R. Magritte, Tentativo impossibile, 1928.
Ieri pomeriggio ero al centro estetico a fare la pressoterapia, che fa bene alle gambe, le sgonfia un po’, favorisce la circolazione e bla bla. Quindi ero immobilizzata e, dato il torcicollo ed il mal di schiena, non potevo nemmeno assopirmi ché mi faceva male anche stare stesa. Quindi mentre la macchina portentosa mi stritolava e poi rilasciava parti di gambe e bacino secondo cicli ritmici arcani, insufflando l’aria nei gambali, io pensavo. E quando pensi perché non ti puoi muovere, e non puoi dormire, e hai mal di schiena vengono fuori pensieri strani.
Così mi è venuto da pensare all’amore. Ecco. E quando c’è di mezzo Amore, i pensieri possono spaziare magicamente dall’idillio al suicidio, dal settimo cielo all’Inferno, dalla lucida consapevolezza indotta dalla seduta dello psicologo, allo ‘spacco tutto perché lui era mio e quella se l’è fregato/se ne’è andato per colpa mia’! Insomma: tutto e il contrario di tutto.
La mia riflessione è partita dal film che avevamo visto al mattino al Cineforum: “Frida”. Un buon film, originale a suo modo, con bravi attori e che rendeva bene lo stranissimo rapporto che legò la pittrice messicana sfortunata (dall’inconfondibile monociglio) al suo rivoluzionario e fedifrago amore panciuto, Diego Rivera. Allora ripensavo a come avesse fatto a sopportare per tutta la vita le infedeltà di lui, non una, non tre, ma tantissime infedeltà, addirittura con sua sorella. E a come facciano le donne in generale a sopportare ciò e perché. E poi ho onestamente ammesso a me stessa che anche io in passato avevo tollerato, affatto di buon occhio, i tradimenti (quasi mai ammessi) da parte di un ragazzo che frequentai per un po’ di tempo. E ho meditato sul perché.
Così mi sono ricordata di tante cose che avevo letto, dalle sciocche alle serie, perché non si finisce mai di leggere qualcosa che riguarda l’amore, come se leggere una cosa in più ci desse qualche suggerimento vitale e risolutorio, o il segreto mai scoperto finora per l’amore vero, o felice, o che non sbaglia. E invece no. Giammai. Perché l’amore non solo non è esente dall’errore, ma è tutt’altro che giusto o razionale: non ha niente a che vedere con la sensatezza, né con la logicità. Contravvenendo ai dettami hegeliani, l’amore è sì reale, ma tutt’altro che razionale. L’unica cosa di cui si è certi è che l’amore è, come da etimologia, assenza di morte (a-mors: senza morte) e quindi quando si è innamorati si è creativi, si è eccitati, estrosi, e soprattutto si desidera stare con ed unirsi alla persona amata, fondersi con essa e (eccezion fatta per gli schopenhaueriani e gli stirneriani radicali) generare con essa, produrre insieme qualcosa, finanche appunto, spesso, generare la vita.
Ma cosa tenga davvero uniti due amanti, anche fra dolori indicibili, nessuno lo sa veramente. Lo stesso Platone diceva che gli amanti che stanno insieme non sanno dire perché, né cosa vogliano uno dall’altro… E allora, senza un senso sensato, ci immergiamo in situazioni amorose che ci sconvolgono, nel vero senso della parola, ci gettano in uno stato di ‘follia’, come dice Galimberti, dove ognuno è altro da sé, scende nel suo Inferno al cospetto dell’amato, di fronte a cui non ci si vergogna di lasciarsi sprofondare e da cui spera, e anzi si confida, di ricevere l’aiuto necessario per uscire vittorioso. A patto di fare lo stesso, noi con l’amato. In amore ci spostiamo infatti fuori dal luogo del quotidiano, fatto di regole e di senso, per travalicare negli abissi dell’indicibile, in un non-luogo dove le regole sono talvolta assurde e dove perdiamo i nostri connotati più usuali. Mi ricorderò sempre della frase che una mia cara amica mi disse una volta (mentre io ero lacrimante a leggere e replicare a e con messaggi mortiferi alla persona che mi aveva tradita e continuava a farlo, senza peraltro uscire da quella assurda situazione): “Cavoli, non ti riconosco in questi frangenti. Non sei più tu.” E lo disse preoccupata. Tanto che la cosa preoccupò anche me. E forse anche grazie a questa frase, ho poi sempre cercato di tornare in me stessa, quando le situazioni amorose si facevano pericolose o assurde. Non sempre, chiaro. A volte non sono andate solo perché sfortunate o tristi.
In effetti l’amore passionale in realtà non è conforto nè gentilezza: è per lo più sconvolgimento, essere fuori di sé, avere reazioni irrazionali, agire misteriosamente, come sotto l’impulso di un ‘demone’. Hillman nel suo bellissimo libro “Il codice dell’anima” espone la sua teoria psico-daimonica, dove il nome altisonante altro non indica che un vedere l’amore come una situazione psicologica in cui siamo guidati da un daimon, (demone nel senso di guida e coscienza interiori), verso colui che, con uno strano senso di finalità e predestinazione, consideriamo sia la persona della nostra vita e del nostro destino, come una verità che proviene dal cuore, dall’anima più profonda del nostro essere. Quell’anima che ogni volta Michelangelo cercava di tirare fuori e riproporre nelle sue opere quando scolpiva, dalla potenza all’atto (…)
Così ci tuffiamo in ogni nuovo amore credendo ogni volta che quella sia la persona giusta per noi e l’unica persona della nostra vita. Quando semplicemente non è così. E non per cattiveria, ma solo perché essa non esiste. Se vogliamo possiamo rimembrare il fascinoso mito platonico dell’anima gemella di cui tutti vanno in cerca. O più semplicemente ed onestamente possiamo ammettere che non esistono persone da amare o da non amare. Esistono solo persone con cui decidiamo, per motivi misteriosi, a ben guardare, di confrontarci e fare un percorso insieme, nella speranza che queste possano di volta in volta colmare quel vuoto che non si colmerà mai e cioè la perdita dell’amore, (quando temiamo di perdere una persona è perché inconsciamente sappiamo che l’abbiamo già persa prima ancora di averla conosciuta) quell’amore che, se siamo stati fortunati, abbiamo ricevuto dai genitori, soprattutto dalla mamma, quando eravamo bambini, quando pensavamo che l’amore si potesse meritare perché bastava fare i bravi. Ma invece l’amore non si merita, perché altrimenti sarebbe solo uno scambio, un contratto, un tornaconto. Spesso ci viene amore senza che lo meritiamo e non ce ne viene anche se dovrebbe. E non possiamo farci niente. Con l’inconsapevolezza di tutto questo, cerchiamo di strappare all’altro quanto possiamo per riempire il nostro vuoto, anche se non servirà. Perché nessuno, se non noi stessi, potrà colmare l’abisso che ci abita e che facciamo così spesso finta di non vedere, camminando, attenti a non scivolare, sul bordo del precipizio.
E così ci abbracciamo. Ci abbracciamo teneramente con chi amiamo. E se ci fate caso, una delle cose più intense che si ricordano, estraniatici per un attimo dalle passioni sessuali, sono gli abbracci. Roland Barthes nel suo “Frammento di un discorso amoroso” dice che l’abbraccio con l’amato è il gesto che ci riporta a quando eravamo bambini e bramavamo l’abbraccio della mamma più di ogni altra cosa, quell’abbraccio che prima o poi non potremo avere più. Perché il primo vero amore che finisce troppo presto è quello con la propria madre, come sa bene Leopardi, che l’amore di sua madre non lo ebbe in fondo, mai. Così con l’amato, per un po’, riviviamo il bambino che è in noi, fino a che la passione non ci spinge ad unirci sessualmente all’amato, facendo sì che l’adulto (perché la sessualità vera pertiene all’adulto, non al ragazzo) prenda il sopravvento e ci sconvolga. E così nell’illusione di un completamento e della pienezza temporanea del nostro vuoto, e nella soddisfazione della pulsione amorosa bambina e adulta che vive contemporaneamente in noi, siamo spinti ogni volta ad accettare nuovi compromessi, a gettarci a capofitto verso l’unico che sembra destinato a noi, in storie non sempre delicate, non sempre dolci, tranquille o confortanti, purché si rivivano quell’illusione e quella pienezza, ancora un’altra volta. Perché la speranza fa parte dell’uomo, e lo speriamo ogni volta che quella sia la volta buona, perché alla fine è vero che la vita spesso ci sorprende, che quando non ce lo aspettiamo forse più, poi arriva l’insperato, e arrivano le parole perfette, quelle che fanno diventare inutili tutte le altre. Almeno finché il nostro vuoto non si scopre nuovamente.
Per i biologi l’attrazione amorosa è la reazione biochimica attribuita ai feromoni subliminali, per gli junghiani l’amore è la proiezione delle figure paterne e materne nell’amato, per i romantici l’amore è l’idealizzazione, nel senso di investire chi ci sta di fronte di caratteri che noi ci siamo precostituiti nel tempo e nelle esperienze di vita e che dobbiamo ritrovare in esso a tutti i costi anche se non li possiede.
Quindi per rispondermi al perché tolleravo i tradimenti, la risposta è che non soltanto volevo che l’amato mi aiutasse ad uscire dal mio abisso doloroso, quando invece non riusciva neppure lui ad uscire dal suo, ma per di più pretendevo che indossasse il vestitino del principe azzurro che avevo confezionato solo per lui, pretendendo che fosse quello che non sarebbe mai stato. Sì. Perché le convinzioni che ci costruiamo sono la cosa più difficile da demolire. Sempre.
E intanto la vita passa.
Chiudo con questo noto e simpatico estratto da quel capolavoro che è “Il settimo sigillo” di I. Bergman.