Non chiamate anarchici i violenti

Oggi la confusione artefatta, in mala fede o in buona ignoranza delle cose più elementari regna e si diffonde. Prendono slancio idee pericolose perché aristocratiche e settarie ed è utile ribadirne l’essenza. Non vedo nulla di libertario e collettivo in certe posizioni sulla scienza, sulla natura, sull’educazione e su una generica resistenza. Mi ripeto non a caso perché le citazioni e i post che riportano detti e contraddetti di taluni personaggi che hanno fatto dell’ambiguità e del dogmatismo insieme il loro leit motiv si stanno moltiplicando in queste settimane. Tante consorterie, erano e sono decisamente contro la libertà perché usano la violenza e intendono sostituire un potere con un’altro e vengono regolarmente strumentalizzate dal potere di turno esattamente come avvenne nei cosiddetti “anni di piombo” durante i quali molti ne fecero le terribili spese, per ragioni diverse ma sempre stigmatizzatili, come Giuseppe Pinelli o il commissario Calabresi

Ascoltando e leggendo i media affannati o scatenati di questi giorni sull’affaire Cospito mi preme far riflettere seriamente sull’essenza del vero anarchismo che non può essere assolutamente violento per sua natura intrinseca.

Non viene in mente a nessuno il tempo buio dei finti anarchici provocatori fascisti infiltrati come Mario Merlino?

Condivido pienamente e riporto per intero lo scritto di CARLO CROSATO nel 2020 sul Manifesto:

«Gli anarchici li han sempre bastonati», cantava Guccini nel 1976, riassumendo la storia travagliata di un movimento i cui membri sono sempre stati malvisti, perseguitati, fucilati. Se per vittoria si intende l’imporsi definitivo di un obiettivo, perseguendo l’eliminazione di ogni forma di dominio, l’anarchismo ha sempre perso.
Rappresentando una sorta di coscienza critica e intransigente del vivere civile, gli anarchici hanno infastidito il quieto scorrere della storia al punto da meritare la peggior fama, sia essa dovuta a effettive esperienze controverse sia essa dovuta alla diffidenza derivante dall’ignoranza.
Va assolutamente superato il pregiudizio sul legame presunto fra anarchia, violenza e caos. L’anarchia, anzi, nell’espressione di massima coerenza, si lega all’elaborazione filosofica della nonviolenza, in un arricchimento reciproco volto a sradicare non solo il dominio istituito con la violenza, ma anche il dominio che la violenza stessa rappresenta, fosse anche transitoria e funzionale a un fine più alto. Eppure tale pregiudizio permane, a legittimare l’esclusione dell’istanza critica che l’anarchismo anima collocandosi sul margine esterno di ogni realtà istituzionale, spesso scoprendola poggiata sul puro abbandono fideistico.
L’anarchico chiede conto della coerenza tra principi e strumenti con cui essi vengono perseguiti: per questo non può accettare la contraddizione di una convivenza pacifica raggiunta e conservata mediante la coercizione, fuori e dentro lo Stato. Quella anarchica è una ricerca critica e autocritica di coerenza così pervicace da portare a una paradossale diversità di declinazioni di pensiero, prodotti di un dialogo incessante possibile proprio per l’assenza di punti insindacabili da difendere, che non sia quello della liberazione dal dominio e dalla coercizione. L’anarchico non ha un’immagine irenica dell’uomo, ma rappresenta la convivenza pacifica di liberi ed eguali come un intenso lavoro sulla realtà collettiva e individuale. Decenni di riflessione anarchica hanno saputo elaborare proposte concretissime e interessanti senza ricorrere per nulla a forme violente che caratterizzano invece frange di falsa e provocatoria identificazione con il vero pensiero anarchico che guarda caso mette invece sempre il fondamento della sua azione nell’ educazione.”

Sarà un caso che il pensiero anarchico è stato ed è osteggiato dal fascismo, dal massimalismo comunista, dal liberalesimo e dal capitalismo? Sarà un caso che gli unici a stigmatizzare pubblicamente le violenze di Putin aggressore e degli oligarchi russi ed ucraini ognuno per via sua parte, siano stati proprio gli anarchici russi?
Una cosa è certa comunque: a mio avviso Cospito, gli sparuti violenti nelle piazze e tutti i loro affini sono tutto fuorché anarchici. Credo siano decisamente il contrario. Proprio come ai tempi delle stragi di Stato o delle storiche vicende europee dei secoli scorsi.

Restando nel campo realmente libertario è utile rammentare questa nota in Lezioni di Anarchia Edicola 518: “Si rinunci all’ingenuità ma anche alla mera speranza: perché la ribellione è un fatto istintivo, mentre l’anarchia è una squisita questione progettuale che si fonda sul mutuo appoggio”.

Oltre ad invitare i lettori e la pubblica opinione ad approfondire il tema in termini storici seri è utile ricordare che molti intellettuali ed artisti, in campi diversi, nella storia anche recente, hanno mostrato molte e profonde affinità per il pensiero anarchico. Nel campo della letteratura possono essere ricordati Samuel Coleridge, William Blake, William Morris (autore del romanzo utopico News from Nowhere: «Notizie da nessun luogo», 1891), Oscar Wilde, Lev Tolstoj, Franz Kafka, Henri Miller, Albert Camus. Nel campo delle arti figurative vanno citati Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj. Nella musica la lista è molto lunga, tra i più significativi troviamo Fabrizio De André, John Cage, Piero Ciampi, Léo Ferré, Georges Brassens. Nel cinema ricordiamo di Jean Vigo e Luis Buñuel. Nel teatro meritano una menzione gli esponenti del Living Theatre e poi Dario Fo, i Teatri-Offesi, ecc. Nell’urbanistica: Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo. Nell’antropologia: Pierre Clastres, Marc Augé, David Graeber.Più recentemente sono apparsi diversi pensatori che hanno provato a ridare nuova linfa all’anarchismo. Tra questi possono essere citati Murray Bookchin, Daniel Guérin, Colin Ward e Noam Chomsky.

L’ elenco non si esaurisce qui. Tutti impenitenti violenti?

Per chiudere ricordiamo che cosa scrisse il grande artista Camille Pisarro mentre dipingeva i suoi paesaggi sociali urbani e rurali:

« Il primo disegno rappresenta un povero vecchio filosofo che, dopo aver creduto che era giunto il momento, guarda ironicamente la grande città che dorme; vede il sole sorgere radioso e, fissandolo molto attentamente, vede scritta in lettere luminose la parola “anarchia”; la Tour Eiffel cerca di nascondere il sole allo sguardo del filosofo, ma non è ancora abbastanza alta e abbastanza larga per celare l’astro che c’illumina.Questo filosofo rappresenta il tempo, poiché ha una clessidra presso di sé, che sarà ben presto vuota e che egli s’accinge a rigirare per iniziare una nuova era. Vedi che è del simbolismo!…

A cura di Giuseppe Campagnoli 18 Febbraio 2023




Si poteva fare altrimenti!

E dire che parlamento e governo sapevano già a gennaio come si sarebbe potuto fare.

2 settembre 2020 ritornavo dalla Francia quando là riaprivano le scuole (si fa per dire: cioè rinchiudevano di nuovo bambini e ragazzi tutti insieme negli stessi luoghi)e dopo una settimana boom di contagi! Da noi hanno “riaperto” dopo 15 giorni ed ecco puntuale il boom di contagi. Pensate a 8 milioni di studenti e più di un milione tra docenti  e  personale chiusi per ore in poco più di 40 mila plessi scolastici, per non parlare di scuolabus e mezzi pubblici vari. 

Non c’è forse memoria delle ondate di influenza passate partite proprio dalle scuole? Moltissimi bambini e ragazzi non possono essere come spesso accade positivi e asintomatici? Non si poteva praticare l’educazione diffusa e aprire veramente in modo flessibile e sparpagliato senza le concentrazioni   negli edifici “reclusori” scolastici? Si poteva. Insisto e ripeto, si poteva. E ci si poteva organizzare in modo flessibile e diffuso anche per tante altre attività pubbliche e private. Guadagnare meno, guadagnare tutti e magari, oltre al covid, combattere inquinamento, sprechi, sfruttamento , consumismo, povertà ed esclusione, pure attraverso una educazione diversa, pubbblica e diffusa.

Ecco cosa diceva Paolo Mottana al Parlamento Italiano non più di otto mesi orsono:

XVIII LEGISLATURA

VII Commissione

Seduta n. 6 di Mercoledì 15 gennaio 2020

INDAGINE CONOSCITIVA IN MATERIA DI INNOVAZIONE DIDATTICA:

Audizione di Paolo Mottana, professore ordinario di filosofia dell’educazione e di ermeneutica della formazione e pratiche immaginali presso l’Università degli studi di Milano Bicocca;

Ringrazio chi mi ha invitato, sono onorato di poter portare un contributo su questo tema che, da tanti anni, costituisce l’oggetto della mia ricerca, del mio lavoro e della mia formazione. 

  Mi piacerebbe provare ad attirare l’attenzione di chi governa le sorti dei nostri processi educativi su alcuni aspetti che mi stanno particolarmente a cuore e che credo dovrebbero essere al centro di qualsiasi politica più che di innovazione educativa, di considerazione educativa, di attenzione nei confronti dei problemi dell’educazione. 

  La prima questione, quella centrale, è che credo sia venuta l’ora, quando si parla di educazione, di educazione dei bambini e dei ragazzi, di avere in mente loro, innanzitutto, e non la loro destinazione professionale nel mondo del lavoro. Credo che chiunque si occupi di educazione o si preoccupi di educazione, anche semplicemente come genitore, come fratello, come persona umana di fronte a un cucciolo d’uomo, la prima questione che si dovrebbe porre è come renderlo felice di essere qua. Temo che le politiche educative che da sempre – perché non è certo una novità – sono state apprestate per i nostri cuccioli d’uomo, abbiano a cuore tutto, tranne che la loro felicità. Almeno durante quella stagione. Si preoccupano di un’ipotetica felicità futura, che spesso fanno coincidere con l’idea di essere inseriti all’interno del mondo del lavoro, come se questa – e noi tutti lo sappiamo bene – fosse veramente la realizzazione di se stessi. Sarebbe bello ogni tanto – anche solo nelle premesse che spesso si sentono utilizzare riguardo ai temi dell’educazione – che si potesse parlare guardando i bambini e i ragazzi, avendoli nella mente, nel cuore, nella pancia, riuscendo in qualche modo a immaginare di essere nei loro panni, come lo siamo stati. Noi eravamo anche più «educastrati» di loro, ma sicuramente in quegli anni abbiamo tutti patito molto. Abbiamo patito nel corpo, nelle emozioni, nell’immaginazione, nella creatività, come continua purtroppo ad accadere anche in una società che si dice progredita. Ma questa è una considerazione puramente generale. 

  Sarebbe bello ogni tanto leggere in un programma politico che la prima preoccupazione è quella di far trascorrere ai nostri cuccioli d’uomo alcuni anni in cui vivano intensamente la loro infanzia, la loro adolescenza, non costretti a rimanere rinchiusi in luoghi che sono tutt’altro che ospitali, non sotto la minaccia di sanzioni, di punizioni e di valutazioni, non condizionati da un sistema normativo che certo loro non hanno scelto, non avendo nemmeno scelto di essere al mondo. Ma questa è una premessa di carattere filosofico generale. 

  La seconda questione che voglio porre alla vostra attenzione è più inerente e, ai miei occhi almeno, banale, ma che purtroppo ha poco riscontro nelle politiche educative: il fatto che, se vogliamo parlare seriamente di formazione e di apprendimento, forse dovremmo porci il problema di quella cosa che si chiama esperienza. Ora, tutto c’è nelle nostre scuole tranne che esperienza. Le nostre scuole sono costruite in maniera tale da scindere le diverse parti della persona, sia quella del docente ma, molto peggio, quella del discente, e di far prevalere – in una maniera direi unilaterale – la sua testa, il suo cervello su tutto il resto della sua persona fisica, ma anche di quella psichica. 

  Sappiamo tutti che un’esperienza è qualcosa nella quale siamo coinvolti integralmente.

L’esperienza non è quella cosa di cui parlano a volte certi pedagogisti che corrisponde al «learning by doing» (una locuzione che è andata molto di moda in certi anni), non è legata necessariamente al fare; si possono avere meravigliose esperienze anche stando immobili e non facendo nulla, per esempio ascoltando un brano di musica, meditando, oppure semplicemente riposandosi. Esperienza significa essere lì, interamente, in quello che sta accadendo. Mi chiedo come mai tante teste abbiano pensato di educazione e di formazione, ma ancora oggi l’educazione che noi proponiamo a livello pubblico sia così largamente mancante di esperienze e, anzi, facciamo di tutto per evitare che si trasformi in esperienze. Quindi non dobbiamo stupirci che l’apprendimento, che solo dall’esperienza arriva, sia così scarso e fallimentare. Nessuno impara qualcosa di cui non fa esperienza, a cui non partecipa integralmente con il suo corpo, la sua mente, le sue emozioni, le sue intuizioni, la sua immaginazione. Invece costringiamo i nostri bambini e i nostri ragazzi a stare in luoghi dove sono costretti (e già la costrizione è un ottimo elemento per fugare la possibilità di un’autentica esperienza) a fare cose che non li interessa (seconda condizione che nella maggior parte dei casi fuga la possibilità di un’esperienza) e che non li coinvolge partecipativamente (terza condizione che determina la fuga dell’esperienza). 

  Credo che dovremmo cominciare ad immaginare un’educazione e una formazione che metta al centro il concetto di esperienza, e su questo mi piacerebbe poter dare una serie di idee che in otto minuti non posso dare, ma sulle quali – vi assicuro – ho parecchie ipotesi. 

  La terza questione, ma tutte queste questioni ovviamente sono collegate fra di loro, è che credo sia venuto il momento – perdonatemi se uso ancora una volta questa espressione: per me sempre sarebbe dovuto venire questo momento, ma purtroppo non accade – di pensare forse ad accogliere nuovamente nel corpo della vita sociale una parte della popolazione che abbiamo deciso di escludere da essa: i bambini e gli adolescenti. Come sapete, siamo una delle poche popolazioni, da quando esiste questo pianeta, che ha deciso di mettere i bambini e i ragazzi fuori dalla sua comunità. Li abbiamo internati dentro questi luoghi separati dalla vita sociale, che sono le scuole e, di fatto, non viviamo mai insieme a loro. Gli unici privilegiati che lo possono fare sono gli insegnanti e gli educatori. Molto spesso neppure le famiglie condividono molto tempo con i loro figli, perché ovviamente gli uni stanno al lavoro e gli altri stanno a scuola. Ora credo, e ho cercato di esprimerlo in diverse pubblicazioni in questi ultimi anni, che sia venuto il momento che la società riaccolga nel suo tessuto vivente bambini e ragazzi, perché, ciascuno secondo le sue capacità, all’interno di quel tessuto vivente impari, ovvero quello della realtà, quello dei quartieri, del territorio. Molto dipende da noi, perché siamo noi che abbiamo organizzato una società che non è in grado di ospitare neppure il movimento autonomo dei bambini e dei ragazzi nel suo seno: di questo dovremmo scandalizzarci! Dobbiamo ricostruire le condizioni perché i bambini e i ragazzi tornino ad abitare il mondo. In primo luogo perché ne hanno bisogno; hanno bisogno di essere liberati da questa prigionia così duratura e così massiccia nella quale versano per lunghissimi anni, per poter di nuovo vivere all’aria aperta, innanzitutto, e a contatto con situazioni vere, reali, non situazioni artificiose come quelle che costruisce la scuola su curricoli del tutto improbabili rispetto alle loro aspettative e alle loro potenzialità. Hanno bisogno di partecipare alla vita, di essere visti, di essere riconosciuti, di avere un loro punto di vista, di poter sperimentare la realtà nelle sue infinite sfaccettature e a noi adulti spetta il compito di organizzare la realtà in maniera tale che sia nelle condizioni di poterli ospitare. 

  Se qualcuno fosse interessato, ci sono le pubblicazioni e ci sono anch’io che posso rispondere su tutti i dettagli di questa operazione che stiamo cercando di attivare in alcune realtà, che peraltro è un’espansione di un’idea di didattica attiva, di una didattica all’aria aperta, nella quale questa costrizione concentrazionaria nei luoghi dell’educazione viene meno e dove il luogo dell’esperienza è il mondo. La scuola, anche se io preferirei chiamarla in un altro modo, il luogo dove ci si ritrae dopo aver fatto esperienza per elaborare l’esperienza come in una sorta di alambicco alchemico, diventa soltanto un aspetto subalterno rispetto alla primarietà dell’esperienza vissuta nel mondo. Vi assicuro che bambini e ragazzi sono capaci di vivere esperienze nel mondo, ma anche di dare un contributo al mondo. Ci siamo espropriati della possibilità di avere il loro contributo, il loro sguardo, i loro occhi, le loro orecchie, la loro sensibilità. I ragazzi sono molto bravi a fare un’infinità di cose e noi li abbiamo messi nelle condizioni di non poter dare questo contributo fino a non si sa bene quale età, sperando poi che diventino cittadini del mondo rimanendo per anni e anni in cattività. È una cosa piuttosto bizzarra, non vi pare? 

  In conclusione, perché le cose essenziali che volevo dire sono queste, mi aspetterei, davvero con un grande desiderio e una grande ansia, che chi si occupa di educazione, posto che abbia una vaga idea di che cosa si tratti, si ponga queste domande, si ponga la domanda di chi sono i bambini e i ragazzi, che tipo di soggetti sono e che cosa davvero noi che li abbiamo messi al mondo dobbiamo corrispondere loro affinché diventino cittadini del nostro mondo, di cui abbiamo tutte le responsabilità peraltro. In secondo luogo, che cosa sia l’apprendimento, perché continuiamo a ruotare intorno a questa questione dell’apprendimento e poi apprestiamo luoghi totalmente inadatti a una qualsiasi esperienza di apprendimento: sono i più inadatti in assoluto. Meglio lasciarli liberi, piuttosto che chiuderli lì dentro, perché almeno un’esperienza incidentale – come dicono autorevoli studiosi – potrà forse creare le condizioni di un apprendimento un po’ più significativo di quello che vivono in luoghi dove sono costretti a stare. In terzo luogo, la necessità che hanno di vivere accanto a noi, non separati da noi, dentro la società, non separati dalla società, all’aperto e non al chiuso, così come noi abbiamo l’esigenza di averli con noi. Pensate a quanto perdiamo in termini di bellezza, di spontaneità, di calore, di sguardo attento e ancora non preso dall’ansia del produrre che solo bambini e ragazzi possono avere e possono aiutarci a ritrovare, se solo li riammettessimo all’interno delle nostre comunità. Queste sono le cose che mi sembrava giusto dire.”

E non ho altro da aggiungere se non che proprio i luoghi della città e del territorio con i loro multiformi attori sono lo scenario indispensabile, mutevole, stimolante e sempre vivo per l’educazione diffusa. Ricominciamo allora a cambiare tutto a partire dall’educazione perchè è solo da lì che lo si può fare.

Giuseppe Campagnoli 25 Ottobre 2020




L’indicibile armada.

Ho già detto molto sul programma del nuovo governo populista ma non popolare. Nei recenti articoli ho parlato di economia e di educazione rilevando come il programma sia ambiguo in qualche caso, illiberale e iniquo in qualche altro, razzista e intollerante altrove e permeato in toto da un’aura di neoanalfabetismo culturale e sociale. Meno male che ci saranno sangennaro e la madonna del rosario a proteggere Di Maio e  Salvini con padrepio per il Prof. Conte! Il paradosso che resta è invece nelle difese a oltranza di personaggi dei media o della “cultura” pop  come Scanzi, Travaglio e altri da posizioni liberali o sedicenti progressiste sputando sentenze sul concetto di sinistra tradita come se ne fosse mai esistita  una negli ultimi vent’anni e come se il concetto di sinistra fosse in certe compagini partitiche o movimentiste invece che in un insieme di idee contrapposte al capitalismo, allo sfruttamento, all’intolleranza, all’assistenzialismo che tacita i poveri e lascia i ricchi ladri e criminali dove sono. Il governo del cambiamento ha declinato le sue ambigue intenzioni tra cose discrete e cose decisamente riprovevoli nel famoso contratto mercantile tra due forze politiche apparentemente e dico apparentemente agli antipodi.

contratto_governo

Tra le buone superficiali intenzioni che ho letto nei pochi punti un po’ più concreti del “patto” con gli italiani  piacerebbe alle persone di buonsenso che, almeno nel primo anno di governo:

  • riuscissero a mandare in pensione gli esodati e i “bloccati” over 65 dalla Legge Fornero senza ulteriori costi e danni per loro e per l’Italia
  • tagliassero le pensioni superiori a 5000 Euro netti mensili mentre contenessero con rigore simultaneamente, attraverso le tasse, anche i redditi e le rendite totali al massimo a 5000 Euro netti mensili così da “plafoner le revenues” come direbbero i francesi e mitigare gli effetti del capitalismo e del mercato nelle more della loro progressiva completa abolizione. Così potrebbero garantire un reddito minimo e un salario minimo di almeno 1000 Euro per il periodo strettamente necessario ad assicurare un lavoro per tutti, all’altezza degli studi, dei bisogni e delle possibilità di ciascuno proibendo speculazioni e accumuli.
  • garantissero un piano fattibile di  ricerca, individuazione e reclusione in tempi brevi per gli evasori fiscali piccoli e grandi che sono la prima causa del debito pubblico italiano che in parte detengono essi stessi con i soldi rubati;
  • si adoperassero per l’educazione con l’avvio di una rivoluzione totale del sistema scolastico, da abolire definitivamente in direzione di una controeducazione non mercantile, non reclusoria, non meritocratica, non classificatoria ma tesa alla formazione di persone libere, solidali, rispettose della natura e di tutta l’umanità.
  • rifondassero la sanità pubblica limitando le competenze e le speculazioni di quella privata alle sole materie non essenziali (sottraendo per esempio al mercato le cure dentali e quelle estetiche fondamentali) e lasciando agli sciamani le teorie antiscientifiche e pericolosamente retrograde;

Per quest’anno basterebbe questo. E non sarebbe affatto impossibile. Ma credo, visto l’andamento a volte lento, a volte ondivago a volte pericolosamente demagogico dei primi mesi, che non saranno assolutamente in grado neppure di cominciare, a meno di un miracolo con l’aiuto dei loro esibiti santi protettori. A risentirci tra sei mesi.

Giuseppe Campagnoli

7 Giugno 2018-4 Novembre 2018

“L’indicibile armada”