, manifattura di qualità! Non sarebbe stato difficile! E non è ancora impossibile.”

Giuseppe Campagnoli

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