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A memoria

Scuola: basta con l’imparare a memoria?

L’apprendimento a memoria ha fatto soffrire intere generazioni e molti educatori sono convinti della sua inutilità. Sarebbe da eliminare questa pratica di insegnamento? Non è poi così sicuro.

DI RACHID ZERROUKI PROFESSORE ALLA SEGPA A MARSIGLIA E GIORNALISTA. Libération 3 gennaio 2023.

Traduzione e commento di Giuseppe Campagnoli

Ci sono parole che occupano i nostri ricordi con insistenza come macchie di calcare che non vanno via neppure con il bicarbonato. Possono essere frasi, testi di canzoni o slogan pubblicitari. Per Amine sono i versi di una poesia: “Todo Pasa y todo queda” ( «Tutto passa e tutto rimane»). Le recita il giorno del suo matrimonio e alla minima esitazione, il suo testimone, Adil, prosegue. I due trentenni sono cresciuti insieme a Cavaillon, nel Vaucluse. Uno è un infermiere in un ospedale di Nizza, l’altro compra e rivende criptovalute a Dubai. Erano nella stessa classe alle medie quando il loro insegnante di spagnolo ha chiesto loro di imparare a memoria questa poesia di Antonio Machado. È stato 17 anni fa.

Adil è certo che questo esercizio non gli ha permesso di progredire nella lingua straniera ma si rende conto che lo scopo dell’esercizio era un’altro: «Cercava di insegnarci la vita più dello spagnolo», spiega. Conserva l’immagine del sig. Hortelano come un professore romantico, tra coloro che mandano al diavolo le istruzioni ufficiali e che insegnano con il cuore e con le viscere. Faceva l’appello una volta su tre, saliva sui tavoli e preparava le sue lezioni sui post-it, ma le sue mille vite gli permettevano di affascinare il suo pubblico come nessun altro. Era stato marinaio, saltimbanco, poeta, manutentore. Insegnare era per lui un’arte e mai una scienza. Far imparare ai suoi allievi una poesia che gli stava a cuore non obbediva ad alcuna logica pedagogica ma rispondeva ad una volontà umana tutto sommato banale: trasmettere agli altri ciò che si ama.

INGURGITARE A MAN BASSA

Durante la mia formazione universitaria, mi è stato descritto il professore che ricorre al metodo della memoria come, più o meno, una nullità. Bisogna dire che, come il dettato o la lavagna col gesso, l‘imparare a memoria fa parte di quei dibattiti che sono stati padroni nelle sale dei professori. Alcuni reclamano il loro ritorno per idolatria del passato; altri, per reazione, combattono tutto ciò che vi si avvicina. I miei formatori, provenienti da una generazione che questa pratica ha maltrattato facevano parte della seconda categoria: l’apprendere a memoria è stato posto al servizio della loro preparazione diventando lo strumento di quello che il pedagogo Paulo Freire chiamava «la pedagogia bancaria»: una visione dell’insegnamento secondo cui l’unico margine di manovra che si offre agli alunni è quello di ricevere e accumulare, conservare e risputare in cambio di un voto numerico. Risultato: «Ripensando al concorso dei professori delle scuole, avevo l’impressione di scoprire per la prima volta l’età d’oro dei Capetingi o la portata dell’editto di Nantes», racconta Damien, professore in Dordogna. Oggi, alle nozioni che gli sono state fatte «ingerire a man bassa » oppone l’approccio creativo e di ricerca insieme alle elaborazioni libere degli allievi stessi.

La sua collega nella scuola Vaucluse, Hélène, non ha eliminato la memoria ma, nella sua modo di insegnare, ha tenuto a distinguerla da un’altra pratica: «Conoscere a memoria con curiosità, libertà e animo è anche fare proprio un sapere, un testo, un’espressione matematica…Lo psittacismo invece consiste nel ripetere meccanicamente come un pappagallo»

Questo termine, che utilizza in senso figurato, designa un autentico disturbo del linguaggio che spinge chi ne soffre a ripetere le parole altrui in modo meccanico, senza comprenderne il senso. La distinzione che fa Helena allevierà le apparenti contraddizioni di tutte le persone irritate dall’imparare a memoria ma che sono beate di ammirazione nel vedere i loro ottantenni genitori declamare le lunghe tirate del Cid de Corneille apprese decenni prima.

Caroline Boudet, autrice, è una di queste. Racconta che l’imparare a memoria che l’ha disgustata è quello in cui non si percepisce «né la logica, né l’interesse, né la bellezza». C’è infatti un altro apprendimento, né stupido né malvagio, che non si oppone all’apprendimento e alla comprensione ma le nutre. Certo, «sapere a memoria non è sapere» come diceva Montaigne, aggiungendo che è «conservare in memoria ciò che si è ricevuto». Ma è forse, ci dicono le recenti scoperte in neuroscienze, c’è un po’ di più: lungi dall’offuscare l’intelligenza, la memoria la alimenta, la suscita, le fornisce dei materiali.

«UNA PICCOLA IMPRESA CHE NE PREFIGURA DI PIÙ GRANDI»

Si tendeva a credere nel neuromito secondo cui ognuno di noi avrebbe avuto una memoria di apprendimento privilegiata che ci permetterebbe di comprendere meglio e memorizzare le conoscenze: visiva per gli uni, uditiva o cinestetica per gli altri. Nelle sue opere, il ricercatore di psicologia cognitiva Alain Lieury, spazza via questa idea spiegando che le informazioni visive o uditive non fanno che transitare nelle memorie sensoriali, e si ritrovano fuse in una memoria comune, memoria lessicale o memoria delle parole di cui l’apprendimento a memoria è il motore principale. Certo, il significato delle parole è altrove, alloggiato in un’altra memoria detta semantica e che si nutre di esperienza e di manipolazione. Ma la memoria lessicale è la carrozzeria, è quella che i genitori nutrono ripetendo senza fine la parola «automobile» al loro bambino quando quest’ultimo disegna l’oggetto in questione. Senza questo elementare apprendere a memoria, unanimemente incoraggiato, nessuna forma di comprensione potrebbe svilupparsi nel bambino.

Al di là della comprensione, credo che ci sia una memoria che nutre la fiducia in se stessi. È una convinzione personale che non mi ispira alcuno studio ma nella quale la mia esperienza mi conforta. In un piccolo raccoglitore in fondo alla classe, metto insieme poesie, monologhi o estratti di romanzi che mi hanno personalmente colpito. Se uno studente ne impara uno, viene ricompensato; altrimenti, tanto peggio. Ma la stessa musica si ripete ogni anno: giurano che il loro cervello non è capace di trattenere nulla. Provano per orgoglio o per costrizione, lottano e poi riescono. E poi, nel sorriso da vincitore che mostrano dopo aver recitato Prévert o Mahmoud Darwich, nel loro alzare la testa e nella loro palpabile sicurezza, lo vedo: hanno fatto tacere la piaga delle vocine che dicevano loro che non ne erano capaci. L’apprendere a memoria assume allora la definizione di Paul Ricœur: «Una piccola impresa che ne prepara di più grandi.» Perché alla fine è vero, “todo pasa”, ma tre cose di sicuro «quedan»: le parole che abbiamo imparato, la fiducia che abbiamo acquisito e la bellezza che abbiamo coltivato.”

CHE FARE?

La chiave in ogni attività di ricerca, scoperta e apprendimento è la curiosità, l’interesse, la passione anche nel libero e, a volte, faticoso trattenere idee, pensieri, parole, concetti e segni, senza alcuna costrizione ma con la consapevolezza non indotta ma condivisa della loro utilità per la vita.La memoria è una componente naturale che dovrebbe intervenire quando se ne ravvisi l’importanza e la validità che la mente chiede per assimilare in virtù di un profondo interesse senza finalità competitive o classificatorie ma di crescita personale e pure collettiva.

Pensiamo all’apprendimento a volte affrontato con un apparente inutile ripetere, della simbologia e dell’essenza della lingua, della musica, delle arti senza il quale non si potrebbero possedere e praticare anche attraverso l’estrema libera creatività delle combinazioni e dei richiami, questi linguaggi soprattutto con l’esperienza dell’induzione e una serie infinita di “chocs educativi“.

Nell’educazione diffusa c’è anche questo in controluce ma in una modalità opposta rispetto a quella usata e abusata da tempo. Lo vedremo bene nel prossimo scritto in uscita di Paolo Mottana sul “sistema dell’educazione diffusa”, dove ne verrà delineato tutto il percorso pedagogico, ambientale e anche didattico. Il 2023 sarà l’anno cruciale.

Giuseppe Campagnoli Gennaio 2023

Cosa vuol dire educazione diffusa?

 

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Educazione diffusa non vuol dire uscire ogni tanto dalle scuole per fare più o meno le stesse cose che si facevano nelle aule, nelle aule speciali, nei laboratori come non vuol dire spostare banchi e sedie e metterli in circolo, a zig zag, uno sopra l’altro e neppure intensificare la perniciosa “progettite” di una pletora di attività esterne estemporanee e spesso solamente ricreative. Educazione diffusa non significa neppure fare le cose consuete o timidamente innovative nei diversi luoghi della città così come sono, senza trasformazioni significative senza mutamenti progressivamente radicali degli spazi, delle forme, delle loro funzioni e usi, dei loro significati. Educazione diffusa non significa sostituire la lezione frontale o altre forme di didattica più o meno avanzata con altrettante sperimentazioni che si pongono sulla stessa linea delle pedagogie imperanti nel mercato educativo in genere di importazione nordeuropea o anglosassone valutate sempre con entusiasmo dai classificatori ufficiali internazionali che rispondono all’imperante modello economico. Significa invece ribaltare lentamente ma decisamente i paradigmi fondamentali dell’educazione, dell’istruzione, della formazione, dell’ insegnamento e dell’apprendimento verso l’esperienza, la ricerca, l’erranza, l’apprendimento incidentale  istintivo e ricco di emozione verso la creatività, la passione e il coinvolgimento, gli unici che in fin dei conti restano non solo nella memoria ma nel nostro io più profondo e permanente.

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Molti sostengono di aver praticato o di praticare tuttora l’educazione diffusa ma in realtà si tratta solo di timide uscite dal seminato istituzionale, comunque tollerate e digerite ampiamente da tutto il sistema del controllo dell’istruzione che a volte si spinge anche a concedere premi e riconoscimenti perchè  sa bene che comunque tali pratiche (spesso considerate best practices) cambieranno poco o nulla dell’apparato educativo che conviene a questo tipo di società del consumo totale e universale. Altri credono, tra i quali molto frequenti gli esperti e docenti delle discipline scientifiche e matematiche, (che, paradossalmente, sono stati proprio i primi nella scuola italiana, a godere di insegnamenti universitari di didattica specifica) che non si possa, per il successo scolastico e professionale, prescindere assolutamente da un insegnamento basato sulla propedeuticità, sulla rigida progressione delle nozioni, sulla ripetizione e sulla restituzione pedante dei saperi, sull’esercizio matto e disperatissimo, proprio in genere delle sole prestazioni materiali e fisiche.

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Occorre svuotarsi di tantissimi stereotipi e cattivissime abitudini, pensare che la nostra mente non può essere costretta dentro schemi e paratie più o meno stagne perché essa agisce in tutte le direzioni simultaneamente in ogni sua parte e connessione e che tutti i linguaggi hanno eguale dignità ed importanza in questo contesto senza gerarchie o classificazioni. Il resto viene da sé: la passione, il talento, l’apprezzamento e l’uso di ciò che si è appreso interessandosi, agendo, coinvolgendosi, risolvendo problemi e contribuendo a trasformare e far crescere la città e l’ambiente in ogni suo aspetto ritornando a farne parte attiva in ogni età della vita.

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Nel corpus del Manifesto della educazione diffusa, ma soprattutto nelle sue appendici e nei modelli suggeriti o nei racconti di ciò che si sta realmente facendo in questa direzione, c’è la spiegazione di che cosa realmente sia l’educazione diffusa e di come si possa cominciare a praticarla. C’è un primo approccio agli strumenti possibili che dovranno essere approntati e predisposti facendo anche tesoro di tutte le altre esperienze pedagogiche innovative e rivoluzionarie che nel tempo hanno provato a mutare radicalmente i concetti di educazione ed istruzione,  per far sì che, comunque sia, anche se in forme, tempi e luoghi diversi, non vengano meno i saperi indispensabili alla vita ed alle sue diverse forme, soprattuto di relazione e di comunità , immerse in una società. he deve cambiare, in modo attivo e partecipe.  C’è l’indicazione di come non si possa assolutamente fare  meno di un ripensamento globale della città, dei territori e  delle loro architetture, dell’abitarli e viverli.

 

Nell’educazione diffusa c’è l’idea di come, nel tempo ma in modo deciso e senza compromessi, si debba fare a meno dell’edilizia scolastica a favore dell’uso dei portali collettivi ben descritti nel testo e che introdurranno e faranno da basi per il diffondersi nella città educante. Anche per questo sono irrinunciabili il sodalizio culturale e la sintonia politica (quella nobile) tra il mondo della scuola pubblica, quello delle amministrazioni illuminate, dell’associazionismo culturale, sociale e del volontariato, dell’architettura e dell’educazione nonché di tutti i cittadini coraggiosi e consapevoli. Non vi sarà educazione diffusa se non si agisce, senza compromessi, timidezze o ipocrisie,  sull’attuale modo di pensare la scuola, la società e il territorio che li ospita. Tutto questo comporta per forza una serie di atti contrari ma  finalmente positivi. Non è facendo finta di innovare quello che c’è, perché resti alla fine tale e quale, che si potrà oltrepassare questa scuola come è nelle nostre idee.

Giuseppe Campagnoli

13 Marzo 2019

 

L’educazione diffusa allo Sponzfest 2018

 

Un’ambasciatrice d’eccezione ha portato il Manifesto della educazione diffusa in seno allo Sponzfest di quest’anno: “Lo Sponz Fest, nella sua edizione del 2018, vuole indagare l’oscurità delle selve, l’emersione del rimosso, insomma, l’ampio versante del selvaggio liberatorio che ci salva tutti, approcciandolo lungo molteplici strade: con gli incontri della Libera Università per Ripetenti, con le istallazioni artistiche e gli scatenamenti musicali e festivi, con l’esplorazione dei territori selvatici e, infine, con l’esperienza di una notte selvaggia che evocherà le paure e i rimpianti più ancestrali per esorcizzarli durante il culmine dell’edizione” 

Nell’ambito dell’intenso programma del festival 2018 dedicato alla “selvatichezza” voluto e diretto da Vinicio Capossela, oltre la musica, lo spettacolo, le arti varie e le performances, l’iniziativa di presentazione del libro  scritto da Ester Manitto sull’esperienza straordinaria vissuta con AG Fronzoni che è sfociata nel progetto di scuola diffusa in seno agli istituti di alta formazione artistica di Milano (NABA ,Marangoni..) ha avuto come corollario una vetrina sull’educazione diffusa e sulla città educante ormai pronte a rendersi concrete con la pubblicazione del Manifesto operativo della educazione diffusa.

 

 

Scrive Ester  Manitto circa la sua esperienza a Milano:

“Perché “La scuola diffusa”? Spostare i confini e imparare facendo.Gli episodi che mi hanno consentito di sviluppare le riflessioni e quindi le proposte didattiche che da qualche anno sperimento con i miei allievi hanno origine, in parte, da quando, nel 1987 studentessa di A G Fronzoni, ebbi modo di apprezzare il metodo didattico che egli aveva formulato nella sua scuola-bottega.
Fu Albe Steiner che nel 1967 chiamò A G Fronzoni a insegnare all’Umanitaria: da allora Fronzoni si dedicò all’insegnamento per tutta la vita, e nel 1984, quando fondò la sua scuola-bottega mise in pratica il programma che avrebbe voluto applicare già negli istituti dove aveva insegnato fino ad allora, ma che a causa dei rigidi schemi scolastici non poteva applicare pienamente. Diede così vita a una scuola diversa da quelle esistenti. Per fare questo trasse ispirazione dal concetto di “bottega” rinascimentale, il luogo, dove gli allievi si recavano a “imparare facendo” sotto la guida di un Maestro.” 

La mia scuola diffusa

“La scuola diffusa” nella città di Milano è il mio progetto didattico che intende creare percorsi educativi per gli studenti che scelgono di studiare design, comunicazione visiva, arte, moda a Milano. Orientare questi giovani fuori dai perimetri psicofisici degli istituti diventa quasi un’esigenza considerando che Milano è la capitale del design. La scuola diffusa, è un progetto che prende forma per generare connessioni con la realtà della città di Milano (e non solo) anche grazie alle manifestazioni permanenti e periodiche che si susseguono nella vasta offerta metropolitana.
L’idea de “La scuola diffusa” nasce da un ragionamento maturato con l’esperienza. Gli studenti che frequentano le scuole di design a Milano prevalentemente provengono da svariate parti d’Italia, d’Europa e del mondo, pertanto la loro conoscenza di Milano è scarsa se non addirittura nulla. Creare per loro percorsi didattici mirati è un’occasione formativa molteplice che consente sia di approfondire i loro interessi, sia di conoscere meglio la città dove vivono e studiano per sentirsi un po’ meno estranei.
L’intento del mio programma è di suggerire itinerari per imparare a percepire il d’intorno come un sistema educativo, come se fosse la città di Milano medesima, attraverso le sue infinite peculiarità, a diventare università.
Gli itinerari de “La scuola diffusa” generalmente includono luoghi deputati al design, all’arte, alla moda, studi di professionisti, Fondazioni dei maestri del design, show-room, gallerie d’arte, negozi, laboratori, mostre, fornitori, eventi, manifestazioni, ma anche eccellenze relative alla cultura italiana.”

Questa è la prova che l’educazione diffusa può svilupparsi e nascere in qualsiasi contesto di apprendimento e di vita, in grandi città come in piccoli centri, in aree di esperienza che toccano le arti, la scienza, il design, la lettura, la scrittura, la musica e tanto altro e che i luoghi per una città educante ci sono già: basta usarli, trasformarli, ridisegnarli e renderli vivi e stimolanti. Il disegno di una città educante è collettivo, corale, progressivo e continuamente mutante.

Lo scriveva in una accezione di educazione diffusa ante litteram anche l’architetto, anarchico, educatore ed economista Colin Ward di cui, nella presentazione del volume  “L’educazione incidentale”   Elèuthera Milano 2018, si dice: “Famiglia e scuola sono sempre stati considerati i luoghi per eccellenza dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze, acquisiscono un’educazione. Colin Ward decide invece di esplorare un particolare aspetto dell’educazione che prescinde da queste istituzioni: l’incidentalità. Ecco allora che le strade urbane, i prati, i boschi, gli spazi destinati al gioco, gli scuolabus, i bagni scolastici, i negozi e le botteghe artigiane si trasformano in luoghi vitali capaci di offrire opportunità educative straordinarie. Questa istruzione informale, volta alla creatività e all’intraprendenza, rappresenta pertanto una concreta alternativa a un apprendimento strutturato e programmato che risponde più alle esigenze dell’istituzione e del docente che alle necessità del cosiddetto discente. Si configura così un approccio al tempo stesso nuovo e antico alla trasmissione delle conoscenze in grado di fornire un’efficace risposta a quella curiosità, a quel naturale e spontaneo bisogno di apprendere, che sono alla base di un’educazione autenticamente libertaria.”

Concludo con le immagini ed alcune frasi emblematiche tratte dai volumi che raccontano insieme, anche a distanza di luoghi e di tempi, ma in una rara sintonia di intenti, un’ idea che parrebbe utopistica ma non lo è affatto perchè ciò che sta accadendo oggi, lentamente ma decisamente, è la sua applicazione reale in vari modi nella città e nel territorio dell’educazione.

Giuseppe Campagnoli

25 Settembre 2018

 

 

“Dalla didattica della progettazione alla didattica di uno stile di vita”

” Mai più aule tra i muri e studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”

” Ora entriamo in quella che lei definisce la “Casa Matta” , una delle cinque basi o tane dove si riuniscono le ragazze e i ragazzi e le bambine e i bambini per ritrovarsi con i mentori e per prendere decisioni, discutere, concordare progetti…”

“Ogni angolo della città è un’aula scolastica, ogni strada uno spazio di incontro e di sperimentazione di relazioni vitali, ogni contesto urbano o rurale in cui viviamo è un luogo di apprendimento,ogni occasione è propizia a stimolare l’autonomia e la partecipazione diretta alla vita sociale”

 

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