“Poteva essere quasi una garanzia. Affidare a un britannico il compito di realizzare il film biografico su Bonaparte era rassicurante: Ridley Scott non poteva realizzare sicuramente un’agiografia dell’imperatore francese. A 85 anni, il vecchio “Rid” affronta la montagna di Napoleone, con l’intenzione dichiarata, almeno in fase di promozione, di farla finita con il suo mito glorificato. Il generale corso (di origini toscane ndr) interpretato da Joaquin Phoenix non è certo l’eroe di un romanzo nazionale. Bambino capriccioso e pieno di arroganza, cocco di mamma, malato geloso, estraneo al valore della vita umana, goffo golpista salvato dalle armi, Napoleone è tutto questo in Scott. Come un bambino che ha fatto durare un po’ troppo il suo gioco di soldatini, spargendo le sue figurine sulla mappa di un’Europa messa a ferro e fuoco.
Viene la tentazione di riconoscere in questo Napoleone un lontano cugino di David, l’androide genocida di “Alien: Covenant”, recente opera di Ridley Scott caratterizzata dalla stessa fascinazione-repulsione per la figura del male. L’idea sarebbe affascinante se non fosse affogata in un film destinato al fallimento, soprattutto quando intende abbracciare l’intera vita dell’imperatore. Un’impresa titanica su cui lo stesso Stanley Kubrick si spezzò negli anni ’70, mentre ci vollero quasi cinque ore di pellicola per sintetizzarla, nel 1927, al francese Abel Gance. La versione trasmessa nelle sale dal 22 novembre, della durata di 2 ore e 40 minuti, non è il montaggio finale voluto da Ridley Scott, che dura più di 4 ore e uscirà successivamente, esclusivamente sulla piattaforma Apple TV+.
Un successo solo hollywoodiano
Anche la versione cinematografica dà la sgradevole sensazione di rientrare nelle aspettative napoleoniche. In pochi minuti le campagne d’Egitto e di Russia sono finite, e l’esilio all’Elba è appena accennato. Ridley Scott, tuttavia, si concede alcuni sbalzi piuttosto angoscianti quando dipinge una folla rivoluzionaria e un Robespierre che muore in modo assai caricaturale in una sequenza del tutto superflua per la trama.Dopo la visione, ci chiediamo cosa intendesse davvero raccontare Ridley Scott oggi, nel 2023 con il suo “Napoleone”. Forse il regista britannico, come il suo soggetto, ha ceduto alla sua arroganza, alla prospettiva di orchestrare grandiose sparate. Il film ruota principalmente attorno a due momenti salienti, le battaglie di Austerlitz e poi di Waterloo, dove il regista dimostra di avere ancora qualcosa da insegnare.
“Napoleon” rimane un blockbuster furiosamente hollywoodiano, che costituisce l’altro suo limite, come questa insistenza sulla storia d’amore tossica con Joséphine de Beauharnais. La loro storia d’amore è descritta come la quasi unica forza trainante della sua azione, la materializzazione delle sue manie di grandezza. Napoleone quindi non è mai veramente razionale, mai politico. Non governa, è solo il desiderio di conquistare, guidato dalla fede nel proprio destino. Troppo hollywoodiano per i suoi detrattori e troppo mostruoso per i suoi elogiatori, il Bonaparte di Scott fluttua tra i ricordi. La versione lunga forse correggerà la situazione. Nel frattempo, Ridley Scott si unisce al grande esercito di coloro che non sono riusciti a conquistare Napoleone.”
Nella eterna diatriba su che cosa sia di sinistra o di destra, liberista o liberale o meglio ancora fondato su libertà di pensiero ed equità sociale proviamo a declinare e classificare in termini di equità e giustizia i precetti delle tre religioni che oggi dominano su molte idee e anche. ahimè, su molti fatti della vita quotidiana, della storia e della politica. I testi sono riportati in ordine cronologico: la Bibbia, i Vangeli, il Corano. Infine il testo della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
Tralasciando la storia del passato e i fatti tremendi che l’hanno scandita anche per colpa di tutte le religioni, oggi che senso hanno questi precetti ad eccezione del non uccidere, del non perseguitare, del garantire libertà e pari ricchezza e dignità a tutti? Penso che tutto ciò che confligge con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, coniugata con una rigorosa società di eguali, sia da mettere subito e senza indugi fuori legge. Continua la lettura di Le religioni abramitiche. Fondamenti di iniquità?→
Non lasciamoci fregare. Il postfascismo può essere decisamente peggio del fascismo. Si aggiorna in senso deteriore dissimulando una ideologia antidemocratica e antipopolare più subdola e gregaria del liberismo nazional popolare.
Il premier italiano Giorgia Meloni è “neo” o “post”-fascista? Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”? Esistono le “neo-femministe”? Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola. “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo. Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia. La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità; il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene. Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo. ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico. La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato. Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico.“Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo. “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione. È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.“
Da non sottovalutare, in questo quadro, c’è la tolleranza o quanto meno l’assenza colpevole di certa sinistra liberaleggiante che forse fa già parte di quell’altra faccia del postfascismo rimeditato negli effetti che non è certo nostalgia ma sicuramente terribile attualità neoliberista come ben scrive Paolo Mottana:
“Due righe sul fascismo: oggi, come è evidente, la parola fascismo, ben oltre le sue origine storiche, individua una lista di comportamenti che, genericamente ma correttamente, definiamo fascisti: autoritarismo, violenza verbale e fisica, imposizione, giudizi sommari, crudeltà gratuita, condanne per le idee ecc. ecc. Quindi oggi vorrei celebrare non solo la Liberazione con la L maiuscola, quella che conosciamo perché ci è stata tramandata dai nostri vecchi e che ci parla di libertà da sofferenze inaudite ma anche una liberazione minore, da tutti i fascismi che infettano il mondo: quelli che ci imprigionano in rapporti violenti, quelli del lavoro dove capi e capetti si permettono di insultare e vessare gratuitamente perché hanno uno straccio di potere, dove siamo giudicati in base a invidie e ritorsioni, quelli del tempo che ci viene rubato o castrato, quelli delle deportazioni (quella scolastica o lavorativa per esempio), quando accettiamo di subire ogni tipo di potere sulla nostra vita senza ribellarci, o ribellandoci e venendo immediatamente schiacciati da sanzioni di ogni genere, di quelli che ci indicano cosa fare, come impiegare il nostro tempo residuo e non ci rendiamo più conto che non sappiamo più fare una scelta autonoma perché tutte le nostre scelte sono già predecise altrove (sulle vacanze, sul tempo libero, persino sul riposo e sul fare l’amore), quelli della coppia talvolta, della famiglia troppo spesso, delle code in auto, degli ammassamenti sulle metropolitane, dei centri commerciali, delle spiagge in batteria come polli a cuocere alla griglia, dei programmi televisivi a senso unico, di tutti i fanatismi, buoni o cattivi, religiosi o laici.Vorrei celebrare la liberazione dai fascismi che fanno della nostra vita una vita da schiavi, da sottomessi, laddove spesso siamo noi stessi a non saper leggere il fascismo interno che noi stessi ci rifiliamo pur di non vivere l’ebbrezza spaesante di una vera liberazione.“
Fascismo e fascismi dunque, a braccetto insieme e assai più pericolosi e criminali se ben propagandati da una avanzante occupazione culturale multiforme, subdola, a volte sfacciatamente palese e, a volte, anche pericolosamente subliminale.
Articoli di RISS e Yovan Simovic su Charlie Hebdo.Traduzione e riedizione di Giuseppe Campagnoli.
Estrema destra: odiare gli ebrei o i musulmani, bisogna scegliere! Dalla Francia in Europa tutto il mondo è paese.
La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese risveglia una febbre antisemita in una parte dell’estrema destra europea. Ma nell’altra parte (vedi Italia) si è voltata pagina da tempo e si sostiene Israele, soprattutto per odio dei musulmani e per convenienza internazionale. Si era quasi dimenticato che prima di cacciare il capretto arabo l’estrema destra gli ha a lungo preferito il «giudeo». Fortunatamente per le nostre piccole e misere memorie, la grande storia torna sempre a ricordarcelo. Così, in occasione della rinascita del conflitto israelo-palestinese, i confratelli negazionista e antisemita non hanno mancato di salutare il «certo coraggio» di Jean-Luc Mélenchon che non si è «allineato incondizionatamente sull’entità sionista». Il patrono ufficioso della coalizione francese do sinistra oggi viene «demonizzato come lo era ieri Le Pen». Jean-Marie naturalmente. Dal momento che vi si dice che il fiore fine dell’antisemitismo francese è uscito per difendere gli islamisti palestinesi: Alain Soral stesso, sul suo sito «Uguaglianza e Riconciliazione», segnalava «il legame tra il terrorismo israeliano e Hamas».
Certo, sono profili quasi «storici» dell’antisemitismo di estrema destra, ricorda lo storico Nicolas Lebourg. E l’attualità internazionale li spinge, logicamente, a posizionarsi dietro i terroristi di Hamas, alleati di circostanza.
Perché nel campo di fronte c’è il nemico giurato: Israele.
Ma è anche un odio tenace dell’imperialismo che può avvicinare le estreme destre europee al terrorismo islamico antisemita. In un articolo di Le Monde, pubblicato il 23 ottobre, si apprende che un ex eurodeputato «nazionale conservatore» proveniente dal Partito della libertà d’Austria (FPÖ), nonché tre vicini della formazione politica, a fine settembre hanno effettuato una piccola visita di cortesia presso i talebani afgani. Ufficialmente, la piccola delegazione veniva «ad organizzare, o almeno a riorganizzare, il ritorno di un certo numero di afghani in direzione del loro paese d’origine», spiega Patrick Moreau, storico e politologo specialista degli estremismi in Europa. «Ma in realtà è anche per la fortissima dimensione ideologica, antiamericana, che li riunisce», si affretta ad aggiungere. Si trattava quindi di venire sul posto a rallegrarsi, in prima fila, del successo di questi talebani che sono riusciti comunque a mettere gli Yankees alla porta.
Da noi stranamente, almeno nella facciata governativa la destra, anche estrema è allineata di fatto con USA e Israele dimenticando che di essere l‘erede di quell‘Almirante mai rinnegato redattore della famigerata antisemita “Difesa della razza“ La Storia recente provocata dalle persecuzoni nazifasciste italotedesche, russe, polacche, ungheresi…”
Un po’ di storia:
In risposta al crescente antisemitismo contro gli ebrei in Europa, alla fine del XIX secolo dopo secoli di Diaspora (già da prima del tempo dei romani) emerse un movimento sionista che sosteneva la necessità di uno stato ebraico. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si tennero le prime Aliyah che portarono decine di migliaia di ebrei europei a stabilirsi in Palestina; l’immigrazione ebraica nella regione accelerò in seguito alla seconda guerra mondiale e all’Olocausto. Il ritorno in massa degli ebrei in Terra di Israele è una costante della tradizione religiosa ebraica scritta ed orale, in genere associata alla venuta del Messia. Per molti rabbini, e comunque per i laici, il sionismo è appunto l’inizio dell’era messianica. Nel 1950 lo Stato di Israele ha codificato l’aliyah (e la cittadinanza) come un diritto di ogni ebreo nella legge del ritorno. Israele è in effetti un paese di immigrati (per ragioni religiose o, dal 1882, sioniste) o, più propriamente, un paese di profughi (dal 1933).
Nel 1904 Israel Zangwill, uno dei più famosi scrittori ebrei del primo Novecento, pronunciò un famoso discorso a New York argomentando la necessità che il popolo ebraico, da secoli sparpagliato nei vari paesi europei, occupasse con la forza la Palestina, che gli ebrei da sempre considerano la “terra promessa” donata loro da Dio. Zangwill in particolare riteneva che fosse necessario conquistare la Palestina con la violenza, «per cacciare con la spada le tribù che la posseggono, come hanno fatto i nostri padri». Un movimento politico e culturale che sosteneva una maggiore presenza ebraica in Palestina esisteva già da decenni, e fra Ottocento e Novecento erano nate diverse comunità ebraiche in Palestina: ma all’epoca i vertici del movimento sionista erano composti perlopiù da intellettuali e filantropi della borghesia europea, e raramente aveva preso forme così violente. A causa delle sue posizioni Zangwill fu espulso dal movimento sionista, e venne riammesso solamente anni più tardi, nonostante continuasse a mantenere posizioni ugualmente radicali.
Qualche anno dopo, nel 1918, David Ben Gurion – il futuro primo premier di Israele – criticò aspramente Zangwill e le sue posizioni sostenendo in un articolo della rivista Yiddishe Kemper che espropriare gli abitanti della Palestina «non è l’obiettivo del sionismo. […] Per nessuna ragione dobbiamo ledere i diritti dei suoi abitanti. Solo gente come Zangwill può immaginare che la Terra di Israele sarà data agli ebrei assieme al diritto di espropriare gli attuali abitanti». Diciotto anni dopo, arabi ed ebrei combatterono il primo vero scontro di una guerra in corso ancora oggi: fra il 1936 e il 1939 gli abitanti arabi della Palestina si ribellarono contro il “mandato” locale del Regno Unito – una specie di protettorato – soprattutto perché secondo loro avvantaggiava troppo i nuovi immigrati ebrei. L’inizio della cosiddetta “Grande rivolta araba”, il nome che si dà alle rivolte di quei tempi, si fa risalire proprio al 15 aprile 1936.
Nel primo trentennio del Novecento, un numero sempre maggiore di ebrei compì lo aliyah – cioè in ebraico “l’ascesa”, il “ritorno” – in territorio palestinese, dove comprava terreni dai proprietari arabi, bonificava paludi e zone deserte per costruire kibbutz – cioè comunità egalitarie dove la proprietà privata era molto rara – scuole e altre istituzioni ebraiche. I più ottimisti fra i sionisti pensavano che la convivenza sarebbe stata pacifica, e che gli arabi avrebbero lentamente accettato di rimanere una minoranza in Palestina; quelli pessimisti pensavano che il flusso continuo di ebrei europei li avrebbe costretti a migrare nei paesi arabi confinanti come la Siria, la Giordania e il Libano.
Negli anni successivi ci furono numerosi esempi di tolleranza, se non di convivenza pacifica, fra arabi ed ebrei.
In realtà fra gli anni Venti e Trenta la situazione si era fatta sempre più tesa: gli ebrei continuavano ad arrivare in Palestina a migliaia, e a comprare terreni e fondare kibbutz. La crisi economica mondiale del 1929 aveva messo in difficoltà soprattutto gli agricoltori arabi, che avevano perso il lavoro o erano stati costretti a vendere i propri terreni agli ebrei, che disponevano di ingenti risorse provenienti dall’Europa. Per reazione a tutto questo – le cattive condizioni economiche della Palestina araba e l’avanzata del progetto sionista – i nazionalisti palestinesi si organizzarono in associazioni nazionaliste e brigate para-militari, criticando l’immigrazione ebraica e il progetto sionista per volersi imporre su una terra che consideravano di loro proprietà.”
L’occupazione nata con la favola
di una terra promessa da una entità inesistente continuò a discapito delle popolazioni autoctone che scivolarono nel tempo tra le braccia dell’integralismo fanatico religioso e terrorista.
Le religioni appunto, oppio dei popoli e istigatrici di violenza.
Fonte: Il Post Aprile 2016
QUESTE MORTI CHE NON CI SERVONO A NIENTE
Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra in Siria tra il 2011 e il 2022? Sapete quanti civili sono stati uccisi durante la guerra nello Yemen tra il 2014 e il 2017? Probabilmente no. Per contro, conoscete il numero di civili uccisi nella striscia di Gaza, grazie ad Hamas, che ci ha comunicato le sue cifre: 9.770 (nel momento in cui siamo in stampa). Hamas sarebbe quindi diventata un’agenzia di stampa più affidabile dell’AFP e della BBC. In fondo, non importa, perché ciò che conta è che siano gli israeliani, e più precisamente gli ebrei, ad essere responsabili della morte di queste vittime civili, per di più quando si tratta di bambini. Questa accusa ne ricorda una più antica, tipica della propaganda antisemita, secondo la quale gli ebrei mettevano a morte dei bambini non ebrei per fare del pane azzimo con il loro sangue.
D’altronde gli esperti sono formali: le bombe lanciate da Tsahal sui combattenti armati di Hamas uccidono i civili nelle vicinanze, il che costituisce, nel peggiore dei casi, un «genocidio», almeno un «crimine di guerra». A sentire loro, sembrerebbe che a Gaza vi siano solo civili e che gli islamisti di Hamas siano scomparsi. Il trattamento dei civili in altri conflitti, come in Siria o nello Yemen, è sempre stato così delicato? Bisogna dire che la sorte delle popolazioni di questi paesi non ha mai avuto tanta attenzione.
Curiosamente, quando i popoli arabi si massacrano tra di loro, gli attivisti di guerra si fanno discreti. 200.000 civili arabi massacrati dai soldati arabi appare meno grave di 2000 civili uccisi nei bombardamenti dai soldati ebrei di Tsahal. Con conflitti come quelli dello Yemen e della Siria, infatti l’attivista propalestiniano-anticolonialista non può servirci la sua zuppa antioccidentale poiché nessun ex paese colonizzatore vi ha svolto un ruolo determinante e nessun israeliano, nessun ebreo, vi ha partecipato. Con questi conflitti che contrappongono popolazioni arabe e musulmane tra loro, impossibile gridare «morte agli ebrei! » nei campus americani. Quindi, le donne e i bambini massacrati, gasati, decapitati dai soldati arabi durante questi conflitti saranno nascosti sotto il tappeto, perché non hanno alcuna utilità ideologica per i militanti acritici e a senso unico.
Per la cronaca, il numero di civili uccisi durante la guerra in Siria ammonta a 306.000. Nello Yemen sarebbero morte 380.000 persone, di cui 227.000 a causa della carestia e della malnutrizione causate dal conflitto. Per quanto ne sappiamo, nessun generale siriano, yemenita o saudita è sotto processo. Nessuno darà loro fastidio e proseguiranno la loro bella carriera dopo aver fatto passare dalla vita alla morte centinaia di migliaia di civili del loro stesso popolo. Bashar al-Assad, che ha fatto gasare la sua popolazione, è ancora libero, e nessuno lo ha portato davanti alla giustizia internazionale per aver liquidato migliaia di civili arabi e musulmani del suo paese. Ne ha il diritto, perché è proprietario del suo popolo? Ne ha il diritto perchè non è ebreo? E che dire dei curdi?
Questa settimana abbiamo visto un capo houthista eruttare contro Israele davanti al suo microfono. Questo triste signore si indignava per l’offensiva israeliana, proprio lui, il cui esercito ha partecipato a una guerra, che ha ucciso oltre 380.000 arabo-musulmani.
Non si tratta assolutamente di firmare un assegno in bianco all’esercito israeliano e di passare sotto silenzio gli abusi terrificanti che sta commettendo ma si constata che, guarda caso, ci sono civili uccisi durante alcuni conflitti che sono utili e altri che non lo sono. La vostra morte sotto le bombe servirà alla distruzione di Israele o no? Da ciò dipenderà il vostro posto nella storia?”
Una riedizione quanto mai attuale, da CH e dal Bataclan ed altri attacchi islamisti al terribile incubo di oggi di massacri di popoli e di idee di libertà a causa di orrende superstizioni e poteri a caccia di ricchezze, territori e dominio da ogni parte.
Some words are very dangerous words written by dangerous men.
Il Corano ( .القرآن ) e gli altri libri sacri sono i libri di testo della sottomissione e del potere. Se qualcuno provò, da rivoluzionario e non da profeta, a riscrivere regole di eguaglianza e di libertà oltre che di fratellanza, fu tacciato di impostore e rivoluzionario sedizioso e messo al patibolo. Quando provò a dire che non doveva esistere ricchezza e povertà e che l’elemosina era il segno dell’iniquità fu rinnegato e imprigionato. Nella mente dei suoi adepti risuscitò. In realtà è il suo messaggio rivoluzionario che sopravvisse alla triste e violenta realtà finche non fu strumentalizzato, distorto e adoperato a fini di potere.
Ed ecco a titolo di esempio la più buffa e ridicola delle regole che poteva valere tra le tribù del deserto. Ma è apprezzata molto dal mondo suino che dall’islam non ha nulla da temere mentre nell’occidente civile è ai primi posti delle mattanze di esseri viventi.
“[134] Allah (gloria a Lui l’Altissimo) ci proibisce tutto quello che è un male per noi. In moltissime lingue il maiale è sinonimo di sporcizia fisica e morale. Maiale, maialata, porco, porcheria, porcata, porcile, troia, troiata: quanto di peggio possa esprimere il comportamento umano viene espresso con colore ed efficacia per mezzo di questi termini. Basterebbe questa semplice considerazione per rendere l’idea della ripugnanza che dovrebbero ispirare le carni suine. Purtroppo la grande convenienza economica dell’allevamento fa sì che i non musulmani se ne cibino, con grave pregiudizio per la loro salute fisica e spirituale” (sic!)
In questi tempi terribili dove l’esclamazione di ancestrale memoria “mamma li turchi!” sembra tornata attuale, non solo per i credenti cristiani o ebrei o di altre religioni (tutte più o meno colpevoli insieme al potere secolare e mercantile di tutte le orrende disgrazie del mondo) ma anche per chi si dice continuamente ateo od agnostico, occorre saper discernere con freddezza e scienza oltre che coscienza tra ciò che è generato da rivendicazioni di torti coloniali, guerre e calamità indotte dalle multinazionali occidentali e non solo e ciò che invece è generato da un presunto orgoglio di superiorità indotto a partire dal 600 dopo Cristo da un crescendo di potere, prima militare e confessionale e poi anche economico ( la turpe tratta degli schiavi la complice sudditanza dal petrolio) che ha portato alla conquista dell’occidente prima in forma militare, poi finanziaria e ora, forse anche geografica e fisica con una serie di invasioni non sempre costrette dal disagio, attraverso le subdole azioni di cui il Corano, chiaro e trasparente come l’acqua, parla ad ogni piè sospinto, senza bisogno di alcuna intermediazione linguistica o culturale. L’ essenza del libro e delle regole per i suoi adepti non è mai mutata nel tempo, così come per certi aspetti anche per l’antico testamento ancora in voga in altri lidi. Non nascondiamoci dietro un dito. Ce lo insegna bene, prima vittima sacrificale per aver detto la verità, Charlie Hebdo che non perde occasione, non certo da destra, di metter il mondo (non solo il perfido occidente) in guardia da certi pericoli estremamente sottovalutati in nome di una integrazione che tutti sappiamo bene impossibile perché auspicata a senso unico. Il massimo che si potrebbe ottenere senza danni è una convivenza pacifica parallela, distante e diffidente.
Revendication
Fete de la musique
Bombs ad hoc
Abbiamo letto durante l’infanzia (giocoforza) la Bibbia e i Vangeli; li abbiamo riletti in adolescenza insieme ai filosofi classici, dell’umanesimo dell’illuminismo e dell’idealismo fino a Marx. Abbiamo letto più volte anche il testo orginale del Corano (tradotto dalla lingua araba senza commenti e interpretazioni).Ora siamo convintamente agnostici ma i tempi che corrono ci invitano ad approfondire le “norme” di una religione che è ridiventata drammaticamente d’attualità, nel bene e nel male. Abbiamo selezionato poche ma significative frasi originali di alcuni versetti del Corano , molti dei quali si ripetono come un mantra ad ogni piè sospinto, quasi dovessero ipnotizzare il lettore. Questi versi, così come sono trascritti, potrebbero avere riflessi devastanti sulla vita civile e sociale e sui diritti umani in generale mentre altri, contraddittoriamente, smentiscono platealmente qualsiasi guerra santa, rinviando ogni castigo per i “miscredenti” al giudizio universale. Sono testi che non sembra debbano essere interpretati, a meno che le metafore non siano talmente criptiche da non essere affatto immediate. Queste parole sono rimaste intatte nel tempo senza una evoluzione e a volte appaiono, a vista. poter costituire un problema per la libertà e la democrazia del mondo moderno e civile anche se, a tratti, per le palesi ambiguità potrebbero essere “girate” ad uso e consumo di chi vorrebbe giustificare guerre sante e violenza soprattutto contro chi non avrebbe capito che Mosè e Gesù non erano altri che i due primi messaggeri della divinità, in seguito corretti e superati definitivamente da Muhammad. Noi non siamo dei teologi ma sappiamo leggere. Si capisce bene anche, ad ogni riga, ad ogni citazione e ad ogni esempio, che il testo si rivolge ad una platea di tribù di pastori per incitarli anche alla difesa-offesa contro i nemici di quei luoghi in quei tempi. Si capisce bene qua e là il saccheggio culturale da testi di religioni precedenti fin da Zoroastro. Studi linguistici accurati avrebbero anche mostrato come il Corano non sarebbe altro che la miscellanea di diversi testi biblici ed evangelici diffusi all’epoca di Maometto (che non era affatto illetterato, come invece miracolisticamente si vorrebbe far credere) in medio oriente.
Da molti versetti per le tematiche più attualizzabili abbiamo tratto poche frasi e concetti inequivoci e chiarissimi. Anche la Bibbia del Vecchio Testamento e il Talmud riportano molti concetti simili perché legati ai tempi in cui furono scritti o detti. In verità non il Vangelo, altri testi filosofici e il Capitale di Marx che mirabilmente moderni coincidono e si integrano in epoche così distanti.
Oggi ho letto l’articolo di Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano, che condivido nella sua intera sostanza, dedicato al film “Comandante” che ha aperto la saga veneziana per essere chiaramente e spudoratamente in linea con l’imprimatur fascista delle sue origini nel 1932.
Una premessa è necessaria per inquadrare il fatto, non unico di questi tempi e neppure raro, e per farlo ricorro ancora ad una riflessione linguistica e semantica trovata sul giornale Libération qualche tempo fa:
“Il premier italiano Giorgia Meloni è “neo” o “post”-fascista? Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”? Esistono le “neo-femministe”? Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola. “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo. Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia. La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità; il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene. Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo. ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico. La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato. Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico.“Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo. “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione. È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.“
L’analisi di Montanari mi pare ineccepibile soprattutto in certi passi fondamentali:
“Al di là delle circostanze casuali (il ben altro film di Luca Guadagnino bloccato da cause di forza maggiore), e delle intenzioni di regista, sceneggiatore, attori di Comandante (che abbiamo finora saputo antitetiche ad ogni revisionismo), la forza del dato di fatto è impressionante. Ed è prova di una egemonia culturale che, se non è ancora tascista, certo non è più antifascista.“
“ll comandante era uno che combatteva insieme ai nazisti: per le stesse cause, che includevano il più violento razzismo mai visto nella storia, e l’Olocausto tutto intero. In Germania, la Berlinale si potrebbe aprire con l’apologia di un nazista buono? Se da noi è potuto accadere è perché ci siamo convinti che ci fosse una gran Scorciatoia Il film celebra giustamente il salvataggio dei naufraghi belgi, ma occulta il contesto di una guerra atroce scatenata dai regimi totalitari come l’Italia fascista differenza tra il tedesco nazista (cattivo) e l’italiano fascista (ravo): ma una intera stagione storiografica ha dimostrato esattamente il contrario. Eppure, l’autoassoluzione collettiva (che inizia ancor prima della Liberazione, con un cedimento significativo del fronte antifascista, comprensibilmente preoccupato che l’Italia non venisse trattata come la Germania), l’idea crociana del fascismo “parentesi” in una in una storia italiana “virtuosa” continua a confondere molti.Come ha scritto Cristina Piccino in una splendida stroncatura del film uscita giovedì scorso sul Manifesto, il comandante interpretato da Pierfrancesco Favino,come ogni vero uomo, ama l’arte della guerra ed è un po’ dannunziano, un po’ nietzschiano, un po’ uomo e macchina di marinettiana memoria, oltre a possedere quel bagaglio, tipico del fascistello, di filosofie orientali, cabale, esoterismi”.
Todaro ebbe anche delle medaglie e non rinnegò mai le sue idee aderendo perfino ai criminali di guerra della XMas.
Per rafforzare i concetti propongo alcuni passi della citata recensione di Cristina Piccino sul Manifesto:
“Eccoci qua, italiani brava gente, questa retorica insopportabile specie oggi che ha accompagnato anni e anni di commedie, di farse sui colonialismi buoni, di auto-assoluzioni che sì, vabbè si è stati fascisti ma mica cattivi come i tedeschi. Peraltro la parola fascista, a parte da chi in quel bell’idillio osa ribellarsi – e per questo viene picchiato dagli uni e dagli altri, ma come hanno osato a fronte di tanta bontà? – quasi mai viene pronunciata dal comandante e dai suoi uomini. Cosa ci vogliono dire allora de Angelis e Veronesi? Che la legge del mare è antica, sacra e imprescindibile e che persino in guerra tra i fascisti c’è chi l’ha rispettata? È un messaggio al governo Meloni e ai suoi proclami sui respingimenti contro i migranti di adesso? Però la storia è storia e invece che fabbricare santini a effetto nella distanza temporale sarebbe bene mantenere un po’ di onestà intellettuale perché il passo falso è in agguato – qui direi è già scattato – insieme alle infinite ambiguità di offrire sponde – e ce ne sono numerose – per autocelebrazioni e strizzate d’occhio ai poteri «nuovi» di cui non si sente proprio il bisogno. Non basta cullarsi tra droni e meduse che sembrano sirenette; De Angelis non va mai in profondità e quegli spazi, qui corpi sott’acqua, quei nemici che poi si sfioreranno con odio appaiono privi di spessore. Eppure nelle sue intenzioni in quel sottomarino c’è l’Italia, «si fa» l’Italia delle diverse regioni e dialetti che imparano a convivere – anche questo – grazie alla guerra, all’idea comune, all’allenamento al sacrificio. È ancora legge del mare o è qualcos’altro? Tra accumuli di citazioni casuali, il suo sottomarino non si rifa a esempi importanti come “Gli uomini sul fondo” (1941) di De Robertis – Rossellini ma neppure stilisticamente al K-19 di Bigelow. La patina di cui ammanta la visione distorta del protagonista è compiaciuta, priva di un punto di vista, accarezza quell’essere, quelle modalità, si culla negli stereotipi: pasta- pizza-mandolino (e patatine fritte per i belgi) che si fanno convivenza. Sarà questo effetto cartolina a avere determinato la scelta? Resta il fatto che oggi risulta goffa nel suo effetto finale malgrado le «buone intenzioni. E appellarsi genericamente alla «legge del mare» non basta. Non più.“
Oltre a questo, nell’episodio veneziano da non sottovalutare, c’è la tolleranza o quanto meno l’assenza colpevole di certa sinistra liberaleggiante che forse fa già parte di quell’altra faccia del postfascismo rimeditato negli effetti che non è certo nostalgia ma sicuramente terribile attualità neoliberista come ben scrive Paolo Mottana:
“Due righe sul fascismo: oggi, come è evidente, la parola fascismo, ben oltre le sue origine storiche, individua una lista di comportamenti che, genericamente ma correttamente, definiamo fascisti: autoritarismo, violenza verbale e fisica, imposizione, giudizi sommari, crudeltà gratuita, condanne per le idee ecc. ecc. Quindi oggi vorrei celebrare non solo la Liberazione con la L maiuscola, quella che conosciamo perché ci è stata tramandata dai nostri vecchi e che ci parla di libertà da sofferenze inaudite ma anche una liberazione minore, da tutti i fascismi che infettano il mondo: quelli che ci imprigionano in rapporti violenti, quelli del lavoro dove capi e capetti si permettono di insultare e vessare gratuitamente perché hanno uno straccio di potere, dove siamo giudicati in base a invidie e ritorsioni, quelli del tempo che ci viene rubato o castrato, quelli delle deportazioni (quella scolastica o lavorativa per esempio), quando accettiamo di subire ogni tipo di potere sulla nostra vita senza ribellarci, o ribellandoci e venendo immediatamente schiacciati da sanzioni di ogni genere, di quelli che ci indicano cosa fare, come impiegare il nostro tempo residuo e non ci rendiamo più conto che non sappiamo più fare una scelta autonoma perché tutte le nostre scelte sono già predecise altrove (sulle vacanze, sul tempo libero, persino sul riposo e sul fare l’amore), quelli della coppia talvolta, della famiglia troppo spesso, delle code in auto, degli ammassamenti sulle metropolitane, dei centri commerciali, delle spiagge in batteria come polli a cuocere alla griglia, dei programmi televisivi a senso unico, di tutti i fanatismi, buoni o cattivi, religiosi o laici.Vorrei celebrare la liberazione dai fascismi che fanno della nostra vita una vita da schiavi, da sottomessi, laddove spesso siamo noi stessi a non saper leggere il fascismo interno che noi stessi ci rifiliamo pur di non vivere l’ebbrezza spaesante di una vera liberazione.“
Fascismo e fascismi dunque, a braccetto insieme e assai più pericolosi e criminali se ben propagandati da una avanzante occupazione culturale multiforme, subdola, a volte sfacciatamente palese e, a volte, anche pericolosamente subliminale.
Senza commenti di sorta proponiamo l’articolo di Elisabeth Franck-Dumas su Libération del giugno scorso che dedichiamo al compleanno del regista cercando di eludere gli incensi dei delusi della sinistra nostrana o le accidie grottesche della altrettanto nostrana destra malamente resuscitata per colpa di quella stessa sinistra.
Prendendo in prestito l’approccio dinoccolato di Nanni Moretti, di cui richiama anche gli sfoghi infantili e i broncio da alter ego del passato, da Bianca ad Aprile, Giovanni è un regista che è stato superato dal suo tempo. Ne nasce un affresco storico nella periferia di Roma, che ripercorre la procrastinazione etica di una parte del PC italiano ai tempi della rivolta di Budapest del 1956. Si immagina il dilemma morale del capo della sezione Antonio Gramsci (interpretato da Silvio Orlando) che ha invitato un circo ungherese come dimostrazione di sostegno mentre i carri armati russi arrivano per reprimere la rivolta. Giovanni insiste nei minimi dettagli del suo set, fino alle bottiglie d’acqua con il logo Rosa Luxemburg ma percepiamo che è interessato solo per metà a ciò che ha progettato, sognando invece di mettere in scena decenni di vita di coppia sullo sfondo di canzoni popolari italiane. La moglie Paola (Margherita Buy), produttrice di tutti i suoi film, lo abbandona per le riprese di una pellicola ultraviolenta di un giovane regista e finisce anche per lasciarlo e prendere un appartamento altrove. Sua figlia Emma (Valentina Romani) sta per sposare un settantenne, cosa che, dopo il primo shock, Giovanni arriva a comprendere, lasciando intendere che i giovani in fin dei conti siano davvero poco rilevanti. Gli scenari d’epoca del suo affresco, costantemente invaso da gadget del tempo, come la sala stampa di un giornale dove si vedono rotative su rotative, il circo che esegue il suo numero felliniano, il fascino retrò di una vera vita di quartiere e tutto nell’universo che ha allestito, sottolinea la malinconia e il rimpianto. Il soggetto stesso del film lascia da parte i giovanissimi della sua squadra, convinti che i comunisti in Italia non ci siano mai stati. “Il tuo film è la fine di tutto!” concludono alla fine i suoi nuovi produttori coreani. La scoperta sembra renderli felici.
“Verso un futuro radioso” traduzione franzosa del sedicesimo lungometraggio di Nanni Moretti, dal titolo evidentemente ironico, mette fine alle utopie del passato, politiche, cinematografiche, intime. Il gesto è un po’ stanco, nostalgico, a volte, non tante, divertente, soprattutto durante un esilarante confronto con Netflix, che lamenta l’assenza di un momento «what the fuck» nella sua sceneggiatura che non è mai tagliente. Giovanni, il protagonista alias di Nanni è infelice e affatto combattivo. La vita lo doppia sulla corsia di sorpasso mentre lui la concepisce solo con una serie di alzate di spalle affrante. Il suo gesto più eclatante, interrompere a lungo le riprese del film rivale, arrabbiato per la sua estetica troppo trita, non avrà alcun effetto, se non quello di farci sorridere. Vediamo anche Giovanni, strizzando l’occhio al film Diario, fare il giro di una piazza di Roma ancora e ancora su uno monopattino elettrico, di notte, con il suo produttore innamorato e strambo (Mathieu Amalric) e poi nuotare in una piscina, come in Palombella Rossa , rimpiangendo di non essere abbastanza grande da girare un adattamento del racconto di John Cheever: The Swimmer.
Tanto che il personaggio (e con lui anche Moretti?) darà l’impressione di operare in tre modalità: stop, rewind, segnare il passo. Piroetta letteralmente su se stesso, braccia spalancate come un derviscio, subito imitato dal resto della sua squadra. Dell’idea di “girare”, Giovanni sembra così aver conservato solo l’accezione del girare in tondo. Il suo cinema serve prima di tutto a cambiare il passato, come nei film di Tarantino, per fantasticare su un PC italiano che avesse denunciato per tempo le azioni dell’URSS. Nanni Moretti, con lo stesso stratagemma, permette a Giovanni di tornare sui propri passi verso il suo io giovane, compiaciuto e irremovibile, che ruttava al borghese, dopo aver visto “La dolce vita” con la sua bella, quando invece avrebbe potuto tenere tutt’altro discorso, più innamorato e meno stupido.
Come il suo sosia, Moretti a volte dà qui l’impressione di essersi lasciato scivolare sul pilota automatico, riprendendo un po’ pigramente i codici del suo cinema, il suo personaggio di spilungone che gioca a calcio e funziona solo per rituali immutabili come mangiare un gelato davanti a Lola. Un po’ troppo scontroso, un po’ troppo carino. La sfilata finale, che riunisce sotto il sole gli attori dei suoi film passati, non fa altro che volgere uno sguardo retrospettivo per stuzzicare il cuore.
Il Circo ungherese
Moretti non si fa certo ingannare da questo, e rileggeremo nell’invito al circo, nel momento in cui si scatenano le forze oscure della storia, una mise en abyme del suo stesso gesto, che può sembrare, a seconda di dove ci si trovi, magnificamente derisoria, un po’ vanitosa, o al contrario espressione di una specie di ottimismo di resistenza.
Non andiamo più a Venezia! A causa del sovraffollamento che subisce durante tutto l’anno, la città dei Dogi potrebbe entrare a far parte della lista UNESCO dei patrimoni in via di estinzione. Non ci sono più soluzioni per salvarla: devi smettere di visitarla.
DI RODOLPHE CHRISTIN SOCIOLOGO su Libèration.
Revisione della traduzione: Giuseppe Campagnoli
Venezia va male, e non è una novità. La città, nel 2021, era già sfuggita di poco alla classificazione dell’Unesco come “patrimonio mondiale in pericolo”. Di fronte a questo possibile disconoscimento, le autorità avevano poi adottato diverse misure che andavano dal controllo del numero dei visitatori alla tutela e ristrutturazione urbana, passando anche per il divieto di avvicinamento per le navi da crociera dalla stazza troppo elevata: troppa massa e potenza e troppe emissioni, che minacciano la salute e le architetture. Le onde destabilizzano gli argini, indeboliscono gli edifici e tormentano un intero ecosistema: città, acque, isole. Alle grandi onde abbiamo quindi preferito quelle più piccole: quelle delle imbarcazioni più modeste e gli innumerevoli motoscafi che assicurano il trasporto dei passeggeri tra le navi e la città. La sfida è solo una: non perdere un solo visitatore.
Le gondole non passano più sotto i ponti.
Ovviamente, non era abbastanza. La minaccia ritorna perché il turismo post-pandemia è tornato con una vendetta. E Venezia ancora non migliora, potrebbe assomigliare sempre meno alla Venezia eterna, città d’arte e di storia dove si esprime parte del genio dell’umanità. Inoltre, l’acqua sta salendo. Venezia ci arriva fino alle ginocchia e le gondole non passano più sotto i ponti. Venezia classificata come capolavoro in pericolo. Per non aver fatto abbastanza per preservare la città dalle trasformazioni sia locali che universali, legate al riscaldamento globale? Per aver perseguito solo il profitto illimitato? In ogni caso, se non si interviene, la città potrebbe essere simbolicamente punita con la rimozione a settembre dalla World Heritage List dell’UNESCO, nella quale figura dal 1987. La motivazione: non aver soddisfatto i criteri che ne fanno un “sito culturale di valore universale”.
E se invece proprio questo apparente disonore di “demarketing” forzato contribuisse al salvataggio di Venezia? Ricordiamo che il successo del turismo si basa su un sistema che associa tre grandi categorie di attori: gli attori privati che promuovono e vendono prodotti turistici, gli attori pubblici che sono i registi dell’attrattività territoriale e i turisti che obbediscono alle influenze delle due categorie precedenti . In questo trio, la classificazione UNESCO accontenta tutti: giustifica il viaggio circondando di prestigio la città, onora gli amministratori locali e arricchisce gli uomini d’affari. Da parte loro, le ONG e le associazioni sono più o meno soddisfatte delle misure di protezione che l’etichetta UNESCO prevede e imporrebbe. Tra questi attori si raggiunge facilmente un consenso poiché tutto sarebbe fatto in nome del Bene. I motivi per rallegrarsi sembrano, infatti, numerosi se si spera in qualche guadagno economico e simbolico. Ma di fatto l’Unesco, organizzazione favolosa, censendo e classificando un sito alimenta il marketing turistico dei luoghi su cui punta come una strega Carabosse travestita da principessa. Davvero i suoi esperti non sanno che tutto contribuisce allo sviluppo dell’industria del turismo, accompagnato da tutti i suoi derivati, il cui elenco sarebbe lungo e tedioso, ma dimostrerebbe quanto il turismo metta in atto una serie di settori economici (speculativi e mercantili)? Come stupirsi, se nel 2023, anche chi vive di turismo a Venezia si lamenti?
Si sta organizzando il declino
Questo è vero per tutti i territori iperturistici. In alcuni luoghi ci viene detto di lottare contro l’eccesso promuovendo un turismo quattro stagioni, come se l’alta stagione dell’inferno turistico da sola non bastasse! Venezia è di fatto, nel tempo, diventata un santuario abbandonato dai suoi abitanti storici. È una città già morta. La vita sociale relegata alla sua periferia, le classi lavoratrici senza più i mezzi per mettervi piede e viverci. Piuttosto che gestire i fastidi senza eliminarli, bisognerebbe organizzare democraticamente il declino del turismo, a Venezia e altrove, sia per liberarne i luoghi dalla sua perniciosa morsa che per affrontarne e scongiurare le ripercussioni sul cambiamento climatico. Occorre prendere a modello, per una volta, il fatto che l’ipermobilità non è un segno di successo sociale. Dovremmo porci delle semplici domande mentre visitiamo quei luoghi: di cosa sono sintomo tante frenesie ? Cosa stiamo cercando altrove che non potrebbe essere trovato qui? Come migliorare la vita di questi luoghi?
Per salvare Venezia bisogna dimenticarla. Smettiamo di metterla in vendita . Quando il turismo diminuirà drasticamente (o sarà interamente sostituito dal viaggio raro e consapevole) la vita tornerà a Venezia.
Aggiungerei che tutto ciò varrebbe per tante altre città, Parigi compresa.
Mi viene in mente un bel progetto del 2020 che, come accade spesso in Italia, è naufragato presto nell’acqua alta, per i soliti beceri dissidi di natura bassamente ideologica. L’idea era assai buona e poteva essere un modesto ma potente seme ben piantato ai fini del salvataggio della città lagunare. Tanti gli attori coinvolti: cittadini, associazioni, municipalità, università, scuole. Eccone un estratto:
“La situazione di degrado e aumento di povertà, in una città come Venezia che ha fondato la sua economia su una monocoltura turistica si è acuita in questo anno di pandemia che è stato preceduto dalla seconda “Acqua Granda” della storia (novembre 2019). Questo progetto nasce dall‟esigenza di valorizzare e promuovere nuove modalità di convivenza eterogenea per una comunità resiliente attraverso pratiche di: economia del dono, comunicazione empatica ed educazione diffusa.
L‟ex Convento può diventare un punto di riferimento per l’intero quartiere che, per le sue caratteristiche popolari, ha diverse zone senza servizi e luoghi di ritrovo (la Giudecca è un‟“isola nell‟isola” abitata storicamente dalla popolazione della città con meno risorse economiche).
Obiettivo di questo progetto è proprio quello di mettere in atto una serie di pratiche virtuose per costruire un processo democratico partecipato che valorizzi l‟utilizzo degli spazi comuni in un‟integrazione sociale di tutti i cittadini. Cercando di coinvolgere tutte le parti, approntando dei percorsi di formazione ad hoc vorremmo mettere l‟accento su pratiche metodologiche inclusive, che costruiranno le basi per sviluppare un forte senso di appartenenza alla comunità, una comunità che diventa “educante”. Attraverso i principi dell‟Educazione Diffusa si vuole sviluppare un innovativo metodo di apprendimento che metta in relazione la città (dal punto di vista culturale ed economico) con i più giovani, città che diventa luogo di scoperta, città che si apre alla scuola, che si trasforma in scuola “di vita” a tutti gli effetti, città che da subito diventa accessibile e trasformabile dalle nuove generazioni. Il Convento potrebbe diventare un esempio virtuoso ed un modello riproducibile, potenzialmente ricchissimo dal punto di vista sociale, artistico e culturale che ha solo bisogno di essere valorizzato adeguatamente.”
Una parte di città educante poteva nascere alla Giudecca e magari,nel tempo, contaminare virtuosamente altri contesti urbani. Peccato. Gli individualismi ed i corporativismi sono il male diffuso di questi tempi.
La redazione
I disegni sono dell’arch. Giuseppe Campagnoli. I fotomontaggi e rendering dell’arch. Stanislao Biondo.
La mappa colorata è tratta da un disegno di Antoine Corbineau.
Di Nicolas Celnik su Libération. Tradotto da Giuseppe Campagnoli
Kohei Saito «Karl Marx ha fornito la chiave per riconciliare ecologia e lotta di classe
Autore di un inaspettato best-seller in Giappone, il giovane filosofo ha analizzato gli scritti tardivi di Marx dove pensatore del comunismo appare preoccupato per l’esaurimento delle risorse naturali.
Il Giappone ha riscoperto Karl Marx, grazie al primo libro di un giovane accademico che teorizza il comunismo decrescente. Questo bestseller , che in pochi mesi ha venduto oltre 500.000 copie nel sesto paese più produttore di CO2 del mondo, «è un nonsenso», riconosce volentieri Kohei Saito, Professore associato all’Università di Tokyo, improvvisamente trasformato in una stella dell’ecologia nell’arcipelago.
Il libro ha anche ottenuto un premio, nominato nella lista dei migliori libri asiatici dell’Asia Book Awards nel 2021, ed è stato tradotto in diverse lingue (la Seuil dovrebbe pubblicarne una versione francese prossimamente). La NHK, la televisione nazionale, ha dedicato a Kohei Saito due ore di documentario, mentre un team del canale concorrente, TBS, ha partecipato alla nostra intervista per mostrare l’interesse della stampa internazionale per il giovane autore. La tesi del libro ne ha abbastanza per far sollevare alcune sopracciglia: studiando gli scritti tardivi di Karl Marx, Kohei Saito scopre che il padre del comunismo si è innamorato tardi delle scienze naturali, e che la sua visione del mondo per questo è stata in parte sconvolta. Avrebbe quindi voltato le spalle all’idea che occorresse concentrarsi a sviluppare le forze produttive e sarebbe maturato invece un pensiero preoccupato per la sostenibilità delle società e dell’ambiente concepita come condizione essenziale per la riduzione delle disuguaglianze. Karl Marx avrebbe allora ri-fondato la sua critica del capitalismo su argomenti che assomigliano strettamente a quelli portati dai pensatori contemporanei dell’ecologia. Sperando di riconciliare «rossi» e «verdi», questo libro vuole convincere i nuovi attivisti ambientalisti, che non sempre hanno il marxismo in mano, che si tratta invece di uno strumento di prim’ordine per rispondere alle sfide attuali.
Si potrebbe avere l’impressione che tutto sia già stato detto su Marx. Perché proporre una nuova lettura oggi?
Sono stato a lungo un marxista molto classico, preoccupato solo della lotta di classe. All’università avevo partecipato a creare un sindacato che militava per migliorare le condizioni di lavoro dei giovani. Era dopo la crisi economica del 2008, quando molti lavoratori precari avevano perso il lavoro, erano stati espropriati, ecc. Poi c’è stato il disastro di Fukushima. L’analisi marxista tradizionale, che sostiene la necessità di sviluppare le forze produttive per lottare contro le disuguaglianze, non mi sembrava più pertinente all’epoca delle catastrofi nucleari. Così mi sono chiesto come Marx avrebbe analizzato il problema delle centrali nucleari ed altro ancora in fatto di sostenibilità. Nello stesso periodo, stavo lavorando su dei taccuini inediti che Marx aveva riempito di appunti alla fine della sua vita. Ho scoperto che leggeva molto di scienze naturali e che era interessato allo sfruttamento del suolo in Irlanda o del carbone in Inghilterra. Leggeva trattati di geologia mentre Friedrich Engels [con il quale aveva scritto il Manifesto del Partito Comunista, ndr] lo pressava per scrivere gli ultimi volumi del Capitale.Da questi testi mi è sembrato che Marx stesse sviluppando un’analisi estremamente pertinente della produzione capitalista in una prospettiva ecologica.
La Cina o l’URSS, sedicenti comunisti, hanno provocato disastri ecologici cercando di sviluppare la produzione a tutti i costi. È stata una lettura sbagliata di Marx?
Credere che l’innovazione tecnologica e l’aumento della produzione risolveranno i problemi sociali e ambientali è non voler far fronte alle proprie responsabilità ed è un modo per relegare questo compito agli esperti e ai politici. Mi sembra, al contrario, che si abbia bisogno di una società più democratica anche allo scopo di stabilire una società più sostenibile. Questo è il principio della «giustizia ambientale». Ora, il marxismo (quello portato da molti sindacati, da accademici o da economisti marxisti) è molto orientato verso le tecnologie. Oggi è anche la tentazione degli eco-modernisti, che pensano che accelerando lo sviluppo tecnologico troveremo una soluzione alla crisi ambientale. Non credo sia così.
Lei identifica un concetto chiave per lo sviluppo di questa analisi: la «faglia metabolica». Di che si tratta?
L’idea è molto semplice: le interazioni tra gli esseri umani e la natura sono alla base delle nostre condizioni di vita. Il capitalismo organizza queste relazioni in un modo da sfruttare le risorse della natura senza prendere in considerazione il lungo termine. Si crea dunque una sorta di faglia metabolica quando si utilizza, in due secoli, la maggior parte delle risorse fossili che si sono costituite nel corso di diversi millenni. Questo evidenzia due caratteri essenziali. In primo luogo, c’è una posta in gioco di ritmo: quello del capitalismo (che peraltro si accelera) è incompatibile con quello della natura e delle condizioni materiali della sua riproduzione. È la tensione alla base del modo di produzione capitalista. L’altro elemento è che il capitalismo si preoccupa solo del valore – che Marx definisce come la quantità di lavoro incorporato in una merce. Ma il valore è solo un aspetto astratto e restrittivo del lavoro, che implica processi di scambio di energia e risorse. Questa analisi rende Marx ancora fondamentale oggi.
Nei suoi diari si apprende che si è ispirato anche alle società precapitaliste o non occidentali. Cosa ne ha ricavato?
All’inizio degli anni 1870 si interessò agli studi dello storico Georg Ludwig von Maurer (1790-1872) sui comuni germanici del XVIII e XIX secolo, che avevano raggiunto una forma di economia stazionaria [dove i movimenti di crescita e decremento economico sono deboli, ndr]. Ne è derivata una profonda crisi della sua visione del mondo e una concezione totalmente nuova di quella che dovrebbe essere una società alternativa. Georg Ludwig von Maurer mostra come queste società avevano istituito meccanismi di regolazione del consumo, della produzione e dell’accumulo di ricchezza. Alcuni comuni organizzavano una rotazione della proprietà delle terre: ogni tre anni gli abitanti utilizzavano aree diverse; questo garantiva che le terre più fertili non fossero sempre nelle mani della stessa persona. Queste società avevano adottato queste organizzazioni non perché fossero primitive, contrariamente a quanto avrebbe potuto scrivere Marx qualche anno prima, ma perché avevano deciso consapevolmente di evitare i rapporti di dominio indotti dallo Stato stesso. Negli ultimi anni della sua vita, Marx si rese conto che le sfide della sostenibilità e dell’equità sociale erano strettamente collegate. Oggi si giunge alle stesse conclusioni quando si denuncia il fatto che sono le persone più ricche a emettere più gas a effetto serra. Karl Marx ne dedusse che bisognava cambiare il sistema, ma non sviluppando ulteriormente le forze produttive. Proponeva piuttosto di tornare a vecchie forme di produzione, pur utilizzando alcune delle tecnologie più recenti – quelle che ci permettono di raggiungere l’obiettivo di organizzare la produzione in modo sostenibile. Per lui si trattava di pensare ad una società che non più motivata dalla crescita economica. Ho definito questa una «società di comunismo decrescente». In questa logica, seguendo il suo pensiero, mi sembra di poter dire che gli obiettivi di sviluppo sostenibile che si pongono dentro il recinto capitalista, sono il nuovo oppio del popolo, perché fanno credere a un futuro migliore senza proporre radicali cambiamenti strutturali.
Questa modalità di produzione sarebbe basato sull’associazione piuttosto che sulla cooperazione. Di che si tratta?
Il capitalismo organizza la cooperazione dei lavoratori in modo che essi non possano più lavorare in modo autonomo e indipendente: si tratta di una forma particolare di cooperazione, nell’ambito della divisione del lavoro. Karl Marx mostra che l’aumento delle capacità produttive da parte del capitalismo non porta all’emancipazione dei lavoratori, perché porta solo a rafforzare il potere del capitale su di loro. Se oggi i lavoratori si impadronissero dei mezzi di produzione, come una fabbrica di automobili, non sarebbero in grado di fabbricare neppure una automobile, perché non controllano ogni fase della catena di produzione. Di fronte a questo, Marx si interessa a un altro modo di cooperazione, che chiama «associazione», e che suppone che i lavoratori decidano collettivamente ciò che vogliono produrre, e come vogliono farlo. È un processo di produzione più lento, quindi meno efficiente, ma più democratico. In effetti, la democrazia non è sempre il metodo più efficiente, ma è quello che porta alla riduzione delle disuguaglianze. E questo rallentamento della produzione permette di chiudere una delle faglie metaboliche aperte dal capitalismo. Ciò consentirebbe anche di ridurre l’orario di lavoro – che Marx considerava un prerequisito per raggiungere la libertà – e di adottare ritmi come la settimana di quattro giorni – un modello da cui siamo molto lontani per esempio da noi in Giappone.
Karl Marx disegnava anche una strategia politica per riprendere il controllo dei mezzi di produzione. Come si spera di ottenere un comunismo decrescente?
È abbastanza difficile, a causa dell’esternalizzazione dell’inquinamento: il governo giapponese finanzia attualmente delle centrali a carbone in Bangladesh! Di conseguenza, molte persone, soprattutto in Giappone, continuano a non collegare il consumo all’inquinamento. È qualcosa che è stato rimesso in discussione durante la pandemia, dove si è presa coscienza dell’importanza dei cosiddetti lavoratori essenziali ma la parentesi, ahinoi, è stata chiusa molto rapidamente. Il primo scoglio da superare in Giappone resta dunque questa presa di coscienza che è meno solida che in Europa. Occorre senza meno proporre delle alternative. Non solo proposte concrete, come ad esempio chiedere finanziamenti per l’educazione o per le infrastrutture pubbliche ma anche avere delle utopie che vendano sogni prima o poi realizzabili.. Infine, occorrono tante iniziative locali: credo che verranno sicuramente dal ritorno delle azioni comuni. Insieme ad alcuni amici ho comprato un pezzo di foresta, e stiamo cercando di mantenerlo in modo collettivo, di sviluppare una comunità intorno a questo luogo. Mi sembrava importante perché in Giappone esistono forme di comuni tradizionali, ma non possiamo accontentarci di ciò che ereditiamo; occorre anche esplorare nuovi usi comuni e inventare insieme nuovi modelli democratici.”
C’è da dire che anche l’anarchismo aveva da tempo considerato questo aspetto ma con una auto organizzazione capillare dal basso senza il bisogno di uno Stato centralista che il comunismo ha sempre mantenuto e ancora manterrebbe come sostituzione di un potere con un’altro. Ricordiamo per inciso l’idea del mutuo appoggio di Kropotkin e i suoi studi sulla natura. « L’ecologia di Kropotkin » è anche un libro di Brian Morris sull’argomento. Altri tra saggi, articoli e interventi hanno ricordato il legame tra anarchismo e tutela della natura e dell’ambiente. Noi stessi abbiamo scritto di recente un articolo sulla ineluttabilità del verde insieme al rosso e nero.
Aggiorno e sintetizzo,una storia pubblicata in diverse puntate. Educazione, architettura, città, pandemia, guerra, libertà, le parole chiave.
L’Educazione diffusa è un progetto educativo nato con la pubblicazione nel 2017 del Manifesto dell’educazione diffusa. Il tutto dall’idea originale frutto, già nel 2016, dell’incontro tra Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli che firmarono, insieme o autonomamente, diversi volumi e articoli sull’argomento, realizzando anche innumerevoliseminari, incontri, iniziative e progetti sperimentali in Italia e all’estero. Sono state coinvolte le Università di Milano, Macerata, Parma e Caen (Francia). L’idea è stata oggetto anche di una audizione presso la Commissione parlamentare Istruzione e Cultura nel 2020. Le ultime pubblicazioni sull’argomento sono: una specie di racconto giocoso (“La commedia della città educante”) dedicato alle traversie burocratiche delle sperimentazioni dell’educazione diffusa, un libro di Paolo Mottana intitolato “I tabù dell’educazione” e un saggio di Giuseppe Campagnoli in una prestigiosa rivista francese di filosofia dell’educazione: Le Télémaque dell’Università di Caen intitolato “L’educazione diffusa e la città educante”.
Uscita a dicembre 2023 anche un‘antologia di scritti di Giuseppe Campagnoli sull‘architettura della città e l‘educazione. Ora è in libreria un libro di Paolo Mottana dedicato alla costruzione di un “Sistema dell‘educazione diffusa“.
Tutto cominciò negli anni settanta, quando tra la progettazione di scuole materne, medie ed elementari ispirate a principi di apertura e di flessibilità degli spazi verso l’esterno, gli insegnamenti sulla città analoga che si autocostruisce collettivamente e determina il suo stile di Aldo Rossi, le letture di Ivan Illich e Paulo Freire e i ricordi personali della crescita in una scuola rurale con il metodo Freinet iniziò la mia storia di architetto, di insegnante e di direttore di scuole d’arte. Tanta strada da lì in poi fino alla pubblicazione del Manifesto della educazione diffusa e a tutto quel che ne è seguito.
La mia classe en plein air. Giuseppe Campagnoli 2013
Avevo consolidato l’idea di cambiamento che era già in nuce nel libro “L’architettura della scuola” edito da Franco Angeli, Milano nel 2007. Il volumetto suggeriva, dopo anni di ricerche e progetti, una concezione innovativa degli spazi per l’apprendere. Era il momento di intraprendere la strada per un dibattito più ampio e, auspicabilmente, una sua sperimentazione concreta.
“ La città dice come e dove fare la scuola…il rapporto con la città, per l’edificio scolastico è anche una forma di estensione della sua operatività perché occorre considerare che la funzione dell’insegnamento ed il diritto all’apprendere si esplicano anche in altri luoghi che non debbono essere considerati occasionali. Essi sono parte integrante del momento pedagogico ed educativo superando così anche i luoghi comuni sociologici della scuola aperta con una idea più avanzata di total scuola o meglio global scuola dove l’edificio è solo il luogo di partenza e di ritorno, sinesi di tanti momenti educativi svolti in molti luoghi significativi della città e del territorio”.
“La staticità della conoscenza costretta in un banco, in un corridoio, nelle aule o nelle sale di un museo non apre le menti e fornisce idee distorte della realtà che invece è sempre in movimento.”
L’ incontro cruciale, dopo qualche anno e tante ricerche sul tema, con il professore di filosofia dell’educazione a Milano Bicocca Paolo Mottana e la sua Controeducazione ha chiuso il cerchio magico della mia storia tra educazione ed architettura aprendo i “portali” dell’educazione diffusa.
“Ah, I see! Popsophia refers to an annual cultural event held in Italy, specifically in the city of Pesaro. Popsophia combines elements of popular culture, philosophy, and entertainment. It features various activities such as conferences, workshops, exhibitions, performances, and discussions that explore the intersection of pop culture and philosophy. The event aims to engage people in thought-provoking discussions while embracing the appeal of popular culture.”

“Pop philosophie” refers to the application of philosophical ideas and concepts to popular culture. It involves analyzing and interpreting elements of popular culture, such as movies, music, literature, and media, through a philosophical lens. This approach allows for a deeper understanding and exploration of the underlying ideas, values, and messages conveyed in popular culture. Pop philosophie often seeks to bridge the gap between academic philosophy and the general public by making philosophical concepts accessible and relatable in the context of popular culture.”
Quest’anno un articolo interlocutorio, distante, distopico e costruito con interrogativi su questa manifestazione della cultura che, innocua per il potere, a volte ondivaga, vale per tutte le stagioni (pecunia non olet) visti anche gli sponsors bipartisan o monopartisan nel piatto panorama parlamentare. Il Ministero del Merito ci indurrà a condividere questo articolo con i nostri partners che operano in campo educativo. Cercheremo di decifrarne, ammesso sia possibile, i “meriti” proprio in campo pedagogico.
Il titolo di questa edizione è decisamente azzeccato per etimo e forse anche un po’ autobiografico. Vale la pena esserci o solo immaginare di esserci tra l’ovvio dell’ovvietà e del déjà vu et entendu?
Merita come sempre una lettura in diagonale, come suggeriva qualcuno per taluni libri e qualche sbirciata, soprattutto per morceaux, di arcinoti racconti di costume culturale. Cominciammo nel lontano 2014 a recensire le edizioni di questa saga di gestione domestica erculea. A volte pur solo criticando senza denigrazione fummo anche censurati e bannati a vita dai socializzatori. Chapeau ai sofisti popolari! Eravamo quindi già influenti e sovversivi! Un onore.
Visto che uno dei patrocinanti è l’ineffabile Ministero dell’istruzione e del merito occorre ben concentrare l’attenzione sull’aspetto “educante” e leggere la storia dell’evento dal 2014 fino all’attualità anche attraverso questa lente. È singolare come ne sia stato autorizzato il riconoscimento per i docenti come attività di formazione (sic!) e come in passato il mondo scolastico, con talune complicità istituzionali, sia stato anche coinvolto e sfruttato per manovalanza gratisetamoredei con la scusa dei soliti ipocriti crediti e tirocini. I manovali, non gli ospiti di un’esperienza. Chissà se le figure nere vaganti e divaganti di quest’anno saranno ricompensate con il nulla o solo con il mero onore di esserci stati?
Contaminations
Quale idea idea di educazione emerge da questa storia? A quali mostri didascalici della realtà si allude? Forse al qualunquismo di ritorno insieme ad una strisciante restaurazione? Ai miti dedicati ad un popolo che si intende mantenere tale e quale? Che comunque è bene che resti da borghesuccio benestante o povero in canna, nel recinto aulico dei già citati pani e circhi, chiese, spettacoli e spettegoli?
I prodromi narrati in questa antologia storica popsofistica 2014-2023 possono essere utili per capire i mostri di ieri e di oggi e capire quanto di realmente educativo mettessero in campo.
Mentre percorriamo erranti il programma, pieno zeppo di carneadi (cosa che finalmente di per sé non sarebbe un male), immaginiamo solo per carenza di pecunia per i soliti noti vips vaganti indifferentemente da destra a sinistra, seguiamo diagonalmente, pure con l’apporto della mitizzata IA, gli eventi. Immaginiamo le motivazioni culturpop degli sponsors patrocinanti, guidati dalla Regione di estrema destra, dal sindaco piddino già renziano e la sua città della “cultura”, dall’ineffabile duo Valditara e Sangiuliano degni membri di un rieditato Minculpop.
Ma i mostri qui, oltre a quelli citati, sono evocati, rappresentati, raccontati o mirabilmente e fisicamente presenti ? È un fatto che oggi certo non mancano dovunque ci si giri. Anche qui.
In una teoria di aforismi e allusioni si esplica l’essenza del nostro scritto folle e impressionista attraverso la parola chiave “educazione” durante le fasi principali dell’evento, salvo sentire “un radiatore che fuma” ogni tre minuti…e…darsi subitaneamente ad una fuga precipitosa.
GIOVEDI 6
La “Mostra” di riciclo multimediale. Le TIC nell’ educazione come bricolage pedagogico? Fricchettoni del web e narcisisti dell’effimero? Stupire per intontire ed intortare? Paraarte? Tanta, tanta aria fritta. E il fritto, si sa bene non fa. Di fatto platee rare di giovani. E forse è fonte di speranza, purché l’alternativa non sia Ticche Tocche!!
Involution
CICLI E RICICLI. REPETITA IUVANT?
2023
2021
VENERDI 7
“Mostri e mostriciattolə” Parità di genere mostruoso? Memorie pop? Oscure presenze trans silvane? Tarallucci e vino?
In vino veritas?
SABATO 8
“Mostri gossippari e spiritati de la médiocratie del mediorock nostrano”.
Il clou delle serate un po’ scialbe a nostro avviso. Forse sarebbe stata ad hoc la vecchia location di Rocca Costanza, assai familiare anche per il diskettaro nato con la camicia vilpop che all’epoca avrebbe dovuto forse trattenersi nel maniero per non far danni non d’erba ma di note, urla roche e stereotipi paratrasgressivi. Ahi Victor quanto avevi ragione sul successo e sul talento di mostri costruiti per mode e stereotipi di massa o anche di “società stretta” direbbe un mio amato concittadino. Spero che i giovani in formazione non prendano tutto questo sul serio e tanto meno i loro mentori. Sarebbe l’ennesimo periglioso bricolage pedagogico.
E che dire dei poveri malamente strattonati Proust e Nietzche, sempre citati e ricitati, che perfino il dotto Blasco avrebbe letto per intero e profondamente capito fino ad infondere la sua “filosofia” tesa anche a ritenere utopico (nella sua accezione volgare) inutile ed illusoria qualsiasi velleità di rivoluzione? Perfino l’anfitriona popsofistica ne avrebbe fatto il fucro della sua filosofia pop. Quanta disistima per il popolo, quello vero, non quello del pane e dei circhi vari. Vasco a nostro avviso fa parte dei de gustibus di un bravo artigiano checché ne dica il suo fan amico dal palco. Il gruppo musicale pure è un godibile rassemblement di bravi artigiani. Altra cosa come già scritto era la Compagnia di Musicultura.
LA BANALITÀ DEL MOSTRO RE DI ROCCA COSTANZA
Foto di classe
DOMENICA 9: “Various positions ”
Vi risparmiamo la dissertazione disneyana. Il mostro dei mostri del disegno animato non è mai stato, crediamo, un bell’esempio pedagogico. Tutt’altro.
Niente toccata, solo fuga!!! Cara “Pop Sophia” sappi che il popolo vero non può essere il volgo che gode solo di frivolezze e provocazioni tanto da ridere (come ieri) più per il turpiloquio e le volgarità che per l’ironia a volte emergenti, forse a caso, anche da recite assai intellettuali. È questo che si vuol contrapporre al radical chic o all’attuale prevalente restoration choc? Così non si educa nessuno. Anzi. Si tratta del solito ben collaudato panem et circenses ad usum dei consueti delfini.
Fuga di cervelli mostruosi
La redazione di ReseArt 2014-2023
Post Scriptum: gli avventurosi lettori (pochi credo ma buoni) di questo pezzo per contestualizzare il tutto ripassino l’excursus storico popsofaico proposto:
Al di là delle definizioni e delle partigianerie sento l’esigenza di prendere spunto da due scritti, uno “storico” e uno attuale, per esprimere qualche riflessione sul tema. L’abuso de termine al di là dei suoi significati storicamente collocabili e significativi oltre che singolari nelle loro varietà (i fasci littori, i fasci rivoluzionari francesi, i fasci anarchici dei lavoratori agrari, i fasci di combattimento..)ha superato tutte le etimologie fino a definire idee, comportamenti, politiche decisamente collocate a destra, alla destra estrema che viene definita anche con tanti prefissi (neo, post,..)
Fasci variegati
Su questa ultima tematica, in un’ottica linguistica, ha ben scritto Libération di recente:
Il premier italiano Giorgia Meloni è “neo” o “post”-fascista? Dovremmo andare verso una società “de-globalizzata”? Esistono le “neo-femministe”? Se le parole non sono neutre, questi piccoli strumenti sintattici che sono i prefissi, che occupano un posto dominante nella creazione del lessico della lingua, non derogano alla regola. “Due terzi dei neologismi oggi si formano sulla base di prefissi, spiega Christophe Gérard, linguista dell’Università di Strasburgo. Un predominio netto che probabilmente spiega perché i politici vi ricorrono in maniera massiccia.La pronuncia di un termine può investirlo di una carica politica che prevale sulla sua originaria neutralità; il dibattito semantico sulla vittoria della Meloni alle legislative del 26 settembre lo illustra bene. Non ha mancato di irritare, come la giornalista conservatrice Gabrielle Cluzel che su Twitter ha scherzato: “Neofascista, postfascista… possiamo inventarne molti altri: parafascista, perifascista, subfascista, criptofascista…”. La maggior parte dei media e dei politici ha optato per l’etichetta di “post-fascista”, riconoscendone le radici ed evitando la trappola dell’anacronismo. ““Néo” evoca semplicemente una ripresa nel presente, mentre “post” induce un aggiornamento per distanza, un sorpasso che permette di disinnescare ogni critica, analizza Bruno Cautrès, ricercatore del Centro Ricerche Politiche di Sciences-Po (Cevipof) e specialista in comportamento politico. La vicinanza ideologica viene così preservata, pur segnando un taglio netto con il passato. Se il “postfascismo” ha dato luogo a divergenze concettuali e ideologiche, gli specialisti concordano sull’idea di un riconoscimento dell’eredità fascista, ma senza la volontà di rompere con le istituzioni democratiche – insomma, una moderazione dell’autoritarismo per aprire un dialogo con le forze della destra e integrarsi nel gioco politico. Orientamento politico consistente nel superare parzialmente o totalmente un passato fascista o neofascista senza tuttavia rinnegarlo”, così definisce il dizionario italiano Garzanti.Questa idea di superamento, di rottura con il passato, non è priva di problemi per il filosofo Michaël Foessel , per i quali gli echi tra ieri e oggi sono troppo inquietanti per considerare che viviamo per sempre dopo il fascismo. “Il “post” implica una novità che inscrive il presente in un’esplicita negazione del passato”, ha ricordato sulle pagine di Liberazione. È curioso evocarlo per caratterizzare un partito che non si è nemmeno preso la briga di modificare lo striscione che gli fa da logo e che tutti sanno essere il segno storico dell’adesione al Duce di coloro che, naturalmente, vennero dopo il regime fascista, ma nella speranza di ripristinarne i principi.“
Si va dalle nostalgie che tendono a riproporre una serie di idee e prassi in forma diversa (vedi Costituzione italiana, Disposizioni finali XII ) alle organizzazioni politiche che pur senza richiamarsi ad un periodo preciso o a determinate esperienze storiche ripropongono di fatto presupposti, dogmi, ideali e prassi coincidenti con il pensiero ultraconservatore o reazionario.
Lo scopo è conservare i concetti anche retrogradi della tradizione storica e delle religioni e insieme reagire a qualsiasi forma di innovazione, di tutela di diritti e libertà, sociali, civili ed etiche. Ma c’è anche un pensiero invasivo e diffuso che va oltre la terminologia ma preserva anche bipartisan idee che ormai non sono più solo appannaggio della cosiddetta cultura di destra ma anche della cosiddetta cultura di centro e ahimè anche di una sorta di sinistra senza più distinzioni. Ha fatto riflettere molto a tal proposito, a torto o ragione, il saggio di Umberto Eco “Fascismi eterni”:
Una riflessione ancora più centrata, espressa progressivamente in diversi articoli, è stata quella del mio amico Paolo Mottana sul suo blog di controeducazione:
Ora, per chiarezza, forse occorre ritornare alle radici e per definire le cosiddette culture di destra, di sinistra, liberale, liberista etc… si dovrebbe pensare solo all’insieme di categorie che le caratterizzano ed ai comportamenti che le mettono in pratica. Il capitalismo, il libero mercato, lo sfruttamento, la speculazione, le gerarchie, la meritocrazia, la competizione, l’istruzione obbligatoria e rigidamente regolamentata dallo Stato, l’ineluttabilità della ricchezza e della povertà determinate dal merito e dalla volontà, il diritto alla difesa ed all’offesa, i fondamentali intoccabili delle civiltà (occidentali od orientali che siano): dio, patria e famiglia, l’intangibilità dei confini delle “nazioni”, la superiorità di certe etnie rispetto ad altre, i limiti alla libertà di migrare e tanto altro ancora sono da attribuire senza esitazione alla destra. Tutto il contrario, esattamente il contrario per la vera sinistra accanto ad una via di mezzo al centro e nella falsa sinistra (ormai unica forse, almeno nei parlamenti). La cultura, o quanto meno chi la fa (artisti, scrittori, musicisti, educatori, scienziati, filosofi, poeti…) checché se ne dica non sfuggono affatto a queste categorie, magari non in maniera tranchant, con chiari e scuri, evoluzioni ed involuzioni, e nel loro agire rispecchiano palesemente o subliminalmente la loro idea del mondo e della vita o la loro immagine del mondo e della vita, a dispetto di quanti predicano una presunta assoluta sublime ed empirea estraneità dei geni dell’arte, della musica, della letteratura dalla vita reale e dalle sue contraddizioni. Recenti diatribe senza uscita mi hanno coinvolto nei cerchi magici di adepti, cultori e sedicenti esperti per i casi di Wagner, Proust, Lecorbusier, Céline…
Quale cultura è più utile all’umanità? Quella che la divide in classi, caste, gruppi di potere, superstizioni e spiritismi, fisionomie e fisiologie, terre dei padri e delle madri, giustificando differenze, intolleranze, discriminazioni, competizioni, supremazie, gerarchie e proprietà dell’accumulo o quella che si oppone a tutto questo se possibile non con la violenza ma con una sottile rivoluzione e con una nuova visione dell’educazione liberamente critica e fondata sull’esperienza e l’erranza?
Quale cultura è più utile all’umanità’ ? Quella che la sta convincendo che è conveniente lasciar governare una specie di oligarchia e farsi gli affari propri, magari non andando a votare, in una specie di mal comune mezzo gaudio? Se in tante parti del mondo al massimo il 30 per cento di cittadini elettori decide delle sorti di un intero paese, non siamo già ad una cultura di destra dominante a tutti gli effetti e ad una teoria crescente di dittature palesi od occulte?
Chiudo citando Eco che cita Franco Fortini:
Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell’acqua della fonte
La bava degli impiccati
Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull’erba secca del prato
I denti dei fucilati
Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini
Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini
Ma noi s’è letto negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà Ma l’hanno stretta í pugni dei morti
Perdersi tra luci, ombre e strade incerte. Il Mister linea ripescato creativamente a Nantes nel 2014 per guidare nelle vie artistiche e museali urbane sarebbe stato forse una bussola possibile.
Non so se i curatori e gli allestitori abbiano visitato in lungo e in largo nel tempo e nello spazio il mondo delle mostre. Non mi è parso proprio. Parrebbe che la moda prevalga sul buon senso e sulla perizia.
Dall’inizio alla fine è un continuo chiedersi e chiedere alle “maschere”, per la verità molto pronte e cortesi, quale sia la via coerente da seguire insieme al mio amico e collega architetto e artista Claudio, oltre che uno strabuzzare con gran disagio gli occhi da miopi e catarattati per distinguere quadri e scritti immersi nel buio quasi pesto. Non sarebbe anche questa una barriera architettonica?
Colpisce in tutta la compagnia di visitatori la ridondanza e la percepita confusione profusa di pezzi, quadri, oggetti, scritti in un percorso stremante e non chiaramente coerente, se non per una sottile cronologia, di avanti, indietro, a destra, a manca, sopra e sotto suggerito con grande impegno e palese fatica dalle giovani guide a volte un po’ insofferenti.
C’erano con noi anche delle esperte docenti di arte della moda e di storia del costume che hanno rilevato vuoti evidenti di contenuto nell’excursus storico, soprattutto concentrati nel periodo contemporaneo in relazione alle grandi firme italiane e straniere, insieme a sorprendenti ridondanze invece di qualche nome (Germana Marucelli ndr) pur apprezzando alcune scelte di accostamenti pittorici con stili e confezioni d’epoca. Resta impresso comunque l’impatto architettonico e logistico dell’allestimento non proprio azzeccato se si fa eccezione per alcuni indovinati dettagli che forse sono riusciti, si immagina, non proprio intenzionalmente.
Nelle foto che costituiscono il corpus di questo scritto si è cercato di illustrare l’impressione che abbiamo percepito come in un vagabondare (forse anche provocatoriamente originale) tra secoli, forme, colori, corridoi, penombre (o forse meglio ombre) e scoperte di angoli improvvisi, percorsi chiusi, stanze senza vie d’uscita, ricorsi di strade già sperimentate, interventi di mentori in divisa e guide indiane in extremis. Ultimo, ma non ultimo, l’ascolto dei sibili degli allarmi pronti a redarguire all’avvicinarsi dell’occhio, nel tentativo di decifrare le didascalie spesso illeggibili anche a brevi distanze per carenza di illuminazione. Non verrà in mente a qualcuno, fatte salve le tutele (spesso a dire il vero esagerate) delle opere, che la luce naturale, ben dosata e calibrata, sarebbe la soluzione migliore per la visione di tanti capolavori che comunque, al limite, in una accezione futuribile, sarebbero meglio fruibili e comprensibili nei luoghi della loro dimora abituale (ammesso che ne abbiano una), in una specie di mostra diffusa come accade sempre più per il museo diffuso? Alla fine della giostra, stremati per la lunghezza, le giravolte, gli andirivieni nella semi oscurità, e la sofferenza oculare purtroppo c’è stato un sospiro corale di sollievo. Non ce l’aspettavamo, anche per le precedenti esperienze nel bel locus artistico.
Giuseppe Campagnoli
Giuseppe Campagnoli, architetto ricercatore e saggista operante nel campo dell’educazione, dell’architettura per l’educazione e la cultura. Già docente e direttore di scuole artistiche a Macerata, Cagli, Pesaro e Riccione. Responsabile dal 2000 al 2006 dell’Ufficio Studi e Ricerche presso la Direzione Scolastica Regionale per le Marche del MIUR. Fino al 2012 nella lista degli esperti dell’ Education, Audiovisual and Culture Executive Agency della Commissione Europea e dell’UNESCO nel campo della cultura dell’education e della creatività. Fondatore e Amministratore nel 2013 del Blog multidisciplinare ReseArt.com dove scrive di scuola, architettura, arte, politica e varia umanità.Coredattore fin dal 2016 e firma del “Manifesto della educazione diffusa” pubblicato nel 2018.Numerose le pubblicazioni in campo educativo e sui luoghi dell’apprendere. Collaboratore, tra le altre, della rivista on line Comune-info.net, della Rivista dell’istruzione, Education2.0, Terra Nuova, Innovatio educativa, Le Télémaque.
Silvio Berlusconi, l’ex capo del governo italiano e miliardario sulfureo, è morto il 12 giugno all’età di 86 anni. Un breve testo per omaggiarlo… a modo nostro.
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È appena morto l’uomo più famoso d’Italia. No, non il Papa, l’altro: Silvio Berlusconi. Resta la domanda scottante: dove sceglierà – sì,potrà scegliere – il Cavaliere per trascorrere la sua eternità? Se sarà il paradiso, finalmente sapremo il sesso degli angeli, perché Berlusconi si è applicato tutta la vita per essere l’incarnazione del maschio latino in tutto il suo splendore e tutta la sua arroganza. Se invece sarà l’inferno, è meglio che Satana si aggrappi al suo trono e controlli le sue truppe, perché sta arrivando un serio concorrente e potrebbe esserci un colpo di stato nell’aria sulfurea.
Per sfuggire al giudizio, anche all’ultimo, Berlusconi è capace di tutto. Lo ha ampiamente dimostrato nel corso della sua interminabile carriera politica, iniziata nel 1994, all’indomani dell’Operazione Mani Pulite. Ironia della sorte, questa “spazzata giudiziaria” mirava a recidere il cordone ombelicale che legava alcuni partiti politici italiani – la Democrazia Cristiana, ovviamente, ma anche il Partito Socialista – alla mafia siciliana. Senza fortuna, ha spianato inconsapevolmente la strada al più mafioso, al più corrotto, al più abile e al più disinibito di tutti. Imprenditore a tutto campo – immobiliare, cinema, televisione, editoria, finanza, pubblicità, telefonia, calcio… – Berlusconi è diventato in un batter d’occhio uno dei pilastri fondamentali della politica italiana degli ultimi trent’anni. Tutto questo nonostante più di 30 cause legali per evasione fiscale, corruzione, falsi bilanci, finanziamento illecito di partiti politici, appropriazione indebita di fondi pubblici, associazione mafiosa, prostituzione minorile…
Se il suo ultimo mandato da Presidente del Consiglio (2008-2011) non è stato altro che un lungo vaudeville di merda, punteggiato essenzialmente da affari non sempre importanti e feste da “bunga bunga”, il suo ingresso in politica è stato di tutt’altro profilo, con conseguenze che sono andate ben oltre i confini dell’Italia. È stato il primo miliardario ad entrare in politica, scolpendo nella pietra l’idea che lo Stato è un business come un altro e che il cinismo può servire da moralità, aprendo la strada a una sottile schiera di avatar, tra cui Trump è senza dubbio il più vincente. Fu il primo, indagato a tutto campodalla giustizia, a parlare di “giudici rossi” e a teorizzare il “complotto” dei magistrati. Soprattutto è stato il primo a “sdemonizzare” l’estrema destra, governando, fin dal suo primo mandato, con i postfascisti di Alleanza Nazionale e con i regionalisti xenofobi e antieuropeisti della Lega Nord.
A Charlie si è scritto molto su Silvio Berlusconi. Anche senza seguire da vicino la scena politica italiana, per molti anni è stato molto arduo da trattare ,soprattutto per un giornale satirico a cui piace ridere di cose non necessariamente divertenti. Ci mancherà? NO. E tanto meno oggi che abbiamo molto a che fare con la sua eredità. Parce sepulti sed…mancherà molto alla satira internazionale. Ricordo un articolo divertente di qualche anno fa su Charlie Hebdo. Speriamo che manchino i suoi danari alla destra.
Nel 2018
Tra cugini non ci si ama molto ma ci si conosce a fondo e ci si dice la verità. Così Charlie Hebdo ci vede oggi. Fa le pulci ferocemente tutti i giorni a Macron, al suo governo e ai suoi ministri e ora tocca a noi vicini di casa.Non ci offendiamo. Non è null’altro che la verità vista da un parente disinteressato abbastanza lontano da capirci e da non essere coinvolto emotivamente (come i nostri fratelli spagnoli o greci, per esempio)
Di Gerard Biard. Traduzione di Giuseppe Campagnoli.
“Non ci giriamo troppo intorno. Chi potrebbe credere che il governo appena insediato in Italia possa essere una cosa seria con il suo presidente del Consiglio prestanome, i suoi due vice capibanda Salvini e Di Maio e il suo patchwork di provinciali violenti di estrema destra, di anti parlamentari 2.0 e di grigi tecnocrati? Non ci nascondiamo dietro un dito. Solo un uomo potrà salvare l’Italia è restituirle il suo spirito naturale: Silvio Berlusconi. Ora, riabilitato, è pienamente disponibile. In questi tristi tempi non sputiamo su una buona occasione per divertirci. Ecco i diversi motivi:
È una garanzia di stabilità perchè ormai dal 1991 è stato tre volte presidente del Consiglio e non ha mai lasciato la scena.
Assicurerà una credibilità internazionale grazie alla sua solida amicizia con Putin. Anche lui gli offerto un letto a baldacchino! Con Trump sarà culo e camicia nel condividere contatti di escort e serate bunga-bunga.
L’unione europea sarà rassicurata perchè saranno meglio le sue barzellette sporche nei summit e le corna nelle foto ufficiali che una minaccia permanente di Italexit!
Non è per nulla cambiato: in una recente riunione locale del suo partito ha dato il meglio di sè: quando una ragazza gli ha donato una crosta di un artista locale ha esclamato: ” se potessi scegliere prenderei te” e al dirigente regionale del partito che gridava : ” ma è mia figlia!” ha risposto con : ” tu hai proprio buon gusto”
Infine, cosa più importante, è che gli elettori della Lega e del M5S non si crederanno traditi. Infatti i punti più importanti dell’accordo di governo sono esattamente nella linea di destra di quello che ha fatto o sognato il Cavaliere negli ultimi anni. La flat tax? Lui l’ha proposta fin dal 1994 ma non è mai riuscito a farla approvare. I migranti fuori? Aveva personalmente trattato con Gheddafi per trasformare la Libia in una specie di secondo confine per fermare le flotte di migranti: esattamente ciò che fa l’UE oggi con Erdogan. Tutto questo è la prova del suo talento visionario.Il suo sistema di contenimento dei migranti fu ripreso dal centro sinistra ed è tuttora sostanzialmente in vigore.
Anche per il sud ha fatto moltissimo anche con i suoi dinamici rappresentanti (Cosa Nostra, Camorra, Ndrangheta…). Si è impegnato a lungo per una giustizia più semplice ed efficace. Durante i suoi interminabili mandati non si è mai così tanto adoperato per riformare la giustizia! Il riavvicinamento alla Russia? I suoi legami con Putin sono noti.
Vista dall’esterno come dall’interno la politica italiana appare come una lunga serie di barzellette. Non si immaginava che si sarebbe prolungata per tanto tempo fino a incarnarsi, un po’ cambiata ma certamente esasperata e manifesta , nel fumoso governo tricefalo del “cambiamento”. Ridiamo allora perché è tutto quello che resta da fare…”
E io aggiungo: finché non ci resterà null’altro che piangere.
Nel 2022 non ci restò null’altro che ribellarci. Ma forse non tutti i mali ( in generale) vengono per nuocere. E se ora la destra rimanesse senza sghei?
Daniel Ellsberg on Nuclear War and Ukraine 16 Agosto 2022
Editor’s note: Ellsberg’s 6/18/22 interview with TheAnalysis.News can be viewed here. An excerpt follows from the full transcript.
Traduzione Reverso documenti. Revisione di G. Campagnoli.
L’invasione russa dell’Ucraina ha reso il mondo molto più pericoloso, non solo nel breve periodo. Le modalità possono essere irreversibili. È stato un attacco tragico e criminale. Stiamo vedendo l’umanità al suo peggio. Finora, dal 1945 non abbiamo visto la guerra nucleare.
Davvero, è stato inaspettato. Quando ero adolescente, negli anni ’40, ’50 o ’60, penso che quasi nessuno che conoscevo si aspettasse che saremmo andati 70 anni dopo Hiroshima e Nagasaki verso un’altra esplosione atomica sugli umani. Oggi potrebbe invece benissimo accadere. Ci siamo stati molto vicini, incredibilmente vicini. Eppure, finora è successo qualcosa che non era facilmente prevedibile: che ciascuna delle superpotenze, Stati Uniti e Russia, si sono lasciate finora bloccare o sconfiggere senza tornare alle armi nucleari. Credo che quasi nessuno contemplasse questa possibilità.
Certo, oggi questa possibilità in un modo diverso si ripresenta. In situazioni passate di stallo, quando una superpotenza si è confrontata con una potenza molto più piccola – che si trattasse di Corea, Indocina, Vietnam, Laos o i russi che andavano in Afghanistan – si è stati in grado di accettare la sconfitta senza usare armi nucleari, sia in Vietnam che in Afghanistan per esempio. In sostanza, noi americani abbiamo subito una sconfitta in Iraq, anche politicamente parlando, come hanno fatto i russi in Afghanistan. In diverse occasioni, falsi allarmi durante le crisi passate avrebbero potuto innescare la guerra nucleare non verificatasi solo per la prudenza dei governanti. Il mondo pendeva dalle decisioni rischiose di persone come Arkhipov nella crisi dei missili cubani o il colonnello Petrov nella crisi del 1983. Una situazione simile potrebbe verificarsi nella guerra in corso in vari modi. Se gli ucraini utilizzassero i sistemi missilistici che ora forniamo loro, che danno loro la possibilità di rispondere agli attacchi russi sul suolo ucraino con attacchi ucraini sul suolo russo, si verificherebbe una grave escalation, probabilmente fuori dal controllo statunitense o di altri contendenti per procura. Ancora una volta, se una possibile sconfitta nel Donbass delle forze russe inducesse Putin, o i suoi comandanti, ad attaccare i punti di rifornimento in Polonia, implicando così direttamente la NATO, potremmo trovarci con gli Stati Uniti e la NATO direttamente in guerra con la Russia. Un rischio che è stato finora evitato.
Mappa fonte Limes.
Ogni leader – Biden, da un lato, e Putin dall’altro – in passato si è astenuto da atti che avrebbero portato i nostri paesi in un conflitto armato diretto. In questo hanno mostrato una sorta di prudenza. Eppure è anche il caso che stiano giocando con rischi evidenti, a causa di ciò che ciascuno sta facendo con ciò che l’altra parte sta facendo. Questo ci sta portando in un territorio completamente nuovo, qualcosa che non è successo negli ultimi 70 anni: l’imminente possibilità di un conflitto armato tra gli Stati Uniti, o la NATO, e la Russia (o, in precedenza, l’Unione Sovietica). Tuttavia, qualcosa che non abbiamo ancora visto, qualcosa che non è ancora stato testato, è la volontà del leader di una superpotenza di perdere o di essere bloccato dall’altra superpotenza. Ciò comporterebbe una perdita di prestigio e una perdita di influenza nel mondo come non è accaduto nelle guerre precedenti.
Per gli Stati Uniti ritirarsi dal Vietnam o dall’Afghanistan on ha inciso affatto direttamente sulla loro capacità di essere una grande potenza o una superpotenza nel mondo. Tuttavia, perdere direttamente contro la Russia o perdere contro gli Stati Uniti è un’altra questione. Non è mai successo prima, e invece potrebbe facilmente accadere ora. Questa è la scommessa di entrambe le parti a questo punto, proprio come entrambe le parti giocavano d’azzardo nella crisi dei missili cubani, in cui io stesso fui coinvolto a un alto livello. Dopo 50 anni di studio, e avendo partecipato direttamente alla crisi, credo che né Kruscev né Kennedy intendessero portare avanti le loro minacce di conflitto armato. Credo che entrambi stessero bluffando. Eppure ognuno di loro stava facendo mosse, dispiegando eserciti minacce e atti solo allo scopo di migliorare i termini di un accordo negoziato che ognuno di loro si aspettava di concludere con condizioni favorevoli. Erano comunque a un passo dalle azioni dei loro subordinati che avrebbero potuto condurre direttamente al conflitto armato.
Un risultato negoziato quanto prima in Ucraina, almeno entro i prossimi mesi, sarebbe molto importante, ma non è purtroppo probabile. Mentre la guerra continua, la possibilità di un’escalation cresce seppure i politici cerchino di evitare un’ulteriore crescendo o un costoso stallo. Quindi stiamo parlando di una lunga guerra in cui vite ucraine vengono distrutte, centinaia di migliaia di vittime sul lato ucraino, così come pure, comparabilmente dal lato russo.
Questa è una situazione tragica per l’Ucraina come per il popolo russo ( a causa delle sanzioni) e per il resto del mondo in merito alle forniture alimentari dall’Ucraina, soprattutto per le popolazioni in Africa minacciate sempre più dalle carestie e dalla fame. Le prospettive di continuare semplicemente a questo livello, anche senza escalation, sono alte. Si scopre che i leader al potere rischieranno e persino sacrificheranno qualsiasi numero di esseri umani per evitare sconfitte a breve termine, disastri o umiliazioni per loro personalmente e per il loro paese. La storia dell’ultimo mezzo secolo, che ho analizzato (avendone partecipato in alcuni dei peggiori aspetti durante mia vita), mi dice che piuttosto che subire una sconfitta umiliante, un leader come Putin è disposto ad alzare la posta in gioco, ad aumentare, a recuperare i fallimenti precedenti, e raddoppiare gli interventi che non tengono conto affatto del costo delle vite umane.
Il rischio che entrambe le parti si assumano l’onere di scatenare la guerra nucleare, anche se rimane ancora in qualche modo limitato, è potenzialmente vicino e disastroso.
Il maledetto turismo di massa. L’ennesima storia di una sòlache ormai sta diventando una regola.
Viaggio e coraggio. Tutto il mondo è paese per il turismo selvaggio delle multinazionali, i loro scagnozzi e il povero viaggiatore anche non turista spesso costretto a servirsene.
Dopo altre disavventure, già raccontate, con le multinazionali del turismo di massa (Hertz, Airbnb…) che molti stanno abbandonando già da un po’ con qualche disagio, visto che monopolizzano, insieme ad altri, quasi l’intero mercato di quei servizi, ora è la volta di Booking. Non è un caso che l’opinione pubblica e non solo si stiano ribellando ovunque a questi monopoli residenziali che oltre a distruggere tanti centri storici e realtà paesaggistiche in ogni parte del mondo hanno alterato anche la fruizione di un bene essenziale come l’abitare di fatto escludendone del tutto l’aspetto sociale a favore del mercato incontrollato a fini turistici o di business.
Questa l’ennesima storia. Tale e quale. Giudicate voi.
Nell’Aprile 2023 una famiglia prenota tramite la piattaforma una sistemazione a Roma. Viene proposta una soluzione nel complesso accettabile nel mare magnum di offerte supercostose tipiche della capitale di tutto, nel bene e nel male. Una certa “Trevi Rooms in Rome” in via delle Quattro Fontane offre attraverso Booking una stanza in centro per tre notti a circa 400 euro.
Il cliente prenota come fece altre volte con lo stesso servizio, senza problemi. L’unica condizione (a dir la verità un po’ capestro e che avrebbe dovuto mettere in allarme gli aspiranti clienti) era quella della impossibilità di cancellazione in ogni caso della prenotazione da parte del cliente ( a occhio decisamente fuori dalle garanzie europee del diritto dei recesso). In caso di emergenza dunque si sarebbe perduto per intero l’importo versato. Nonostante si fosse anticipato il pagamento, come al solito, poco prima della partenza, si va alla ricerca dell’indirizzo preciso della struttura di cui stranamente è presente solo la via ma non il numero civico. Allora si telefona al numero presente in rete per contattare il gestore dell’alloggio e con sorpresa si viene invitati con una certa stizza nella voce ed un fare estremamente maleducato a non chiamare il numero (peraltro indicato come contatto) ma a servirsi della piattaforma Booking. Il cliente acconsente e si adopera per conoscere esattamente il posto dove recarsi anche per prenotare un taxi per tempo (a Roma!)ma non riceve alcuna risposta. Allora si reca nella parte del sito Booking relativo alla struttura per leggerne le recensioni e con grande sorpresa viene fuori una caterva di opinioni estremamente negative del tipo: “terribile, truffa, proprietario scorretto, sovrapprezzi non dovuti, stanza sporca, camera non trovata all’arrivo, estremo disagio per chi è riuscito ad accedere al servizio in tempi ragionevoli, nessuna assistenza da Booking…) Nel collage qui sotto solo una minima parte dei commenti
A questo punto il cliente ritelefona direttamente al gestore per avere delucidazioni circa la mancanza di un indirizzo esatto e la caterva di recensioni negative. Non l’avesse mai fatto! Viene aggredito al telefono sostenendo tra l’altro che non si sarebbe dovuto telefonare a quell’ora e tante altre amenità compresa quella che l’indirizzo per strane ” ragioni di sicurezza” sarebbe stato fornito all’ultimo momento il giorno stesso dell’arrivo (!!). Mettendo insieme tutti i pezzi e le informazioni il cliente manifesta l’impressione di trovarsi difronte ad una truffa ricordando che è un crimine e chi la perpetrasse sarebbe pertanto un criminale. In questo caso pur mantenendo la prenotazione il cliente afferma che se ci si fosse trovati in una qualche emergenza all’arrivo si sarebbero interpellate seduta stante le forze dell’ordine. Il gestore diventa sempre più aggressivo e maleducato e dopo aver detto che il cliente non sarebbe stato ospite gradito chiude repentinamente la conversazione. Una successiva telefonata fatta da un familiare serve solo a ribadire i concetti evidenti nella prima e si conclude sempre con la dichiarazione del gestore che i clienti non sarebbero stati graditi. Da qui l’annuncio ovvio del cliente di cancellare la prenotazione e richiedere, vista l’eccezionalità della situazione, il rimborso dell’intero importo non escludendo una richiesta di danni.
Si procede immediatamente e contestualmente viene fatta una segnalazione all’assistenza clienti della piattaforma Booking che rinvia tutta la responsabilità di effettuare o no il rimborso sul proprietario della struttura che naturalmente non dà alcun cenno di risposta. Nell’ultimo contatto tra i tanti ripetuti messaggi, Booking consiglia per l’ennesima volta di attendere il responso del gestore dell’alloggio che però non arriverà mai. Non sappiamo come andrà a finire ma una cosa è certa: verrà coinvolta un’associazione di consumatori per la tutela legale e si farà tutta la possibile pubblicità dell’accaduto. I viaggiatori si ricorderanno naturalmente della Via delle Quattro Fontane e del fatto che, costretti in extremis a prenotare altrove, per non perdere la spesa di viaggio già affrontata, si sono ritrovati a pagare oltre il doppio del dovuto per alloggiare.
L’aria che tira ahimè oggi non è proprio favorevole. Anzi. Chi ne fa le spese sono coloro che viaggiano per diversi motivi e si trovano di fronte ad una offerta alterata e vessatoria, dannosa anche per le città ed i territori. Chi fa affari invece spesso viene difeso da governi che amano la proprietà che sfrutta e la speculazione quasi esentasse.
Una soluzione ci sarebbe: class actions oppure un boicottaggio diffuso prima delle piattaforme e poi del mercato speculativo turistico di alloggi, stanze, appartamenti, loft etc…Quel mercato è estremamente dannoso per il fabbisogno sociale di famiglie in cerca di casa, di studenti, lavoratori, senza tettooltre che per i centri storici e l’ambiente in generale.
DA STORIE COME QUESTA, CHE SONO ORMAI MIGLIAIA, FACCIAMO NASCERE UN TURISMO DIVERSO, RISPETTOSO DEI BISOGNI ABITATIVI SOCIALI, DEI CENTRI STORICI, DEI LITORALI, DELLE CAMPAGNE , DELLE MONTAGNE, DELL’ AMBIENTE IN GENERALE. OGNUNO NEL SUO PICCOLO. ATTIVIAMO COOPERATIVE NO PROFIT COME UNA SPECIE DI MUTUO SOCCORSO TRA CHI VIAGGIA PER CONOSCERE E CONDIVIDERE.
Turismo infatti. Non si ricominci come prima. Il turismo di massa è sotto processo. È urgente cambiare per non distruggere la natura, le città, i popoli. Dalla Carta del turismo sostenibile del 1995 non è cambiato nulla, anzi. Il profitto prima di tutto, la cementificazione, la ressa dei trasporti e dei servizi inutili. Una delle colpe più gravi è la complicità con il sistema del turismo globale anche di quelle organizzazioni che avrebbero il compito di tutelare l’ambiente e il patrimonio dell’umanità. Il turismo crea ricchezza sfruttando e speculando mentre trasforma e distrugge la natura, i luoghi e gli ambienti antropici. C’è una via di mezzo? Forse. Resta la costruzione del turismo di massa che, con la scusa di favorire forme di rispetto degli altri e di sostenibilità modulando le offerte tra ricche ed economiche, ha invece prodotto un temibile effetto perverso: il completamento della conquista mercantile della terra attraverso il moltiplicatore del turismo stesso nelle sue varianti popolari e d’élite. C’è poi anche l’impostura di questo paradigma vacanziero incoraggiato dalle istanze internazionali del turismo che, per combattere la forma massificata, invitano le autorità locali a scaglionare le presenze nello spazio, soluzione certamente concepibile nel caso dei territori del «sottosviluppo»ma che, in quelli del «super turismo», non migliorerà la vita degli ultimi superstiti abitanti dei centri storici e rovinerà quella degli abitanti delle periferie ancora risparmiate.
Così va il mondo del turismo che spesso finge di ignorare che, mentre propaganda la vulgata anti-turismo di massa, partecipa alla diffusione dell’impostura di un turismo sostenibile mentre non fa che contribuire ad un sistema che giungerà presto al termine del suo ciclo portandosi dietro territori, città, persone. Occorre, con urgenza, reinventare un turismo che concili il viaggio, la vacanza e la cultura con la transizione ecologica, un turismo che rifiuti le illusioni di un mondo passato, un turismo finalmente riflessivo e compatibile con la vita.
Racconto raccolto e commentato da Giuseppe Campagnoli per ReseArt
“La storia ha inizio più di dieci anni fa al termine di un percorso di studi secondario. La passione e il risultato ottimo della maturità, oltre ad alcune sofferte economie familiari non supportate da agevolazioni del diritto allo studio riservate a chi evadendo tasse e rubando a man bassa dichiara meno dei dipendenti pubblici o privati, spinge il nostro protagonista ad intraprendere gli studi coerenti con il liceo appena frequentato.
Superate, bene o male, le prove di ammissione in due atenei, sceglie l’università italiana sede di una prestigiosa scuola specialistica di tipo umanistico e tecnico e quindi inizia così l’anno accademico insieme ad un immeritato calvario. Gran parte della preparazione viene lasciata all’iniziativa del singolo studente che deve barcamenarsi attraverso indicazioni generiche, riferimenti confusi, pochi interventi correttivi e di vero insegnamento proprio come l’università di quasi mezzo secolo fa, insieme ad una competitività parossistica e feroce alimentata a volte sotto traccia dagli stessi docenti.
Il percorso triennale termina con il massimo dei voti. Dopo una ulteriore preparazione estiva “matta e disperata”, tesa a colmare la carente preparazione propedeutica al percorso magistrale della stessa università, sostiene l’esame di ammissione per il biennio specialistico. Nello stesso periodo, solo in base all’esame approfondito e certificato del suo curriculum e non in una specie di test breve e dominato dal caso e dal tempo, viene ammesso anche ad una prestigiosa scuola dello stesso tipo in un altro paese europeo. La scelta deve però cadere giocoforza sull’Italia, per ovvi motivi economici. Da qui ricomincia un percorso ancora peggiore di quello del triennio, per la feroce competitività e per una sorta di crescente inadeguatezza pedagogica e didattica. Un percorso ad ostacoli indegno di un paese civile dove la scuola e l’università dovrebbero lasciare indietro meno studenti possibile se fossero pedagogicamente e didatticamente all’altezza del loro compito istituzionale. Dopo una parentesi proficua di studio e lavoro all’estero termina il corso biennale magistrale notando con un po’ di rammarico (forte dello studio rigoroso, delle valutazioni e degli elogi ricevuti all’estero) come in patria non sia stato proprio un profeta nel finire inopinatamente al disotto delle aspettative “metriche” e anche con un immeritato antipatico strascico personale. Consolerebbe solo il fatto che il giudizio dell’Università sia stato poi smentito da una esperienza sul campo all’estero in un organismo di fama internazionale nonostante degli imprevisti ed improvvisi ostacoli sopraggiunti abbiano in seguito portato ad escludere con estremo rammarico proprio il percorso di professionista. Da allora, non avendo potuto contare su un realmente efficace servizio di orientamento, il nostro eroe è alla disperata ricerca di un lavoro all’altezza del curriculum, delle capacità e delle aspirazioni sperando di non dover essere costretti a penosi e umilianti ripieghi come ahinoi, sta già avvenendo, a dispetto dei trionfalistici dati della propaganda nella sua. Manda centinaia di CV in tutta Europa e nel mondo dove pare che i “neofiti” debbano avere almeno un quinquennio di esperienza altrimenti cestinano subito le tue candidature. Riceve una unica risposta positiva e interessata da un direttore di ricerca per un dottorato alla Sorbonne cui forse non si potrà neppure candidare per mancanza di una borsa di studio con la quale potersi mantenere visto che gli sponsors familiari avevano finito le riserve e che per svolgere un’attività accademica così impegnativa occorreva il tempo pieno.
La storia non finisce ancora e subisce una certa evoluzione. In concomitanza con un incarico di insegnamento in scuole statali all’estero il nostro eroe vince una borsa per un dottorato di ricerca, incentrato su un personaggio letterario di fama mondiale in letteratura, presso una Università italiana.
Il dottorato diventa una cotutela con una prestigiosa università di una capitale europea, dove nel frattempo si impegna anche nei famigerati e impossibili (tanti autori famosi lo hanno tentato più volte senza esito) concorsi per l’insegnamento (italianizzando:l’Aggregazione o il Capes-(tro) Il dottorato si sviluppa per 4 anni in parallelo con l’ingresso nella comunità internazionale dei ricercatori e critici dell’opera di un famosissimo letterato, partecipando anche come relatore a diversi seminari, convegni ed eventi di un certo prestigio. Terminato il percorso ottiene il doppio diploma di dottore di ricerca, rilasciato dall’università italiana e da quella partner, con lode e nel frattempo vince anche entrambi i concorsi come docente nelle scuole secondarie italiane dove avvia, in attesa di sviluppi accademici, l’attività di insegnamento da fuori sede, depredato della metà dello stipendio dai ladroni del mercato immobiliare ormai abbandonato alla speculazione selvaggia e viziato dalla caccia al profitto turistico. Proseguono le attività di saggistica e di intervento nei convegni dedicati allo scrittore di cui è diventato de facto esperto. Gli viene dato anche un incarico di prestazione autonoma da una università italiana naturalmente di corsa e sottopagato mentre viene contattato anche per una possibilità di lavoro di ricerca in una università tedesca ed in una italiana sempre nel suo campo disciplinare con tante incertezze e precarietà, comunque con emolumenti nettamente insufficienti per vivere. Con una sorta di incredulo sgomento deve constatare che dopo la bellezza di 11 anni dall’avvio del percorso universitario resiste ancora una fortissima precarietà, soprattutto nel percorso accademico auspicato, dove vige ancora la baronia, la raccomandazione, gli sponsors e tanto altro con l’unica rara eccezione di qualche mentore che ancora resiste ma ha pochissimo potere e spesso deve adattarsi giocoforza al clima clientelare che vige nell’ambiente. Anche l’establishment accademico sia esso italiano che europeo soffre degli stessi malanni.
La meritocrazia e i suoi inganni resistono ancora coniugati con l’iniquità delle dispari opportunità, della competizione sfrenata e disonesta, delle sponsorizzazioni ad usum delphini, delle cattiverie gratuite.Si è precari o sotto occupati ad libitum. Chi è fortunato e sponsorizzto si sistema non prima dei quarant’anni.Non si va avanti senza la scrittura parossistica di articoli su articoli purché sia, sottoponendosi a revisioni con esiti spesso contraddittori se non opposti nei giudizi. Gli interventi, spesso apprezzati a convegni anche prestigiosi e internazionali in genere sono gratis et amore dei con rari rimborsi spese a meno che non si sia un “luminare” non sempre conclamato dell’argomento con il criterio ormai miseramente assodato della pioggia sul bagnato e di quel successo di cui ben scrisse Victor Hugo nei suoi Miserabili. E pensare che si chiacchiera ancora di merito, di talento o di fughe di cervelli (anche queste diventate difficili, per lo meno in Europa). Il falso mito della meritocrazia è dimostrato anche da tanti racconti come questo che purtroppo sono all’ordine del giorno anche in altri campi di studio, perfino in quelli scientifici che sono ancora di moda solo perché assai appetiti dal capitalismo industriale e tecnologico. Per pudore non addentriamoci su quello che è il mondo del lavoro pubblico e privato dove il merito è strumento di potere, di ricatto, di esclusione, di iniquità, di nepotismo ed impari opportunità. Cosa dovrebbero fare i giovani in scenari rivoltanti come questi? Con chi prendersela per avere un po’ di soddisfazione? Perché i media e la politica non preparano un bel dossier degli infiniti casi come questo che sono le perle testimoni di quanto la miseranda meritocrazia sia l’ennesimo regime trasversale e diffuso da destra ahimè fino alla sedicente “sinistra” che continua a blaterare a vanvera di equità sociale.Viene da piangere o da combattere con tutte le forze.
Ho scritto dei fatti drammatici provocati dagli eventi meteorologici nelle Marche e altrove in Italia più e più volte e ora mi ritrovo a riproporre pari pari quello che scrissi giusto un anno fa. Di chi sarà la colpa? Forse di tutti: governi, amministrazioni locali, protezione civile, ma da ultimo e non per ultimi anche i cittadini e le imprese che spesso desiderano la botte piena e la moglie ubriaca. Se non ho curato il mio campo, il mio fosso, la mia scarpata non posso prendermela con il comune o con il meteo. Se ho voluto spendere i miei risparmi per i miei diletti invece di provvedere a regolare le acque nel mio giardino e a rispettare le norme sismiche e idrogeologiche della mia casa, non posso andare in piazza a protestare contro il sindaco e dare la colpa ad altri.
Se in Italia, come altrove, si costruisce per speculazione quasi il triplo del fabbisogno abitativo (peraltro drammaticamente non soddisfatto) ovunque e senza regole di prevenzione e protezione chi è responsabile? Se si è buttato a mare il trasporto pubblico per vendere auto, trasportare beni su ruote e costruire autostrade su autostrade, ponti su ponti, chi è responsabile? Se per produrre e consumare scelleratamente si è fatto degenerare il clima, si sono alterati e ingigantiti i fenomeni estremi, di chi è la colpa?
Nessuna previsione ormai, in questo clima alterato e reso estremo, potrà mai dire con certezza assoluta cosa accadrà dopodomani. La scienza fatica a prevedere certi fenomeni anche entro poche ore! Educazione e coscienza della prevenzione ci aiuterebbero molto. Ma è proprio in questo campo che le risorse sono state tagliate ampiamente. I cittadini debbono conoscere qual’è la loro parte nella salvaguardia del territorio e debbono sapere come comportarsi prima, durante e dopo gli eventi calamitosi. I cittadini debbono essere messi in grado di valutare bene i rischi che corrono, ad esempio, quando colpevolmente estorcono permessi (attraverso i TAR, i contenziosi con i Comuni etc..) di costruire e produrre in aree da sempre a rischio. I cittadini debbono contribuire attivamente alla prevenzione ed alla tutela dei beni comuni a partire dal proprio ambiente domestico e dal proprio intorno territoriale cercando di capire che le seconde, terze e quarte case per speculare e investire oltre ad essere una enorme ingiustizia sociale sono una parte prevalente dello scellerato consumo del suolo e della cementificazione cui anche strade e autostrade danno un pesante contributo.
Gli eventi meteo straordinari sono ormai una realtà ma sono una realtà anche l’abbandono delle campagne agli agriturismo e ai pannelli solari, la speculazione edilizia, la speculazione finanziaria e l’ottusità imprenditoriale e politica che hanno creduto che l’Italia fosse un paese per l’industria pesante, per l’ipercommercio e per un turismo invadente, estremamente massificato e solo godereccio. E’ colpevole però anche l’atteggiamento dei cittadini che protestano per le antenne e non rinunciano a tv e cellulari, che urlano contro la TAV ma si lamentano dei ritardi dei treni, che stigmatizzano l’inquinamento ma non fanno due passi senza auto, allestiscono impunemente tavernette abusive al di sotto del livello stradale, imperversano negli airBnB, nei resort, nelle invadenti ed invasive strutture delle coste, delle montagne, dei centri storici. Chi è senza peccato scagli la prima pietra e duole constatare come tra le foto di cronaca si notino sindaci e assessori con la pala in mano ad uso e consumo della propaganda non ricordando che il proprio dovere va fatto sempre senza clamore magari dandosi da fare per contrastare i fenomeni della speculazione, del turismo selvaggio, del degrado dei trasporti pubblici, della mala o nulla educazione dei cittadini in fatto di prevenzione e protezione.
UN BRANO DA UN ARTICOLO DI EMANUELE COCCIA FILOSOFO, DOCENTE PRESSO LA SCUOLA PER GLI STUDI SUPERIORI IN SCIENZE SOCIALI DI PARIGI (EHESS). PICCOLI PASSI…
« La scuola di domani deve recidere ogni legame con il lavoro »
Di fronte a un mondo trasformato e soggetto a un’accelerazione dell’informazione, il lavoro sta scomparendo. Nuovi luoghi di apprendimento, più liberi, collettivi e degerarchizzati, saranno essenziali per orientarci nel mondo. Il termine “scuola” deriva da una parola greca che significa “mancanza di occupazione”. In latino lo stesso concetto era espresso dal vocabolo otium, “ozio”, assenza totale di mestiere, affari, incombenze, commerci. La scuola non è stata così per secoli. È uno spazio dove la conoscenza è un dovere, un lavoro, e dove ogni conoscenza deve preparare gli studenti al lavoro. La scuola non ha mai avuto voglia o bisogno di ritornare all’idea espressa dal suo stesso nome.
L’ordine geopolitico continua a essere sconvolto. Viviamo in un mondo in cui il lavoro sta scomparendo. Non solo nel senso che sta diventando sempre più una merce rara. Soprattutto, è l’ideale stesso del lavoro che scompare. Quella che negli Stati Uniti viene chiamata “la grande rassegnazione”, la rinuncia a fare del lavoro l’orizzonte definitivo ed esclusivo della propria identità, è ormai un fenomeno onnipresente nelle società occidentali. Non è una moda delle giovani generazioni: la ricchezza non si produce più con il lavoro, e il lavoro non porta più la prosperità che aveva sempre promesso. Qualsiasi lavoro, qualsiasi occupazione è diventata tossica perché rinchiude l’individuo in una forma di schiavitù mal pagata. In un tale contesto, è più che urgente riformare la scuola, tutte le scuole, ma soprattutto le università. Tutti i legami con il lavoro devono essere recisi. La scuola deve tornare ad essere uno spazio in cui ogni professione è sospesa, ogni idea del mondo messa in discussione, ogni sapere decostruito e riformato.
Le università dovrebbero finalmente ammettere che le conoscenze che abbiamo ereditato e custodito non ci permettono più di orientarci nel mondo. Il pianeta che abitiamo è cambiato: la natura non risponde più agli stessi ritmi di un tempo, l’ordine geopolitico continua a essere sconvolto, le tradizioni culturali sono state travolte dall’arrivo dei nuovi media che permettono a qualsiasi idea di circolare istantaneamente e di vivere solo quando circola. Invece di continuare ad illuderci che esista una classe di conoscitori del mondo il cui ruolo è quello di introdurre i più giovani all’esperienza del pianeta, dovremmo renderci conto che tutti abbiamo ancora bisogno di studio, e che l’unico modo per farlo è incontrarsi , regolarmente e collettivamente produrre conoscenza. Non ci devono più essere insegnanti da una parte e studenti dall’altra: ci sono solo studenti, alcuni dei quali possono essere più esperti di altri, e che si fanno carico dello studio collettivo. Dobbiamo anche smettere di vedere l’università come il luogo in cui le generazioni si separano, dove i vecchi insegnano ai giovani. Le università devono diventare lo spazio della mescolanza delle generazioni, l’esercizio del loro reciproco apprendimento di cose che ancora non conoscono. Occorre cambiare ritmo. Vedersi due ore alla settimana era forse una misura opportuna vent’anni fa: in una settimana non succedeva niente, e soprattutto le informazioni ricevute o prodotte avevano il tempo di assestarsi. Una settimana oggi sono tre mesi di qualche anno fa: gli tsunami di informazioni ed esperienze che ci travolgono ogni giorno rendono il ritmo settimanale del tutto obsoleto. Bisognerebbe vedersi per un’intera settimana, tutti i giorni, in modo flessibile e non statico per tante ore al giorno per fare un’esperienza significativa dal punto di vista umano e cognitivo.
Occorre cambiare la forma stessa della produzione del sapere: dobbiamo abbandonare il feticismo delle parole che ha trasformato tutte le università in templi dove il saggio detiene l’unica forma di verità. Oggi viviamo consumando immagini e comunicando attraverso le immagini: è imperativo che le università e non solo riconoscano che qualsiasi oggetto è in grado di trasmettere verità e che una performance, uno spettacolo teatrale, un videogioco, una fotografia, un film, un video o un’opera plastica hanno la stessa potenza e la stessa precisione di un saggio accademico. Dovremmo finalmente sbarazzarci della più sterile delle strutture: la divisione tra scienze umane e scienze naturali, l’illusione che lo studio della natura (esseri viventi, fisica, chimica, informatica, matematica) implichi una visione diversa dell’umanità e della sua storia. L’essere umano non è una sfera separata dal cosmo. Siamo fatti della stessa materia del cosmo. Contrariamente costringiamo chi studia matematica o informatica a non sapere nulla di letteratura e continuiamo a pensare che chi studia sociologia possa fare a meno di un’idea precisa di cosa sia l’acido desossiribonucleico. Resiste una forma di snobismo ottocentesco che non possiamo più permetterci. Chiudiamo le scuole e le università attuali. Creiamo qualcosa di nuovo.. Solo allora potremo orientarci nuovamente su questo pianeta.”
L’educazione diffusa è un vero manifesto politico che prefigura un mondo radicalmente diverso. L’educazione è alla base di tutte le idee.
Finalmente si avvia il progetto di una “base” web, un’ unica piazza virtuale e reale, da cui partire per comunicare più efficacemente, condividere, raccogliere idee ed esperienze, allo scopo di costruire passo dopo passo un sistema dell’educazione diffusa e superare tante incomprensioni in buona o mala fede sull’essenza della nostra idea e del nostro progetto.
Come ribadisce Paolo Mottana: ” Introdurre l’educazione diffusa nella società, come già molte volte sottolineato, non significa semplicemente portare i ragazzi e i bambini fuori dalla scuola a fare esperienze necessarie alla loro formazione. Significa prendere il mondo come oggi si presenta in tutte le società occidentali e occidentalizzate e rovesciarlo da capo a fondo. Quello che noi ci proponiamo è che la presenza rinnovata di una parte assai cospicua della popolazione fino ad oggi relegata dentro gli istituti di soffocamento e educastrazione che chiamiamo scuole e che -come ci han ben spiegato Althusser, Foucault e Goodman (tra altri) sono sistemi di soggiogamento e addestramento all’accettazione dei sistemi di potere, in virtù del trattamento dei corpi e delle menti che in essi si praticano-, cambi radicalmente il nostro modo di vivere. I bambini e i ragazzi che rientrano nella vita sociale, a partecipare, a contribuire, a offrire il loro punto di vista e a imparare, debbono costringere tutta la compagine sociale a interrogarsi su come offrire a questi suoi figli occasioni vitali di presenza piena, di condivisione, di vita intensa insieme a tutti gli altri. Le vie esperienziali che Giuseppe Campagnoli ed io abbiamo suggerito, e cioè servizio sociale, lavoro, cultura simbolica, indagine, corporeità, natura fan sì che bambini e ragazzi entrino nel vivo della società e non siano semplici spettatori. Ciò significa che il loro sguardo e la loro sensibilità, da sempre più acuti e ancora non intaccati dal ricatto del denaro e del lavoro salariato, non possano non influire sull’andamento della vita generale. La loro presenza influirà sulla forma delle città, della viabilità, dell’architettura, costringendo a pensare territori che siano in grado di ospitarli non per fare improbabili città dei bambini ma città a misura di tutta la popolazione nella sua integrità e differenziazione.“
E ancora:
“Però l’educazione diffusa non è mandare studenti a fare scuola in città (FARE SCUOLA!!!), è totalmente altro ed è scritto nero su bianco nei nostri libri, sorretti da una filosofia politica forgiata in lunghi anni di esperienza e di studio di cui sono testimonianza molti altri volumi e conferenze e battaglie, sulla controeducazione, la gaia educazione e l’antipedagogia. So che questo non piace, mica mi illudo, sono anni che non vengo invitato a uno convegno dalle beghine dei miei colleghi di pedagogia né da quasi nessun altro. Per carità una fortuna perché quei convegni sono la peggior perdita di tempo che a uno possa capitare. Però questo è il segno. Siamo sulla strada giusta. Quando così tanti culi di piombo nel mondo ci ostacolano e ci ignorano vuol dire che noi voliamo alto. E prima o poi qualcuno se ne accorgerà.“
“Per connettere e condividere esperienze come ad esempio quelle della Scuola Elfica di Cagliari o dell’Officina del fare e del Sapere di Gubbio e tante altre note ed ignote ispirate all’educazione diffusa occorrerebbe a mio parere costruire finalmente una rete, un portale libero, autonomo, aperto e pubblico, per non disperdersi, agire insieme, diffondere e formarsi per avviarsi sul serio sulla strada della costruzione di un vero sistema dell’educazione diffusa capace di contribuire anche a cambiare radicalmente la realtà.
Durante i nostri incontri di formazione siamo venuti a conoscenza di tante esperienze fuori dal coro, spesso timide e parziali ma da ritenere comunque decisamente affini quando non esplicitamente ispirate all’educazione diffusa. Far conoscere e diffondere quanto più possibile queste esperienze, sparse per l’Italia e a volte nascoste, anche per farle dialogare tra loro è di vitale importanza al fine di sensibilizzare le persone e i gruppi verso un’idea sicuramente più libera ed efficace di educazione, anche allo scopo di organizzare, dopo i tanti incontri in giro per l’Italia, nuovi eventi ricchi di testimonianze e racconti, approfittando anche dell’imminente uscita del volume di Paolo Mottana “Il Sistema dell’educazione diffusa” Tutte le iniziative in campo rappresentano in qualche modo le eccezionali avanguardie di un progetto che varrebbe la pena mettere in rete ed estendere per quanto possibile in forma sperimentale nella cosiddetta scuola pubblica, utilizzando anche le strade offerte dalle norme poco e malamente utilizzate sull’autonomia didattica ed organizzativa delle scuole nella loro attuale configurazione sistemica.
A partire dal testo del Manifesto del 2017 e dai successivi aggiornamenti in libri, articoli e saggi, si possono infatti aggregare persone, insegnanti, amministratori, associazioni, interessati o in qualche modo già operanti in linea con l’idea di educazione diffusa. Il portale oltre a censire in qualche modo le esperienze, offrire strumenti documentali e bibliografici, attivare iniziative di formazione, può costituire un eccezionale strumento di condivisione e comunicazione collegato anche alle pagine o ai gruppi social già attivi da tempo. La proposta di una rete ed un portale oltre che l’ipotesi di una qualche forma associativa tesa anche ad agevolare burocraticamente le iniziative di formazione, era stata ventilata nell’incontro intitolato “Facciamo il Punto” del maggio 2022 e ripreso durante il seminario a Rimini del settembre scorso. Ora credo sia venuto il momento di individuare un piccolo gruppo di studio per discutere della necessità di pensare ad un portale e alla costituzione della rete. Si accettano interventi, proposte e contributi come commento a questo appello oppure intervenendo sui social già attivi (o scrivendo a researt49@gmail.com) per arrivare al più presto ad un incontro ristretto che attivi una discussione sul tema.
In tempo reale aggiungo solo una chiosa dedicata a chi avesse ancora perplessità o riserve sull’idea dell’educazione e sulla sua efficacia anche per contribuire a cambiare radicalmente la realtà a partire dal rendere protagoniste nella vita le attuali e prossime giovani generazioni. Nel concetto di educazione diffusa non ci sarebbe già un’idea rivoluzionaria del mondo? Non emerge in modo chiaro quali mondi nuovi, Il manifesto dell’educazione diffusa già prefigurava a suo tempo? Quante volte questa idea è stata da noi spiegata e ripresa fino ad oggi?
Cito solo due esempi a caso tra le decine di pubblicazioni tra libri, saggi, articoli sull’argomento.
Da Comune-info. Almanacco di una scuola immobile. Giuseppe Campagnoli 7 febbraio 2020
“Tutti d’accordo che la scuola vada cambiata, pochi convinti che debba essere rifondata dalle basi del concetto di educazione magari anche dal di dentro e con coraggio. Il gotha presunto della scuola continua da tempo a pontificare senza offrire una via reale di cambiamento alla radice dei mali. Io soliti nomi e cognomi che si rincorrono nei media e nella letteratura del settore che blatera di scuola elogiando spesso ricette autoreferenti e pannicelli caldi sparsi qua e là nell’empireo delle sperimentazioni miracolose e miracoliste che hanno sempre gattopardescamente lasciato in sostanza le cose come sono sempre state. Si parla ancora di materie, di saperi distinti, di tecnologie, di insegnanti mal pagati e mal preparati, di reclusori scolastici da rifare più belli e moderni, di scuola e lavoro, di scuola e politica, di scuola e azienda, di bullismo, burnout, burocrazia, valutazione, classificazione, democrazia, discente, docente, dirigente…Pochissime le eco che rimandano a qualcosa di più e di oltre. Pochissimo il coraggio di osare anche con il rischio di essere chiamati visionari o sovversivi, come lo erano, d’altra parte Freinet, Illich, Fourier, Ward, Freire… che non sono proprio diventati riferimenti di pedagogie alla moda declinate in troppi modi e in troppe versioni spesso contrastanti tra loro. Non sarebbe il caso di pensare finalmente a un bel repertorio di buone idee e di buone pratiche? A un virtuoso ibrido di belle esperienze che ricostruiscano ex novo una scuola completamente diversa, completamente autonoma dal mondo economico attuale e magari diffusa in ogni ambito della vita e della natura? Ogni sapiente, come spesso accade, deve dire la sua da un parziale, spesso scontato, punto di vista senza apportare nulla di nuovo e significativo nell’antologia delle prediche sulla scuola a cui ormai siamo terribilmente abituati da tanti decenni, forse fin dalla nascita della scuola pubblica. Una delusione cocente e crescente, soprattutto se penso a ciò che faticosamente si sta muovendo al di fuori di questo dorato recinto della solita speculazione educativo-didattica-didascalico-formativa e parapsicosociopedagogica e che spesso è sconosciuto, misconosciuto, boicottato, minimizzato, quando non ostacolato e ghettizzato. Tutto questo ci dice che occorre più che mai osare ed oltrepassare la scuola lasciando da parte i soloni e i mediatici che parlano di tutto e di niente senza offrire nessuna idea veramente rivoluzionaria e globalmente praticabile anche da subito, sicuramente con meno risorse inutili e sprechi diffusi e con più gratificazione per tutti, insegnanti compresi, che per primi rinascerebbero a un nuovo ruolo sicuramente più remunerato e più riconosciuto oltre che appassionante. C’è chi ci sta credendo molto e si sta dando da fare, anche da dentro il sistema. Se siete masochisti e volete versare lacrime amare sul futuro dei nostri giovani e sulla capacità delle genti di leggere e capire la realtà leggete questa mirabile antologia di detti e contraddetti, di pontefici del sapere e del non volere, di mirabili saggi onnipresenti sulla scena abusata degli affabulatori di scuola. Magari vi verrà un sussulto di orgoglio e di disgusto insieme che spinga verso un reale superamento di tutto ciò che rende la scuola a volte vecchia, a volte inutile, a volte pericolosa, a volte perfino grottescamente paradossale.”
Da Comune-info. L’educazione è alla base di tutte le idee Giuseppe Campagnoli 26 Maggio 2022
“Attraverso l’educazione è possibile costruire o ricostruire l’idea della pace (e della guerra) come della salute, dell’economia, della città, della natura, della politica, della proprietà, della vita in generale. Ma la condizione fondamentale è che l’educazione avvenga principalmente attraverso l’esperienza e la vita stessa con una serie infinita di quello che in tanti chiamano lo choc educativo che avviene durante le tante esperienze e le osservazioni, le ricerche, le incidentalità, gli studi e le restituzioni e condivisioni in corpore vivi e che si esplicano attraverso un’intelligenza unica, multiforme e multisenso. Il tutto nelle varie scene dell’apprendimento che vanno dal corpo alla natura, all’immaginazione all’arte, alle storie tratte dalla realtà e dalla fantasia, dalla scienza che cerca e ricerca senza fine e senza dogmi, dalla lingua che è pensiero e delle relazioni umane che non sono separate fra di loro ma rappresentano una interconnessione continua di contatti molteplici e multiformi. Istruzione, addestramento, formazione sono invece le sovrastrutture parziali e strumentali dell’educazione che non può essere per sua natura codificata e cristallizzata in procedure, programmi, valutazioni competenze e conoscenze determinate dai vari poteri dominanti più o meno sulla base di consensi discutibili quando non indotti o obbligati palesemente o subliminalmente. Conoscere, sapere e saper usare liberamente la realtà e le storie, la creatività e l’immaginario in una accezione collettiva e cooperativa possono mitigare e orientare in senso positivo gli stimoli naturali ai conflitti e all’aggressività se il cosiddetto “mutuo appoggio” fondamentale in natura (cfr. Kropotkin) lo diventasse anche per l’animale della specie umana. L’educazione può, nel tempo salvare il mondo, purché sia libera, diffusa e integrata nei diversi momenti e luoghi della vita, quasi istintiva, sicuramente incidentale.“
“Chissà che non si riuscisse a distinguere un briciolo di realtà dalle mille verità costruite, contrapposte come strumenti di potere e di controllo economico, politico e sociale. Chissà che lentamente le persone non si rendano conto che le loro convinzioni, a volte anche quelle apparentemente trasgressive o controcorrente, non siano invece indotte dall’ignoranza costruita su mille verità manipolate, sulle bulimie mediatiche e transmediatiche di social, giornali, tv, a senso unico (il mercato che li gestisce) dai pontificatori, frullatori di pensieri e di idee, sublimi confezionatori di brodi di notizie-fiction, filosofi, scrittori, reporter pro domo sua e mezzi busti d’assalto? Verità e dogmi di tutte le risme sono passati e si sono sedimentati per generazioni e vi passano ancora, attraverso la cosiddetta “istruzione”, pubblica o privata che sia, con i loro strumenti di controllo, classificazione, selezione e infine reclutamento tra le fila di chi ha o avrà potere sulla comunità e di chi obbedirà senza problemi alle leggi, alle notizie, ai racconti, alle favole terribili o seducenti costruite proprio ad usum delphini. Probabilmente con una educazione profondamente e radicalmente diversa il pensiero critico e creativo sarebbe prevalente e porterebbe se non altro a osservare la realtà senza schermi e schemi prefigurati e a farsi più domande ed esprimere dubbi più che certezze indotte e “guidate”. Ci vorrà qualche decennio ma ne varrà senz’altro la pena se si arriverà in tempo.”
“A distanza di 10 anni da quando, in occasione dei miei 70 anni ho riflettuto sulla vecchiaia, sulla condizione degli anziani, devo constatare che non è cambiato niente da allora. Siamo ancora circa il 25% del totale della popolazione nazionale, ossia la bellezza di 15.000.000 di giovani virgulti ma nessuna delle altre categorie sociali si da da fare per valorizzare ed utilizzare tale massa di persone, comprese paradossalmente anche quella dei politici, sempre a caccia di voti, ma in tal caso ciechi nel non comprendere il potenziale costituito dagli anziani. In parte sono pure gli stessi vecchi spesso sembrano fregarsene del fatto innegabile che hanno accumulato un’ esperienza significativa ed anche una saggezza invidiabile: una peculiarità non comune a tutti, sia chiaro, ma sicuramente a moltissimi di loro. Spesso ci si ricorda di loro solo per accudire i nipoti, fare la spesa, pagare le bollette, aiutare economicamente, disperdendo però un capitale umano impressionante. E’ ovvio che esistono (o persistono?) anche persone anziane che hanno ancora un gran peso nella società attuale (professionisti, imprenditori, politici, docenti, artisti) ma percentualmente pochissimi, una specie di oligarchia, spesso meritocratica, che mi pare non ponga particolare attenzione agli “altri vecchi”, se non in termini di mero utilizzo contingente. Resta il fatto che l’assenza di gran parte dei soggetti over 65 , paragonabile ad un esercito muto, non creerebbe un grande scompiglio nei confronti della società di cui “stranamente” fanno ancora parte.
Ma c’è una contraddizione evidente ed un paradosso in un settore in cui la presenza di tali attempati soggetti si rivela assolutamente essenziale in quanto alimenta in modo determinante il mondo delle cure mediche, del mantenimento della salute, ossia di quell’enorme apparato che si impegna costantemente ad allungare all’infinito la vita degli anziani con un mercato colossale, supportato dalla convinzione, culturalmente imperante, che sia giusto allontanare la morte all’infinito e che occorra preservare l’esercito di consumatori per sé e per coloro che mantengono e supportano in virtù delle disuguaglianze sempre più gravi e diffuse. Da un lato quindi c’è da rilevare come un numero enorme di cittadini è come se non esistesse, per cui non contano niente, dall’altro invece si fa di tutto per perpetuare la loro esistenza, per cui contano eccome!Tale plateale contraddizione acquista invece una logica indiscutibile se si pensa cinicamente alla categoria dei vecchi unicamente come sostenitori materiali dei propri figli-nipoti, delle aziende farmaceutiche e dello Stato mediante le tasse ricavate dalle pensioni che insieme ai dipendenti costituiscono la massima fonte di introiti per lo Stato.
C’è ancora un altro aspetto sostanziale che caratterizza i vecchi, sino ad ora non menzionato strumentalmente, ossia che tali soggetti sono contemporaneamente fruitori di azioni affettive ed erogatori di affetti, il che potrebbe immediatamente riqualificarne l’identità, il ruolo, ma c’è da domandarsi in tutta onestà se tali caratteristiche siano veramente sostanziali per modificare l’opinione imperante su tali esseri umani. A questo punto mi viene spontaneo domandarmi come tutto ciò abbia potuto avvenire. Penso che uno dei motivi possa farsi risalire al fatto che molti anziani fruiscono di una pensione, che li rende, (non sempre e non abbastanza a dire il vero) economicamente autosufficienti, per cui: perché preoccuparsi per loro? Classico atteggiamento derivante dal fatto che tutto si riduce a considerazioni di tipo economico. Un altro motivo può essere determinato dal fatto che le continue modificazioni comportamentali che caratterizzano i rapporti fra le persone, a causa dei continui sviluppi tecnologici, hanno avuto come conseguenza che molti anziani non riescono a tenere il passo con tali continue novità, comprese quelle del linguaggio, diventando inadeguati ai tempi in essere, per cui vengono inevitabilmente considerati “out”, esclusi dalla stessa società in cui però “singolarmente” continuano a far parte.
Ho potuto constatare personalmente che molti di tali individui hanno accettato serenamente di non contare più di tanto, poiché si sentonofinalmente deresponsabilizzati dal fatto di darsi da fare socialmente e di dovere trasmettere le proprie competenze culturali. Insomma, dal momento che hanno raggiunto la pace dei sensi, la pace dovuta all’essere fuori dalla mischia, dalla competizione quotidiana, dalla confusione del mondo, non possono che considerarsi dei privilegiati. Per cui perché ci si dovrebbe preoccupare della loro condizione? Tutto ciò penso che derivi da una concezione imperante nell’attuale società, ossia che la valutazione del prossimo si basi unicamente, compresi evidentemente i vecchi, sulle loro caratteristiche materiali, per cui se costoro su tale piano non manifestano problemi, perché cercare con loro dei rapporti stimolanti, vivacizzanti, perché pensare che ascoltandoli, implicandoli, attivare un confronto con loro possa derivarne un beneficio per entrambe le categorie sociali implicate?
O ancora, poiché i “non vecchi “ devono già affrontare quotidianamente un sacco di problemi, che motivo hanno di occuparsi dei “non problemi” dei vecchi? Oltretutto se anche costoro non esternano rivendicazioni di sorta, perché non perpetuare il più possibile questa particolare pace sociale che si manifesta regolarmente? In definitiva, dal momento che costoro non protestano, non esprimono il proprio punto di vista, spesso neanche votano, praticamente è come se non esistessero, perché intrattenere rapporti con loro, occuparci della loro condizione? Semplice, perché ripeto, ma spero che mi scusiate, tale realtà, tale pace si traduce paradossalmente in uno spreco di risorse umane drammatico che mi intristisce molto.
Tale dispiacere, a ben vedere, mi pare che si possa tranquillamente provare anche per il resto della popolazione , che non mi pare particolarmente impegnata nel porre attenzione alle prerogative significative, positive del prossimo, ossia dell’imponente potenziale di cui dispone e di cui ci si potrebbe avvalere per trarre un giovamento generalizzato. Pura utopia? Certo, ma perché non ricordarci ogni tanto del suo innegabile fascino!
Tornando al dispiacere personale nei confronti del popolo degli anziani, mi sa che nasconde malamente anche quello soggettivo, costituito dal fatto che soffro della constatazione che la mia tenera età mi impedisce di dare spazio ad una energia ed ad una espressività che è ancora corposa in campo intellettivo, ma pesantemente limitata in quello corporeo.Ne deriva una frustrazione notevole, che sono convintissimo appartenga anche a moltissimi miei “colleghi” e che si traduce in un sentimento comune. Ritengo unicamente superabile, da parte nostra, se ci dessimo da fare per farla conoscere agli “altri”, non per impietosirli, ma per renderli coscienti che le nostre e le loro frustrazioni ci rendono simili, scoprire quanto siamo uguali e pertanto (mal comune mezzo guaio) in grado di aiutarci o, come minimo, di capirci meglio.
Sento ora il bisogno di soffermarmi sugli aspetti comuni che caratterizzano gli anziani:
1° Aspetto:
La salute. Non scopro certo niente affermando che il nostro “tutto” dipende da come si sta in salute, quanto si sia assoggettati ai malanni con cui dobbiamo spesso convivere e le implicazioni sul piano psicologico. Nei casi più gravi si può arrivare a domandarsi che senso abbia continuare a vivere, se ne vale la pena. Sono convinto ne valga la pena specialmente se ci si rivolge alla natura più che alla farmacopea sintetica per avere più rispetto dei nostri corpi cercando di combattere le cause per cui si sta male e non gli effetti derivanti.
2° Aspetto:
La riflessione. Spesso, quando si va in pensione, viene automatico domandarsi come è stata la nostra vita sino a quel momento e si impostano programmi ottimistici per il futuro: Desiderio di stare finalmente tranquilli, di dedicarsi a nuovi interessi, di approfondire quelli già sperimentati, fare viaggi, seguire le novità, coltivare gli affetti, approfondire la propria cultura, la politica, la spiritualità, un vero paradiso. Ma poi, con lo scorrere degli anni e con la mutazione inevitabile della propria condizione e di quella del mondo, ci si rende conto di tutti quei limiti a cui siamo assoggettati. Allora, per evitare la depressione si può scoprire o riscoprire che disponiamo di una amica formidabile, ossia la riflessione, che può aiutarci molto bene a fare il punto della situazione, a fare chiarezza, a diventare un caro e disponibile supporto ogni volta che avremo bisogno di lei, per aiutarci a recuperare una forma decente di equilibrio, indispensabile per dare ancora un senso alla nostra esistenza.
3° Aspetto:
La morte. E’ il classico aspetto della vecchiaia con cui dobbiamo inevitabilmente fare i conti. Ho potuto constatare che per ragioni probabilmente culturali o per il semplice fatto che non si vuole perdere la vita, molti miei simili sono molto preoccupati di non poterla evitare, addirittura evitano puntualmente di affrontare l’argomento e i tacitano chi casualmente osa accennarvi. Tutto ciò perché fondamentalmente pensano che possa trattarsi di una brutta esperienza. Ci sono invece quelli come me che per fortuna o per fatalismo o addirittura poiché pensano che il fatidico momento possa rappresentare l’inizio di una appassionante avventura, non hanno nessuna paura di morire (bisogna poi vedere al momento buono!!) e che provano ad ipotizzare soggettivamente come sarà il dopo vita, non tenendo in alcuna considerazione ciò che è stato detto per secoli e con grande sicurezza, dagli imbonitori delle religioni.
Foto di Jonas Peterson
Ritengo anche che valga la pena di riconoscere che la morte rappresenti una lapalissiana manifestazione di democrazia, poiché tocca a tutti inevitabilmente, sia belli che brutti, ricchi o poveri, intelligenti e stupidi ecc. ecc. Essa è in grado di realizzare platealmente una situazione che in tutta la mia, la nostra vita, non abbiamo mai potuto vedere realizzata appieno. Siamo di fronte ad un appianamento positivo della condizione umana, che definirei un fantastico miracolo, cui guardare, in quanto tale, almeno senza paura. Tutto ciò anche alla luce del fatto che, dopo avere raggiunto una età avanzata, è ben difficile che, quando se ne sentisse ancora il bisogno, sia possibile riscattare il valore della nostra vita precedente, puntando su un exploit finale scoppiettante e totalmente appagante. Troppo spesso tale obiettivo si rivelerà del tutto velleitario. Per cui penso che per costoro possa essere più producente soffermarsi sui momenti piacevoli che la vita gli ha regalato, su quelli ancora disponibili e guardare alla prossimo cimento inevitabile con un poco di ottimismo.Siamo agli sgoccioli e in definitiva ritengo, pienamente cosciente di quali sono i vari aspetti della vecchiaia, che valga pienamente la pena di darsi ancora da fare per rendere edificante tale stagione della nostra vita.
Giuseppe Campagnoli. Architetto e preside in pensione.
Partecipo alla riflessione volentieri cercando di essere, come si diceva una volta, breve, succinto e compendioso. Considero da sempre le fasi della vita come improntate al detto fisico:” nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Il problema dunque sono le trasformazioni e il loro valore. Soprattutto nel nostro paese esiste il giovanilismo accanto al perseverare diabolico di chi non vuole mollare il suo potere, grande o piccolo che sia. Una separazione che provoca solo danni. L’esercito muto di cui tu parli è generato dalla separazione imposta tra generazioni, una separazione pericolosa e dannosa.Ricordo quando, ormai 10 anni fa, partecipai ad un progetto europeo a Liegi dove con grande sorpresa mi ritrovai a studiare e fare cose artistiche insieme a coetanei di 65 anni o giù di li, giovani trentenni e quarantenni, ragazzi delle scuole e cittadini di ogni età. Ne scaturirono prodotti eccezionali frutto di differenti sensibilità ed esperienze messi in una mostra internazionale del titolo “Il n’y a pas d’heure pour créer”
Dal film La nuit. 2012
Ogni momento e, quindi, ogni età è buona per creare. Tutta la vita dovrebbe essere così. D’accordo sul mutuo appoggio tra genitori, nonni, figli, nipoti. Ma forse è più necessaria la relazione continua disinteressata e costruttiva. L’esperienza e la saggezza (a parte le canizie vituperose manzoniane che mi pare oggi siano in gran parte collocate con il potere) con la voglia di ricerca di chi apprende per crescere non avrebbero mai dovuto essere disgiunte dalla società. Occorrerebbe sottrarsi con un moto di ribellione alle speculazioni sulla salute degli anziani e sui loro ruoli di badanti economici e non solo oppure all’essere relegati ai circoli sociali, alle bocciofile o alle università delle terze e quarte età. Occorre ributtarsi nel mondo senza remore e senza interessi di profitto anche con il rischio di apparire invadenti. Occorre tornare alle città e a tutti i suoi luoghi vivi mescolandosi con tutti gli altri. Questo significherebbe tornare a vivere concretamente e finire di piangersi addosso. Una virtuosa invasione. I farmaci e i rimedi naturali lo stretto necessario, come per tutti del resto. I vecchi sono in uno di quei passaggi del “tutto si trasforma”. Molte cose del corpo cambiano forma. Occorre capire e assecondare, magari integrando le defaillances con altre fasi di trasformazione più giovani che di fatto servono anche a questo: a compensare le energie dei più agés. L’aspetto economico invece (le pensioni che sopperiscono a disoccupazioni o sottooccupazioni) sono un malaffare di questo sistema mercantile, ancora classista ed iniquo che spinge a prendere sempre ed ancora da chi avrebbe già dato abbondantemente e comunque dai più poveri che si tende a far restare tali. La tecnologia in tutto questo è uno strumento che non andrebbe esaltato ma reso semplice per tutti e sfruttato in modo democratico. Dovrebbe essere solo uno strumento che tale dovrebbe essere considerato e restare tale in modo da non provocare pericolose dipendenze tra i giovani e inadeguatezze incomprensibili tra le generazioni più grandi.
Foto di Jonas Peterson
Sulle costanti che caratterizzano gli (noi) anziani solo brevi chiose: La salute ahimè spesso è uno scotto da pagare per il vissuto precedente. Ne vanno minimizzati gli effetti o in modo naturale o artificiale finché funziona e c’è ancora voglia di mischiarsi nella vita. D’altra parte anche la solitudine può avere i suoi pregi. Il dolore no. E allora si può decidere di trasformarsi ancora.
Riflettere su tutto e su tutti, ma soprattutto su sé stessi è un buon esercizio vitale. La morte la considero ancora una delle trasformazioni, forse nemmeno l’ultima. Ha il pregio, come diceva Totò, di rendere tutti uguali?
A mio avviso l’essere uguali dipende dalla sommatoria del prima e del dopo. La memoria presso gli altri, dopo la trasformazione, che a mio avviso erroneamente (anche per via di certe scarsissime conoscenze scientifiche della nostra essenza più profonda) forse consideriamo l’ultima, fa la differenza e di fatto non livella. L’oblio invece livella malamente. Tutto l’armamentario che ci siamo inventati intorno a questa trasformazione, dalle religioni, ai riti, agli usi e costumi, agli arredi fissi e mobili (!) contribuiscono a farne un passaggio da temere. Le sovrastrutture spesso diventano perniciosamente strutture. Credo sia anche così. Amèn
Un piccolo ma non secondario post scriptum per dire di pensare al futuro capendo finalmente che, per quando la maggior parte di noi trapasserà, bisognerà aver già pensato che non saranno le filiazioni dei giovani di oggi e di domani a sostituirci per il lavoro, la cultura e tutto il resto. Infatti la cosa comporterebbe un lasso di tempo di decenni, e saranno i tanto bistrattati migranti a colmare il gap demografico come del resto è sempre avvenuto nei paesi nascenti o morenti.
Nell’articolo, l’ultimo in ordine di tempo con una trattazione completa, che raccontava ai cugini francesi, sulla rivista Le Télémaque, l’esperienza italiana dell’educazione diffusa e della città educante, incolpevolmente, per tempistica e tempestività di informazioni, mancava la citazione-insieme a quelle di Bimbisvegli di Asti, dell’Officina del Fare e del Sapere di Gubbio,della Scuola nel Bosco a Torino, di Fuoriclasse in Movimento di Save the Children e del NABA di Milano-della geniale esperienza della Scuola Elfica Interetnica presso l’I.C. Satta-Spano-De Amicis di Cagliari,che è giunta da poco, tra l’altro, a condividere un vero e proprio Patto di Corresponsabilità tra scuola, famiglia e quindi territorio, anche nella scuola primaria, con riferimenti espliciti all’idea di educazione diffusa.
Ecco, qui di seguito, il racconto quasi in diretta delle maestre e mentori che ho potuto anche incontrare di recente, per una fortunata coincidenza, proprio vicino alla loro “base”- protagoniste di questo eccezionale progetto.
Le maestre mentori della Scuola Elfica Interetnica con uno dei promotori (nel 2017 insieme a Paolo Mottana) dell’Educazione Diffusa.
La scuola elfica, una scuola oltre le mura.
Maestra Cicci Della Calce.
Nel cuore della città di Cagliari, dove i quartieri Marina e Stampace si incontrano, sorge la Scuola Satta. L’edificio, risalente al 1904, è imponente, austero, non si può guardarlo per intero senza volgere lo sguardo al cielo. Dietro le finestre, il suo cuore che batte, le tante generazioni di studenti che da più di un secolo popolano le sue aule. Un pezzo di quel cuore è la scuola dell’infanzia, istituita ventitre anni fa, che ospita più di centocinquanta bambini, dai tre ai sei anni, di diverse etnie, un preziosissimo mosaico frutto della politica di inclusione che la scuola porta avanti felicemente da decenni. È in questo variopinto contesto che è nata e vive la Scuola elfica per opera di un manipolo di maestre eroiche, di cui faccio orgogliosamente parte, artefici di una proposta rivoluzionaria: portare la scuola fuori dalle aule, a contatto con la vita di ogni giorno nella convinzione che la società più che gli edifici scolastici sia l’ambiente adatto per l’apprendimento, che le esperienze debbano essere ricche, intense e appassionanti e il più possibile trovare compimento nella realtà.
Il quartiere educante
L’inizio di questa meravigliosa avventura risale a cinque anni fa, quando, ispirandoci ai nuovi modelli educativi che si stanno diffondendo in tutta Europa e a seguito di un accordo con l’associazione Punti di vista, partecipammo al progetto Scuola degli elfi (da qui il nome Scuola elfica) affiancandoci in otto uscite didattiche sul territorio. Per la prima volta, visitando parchi, boschi e spiagge, abbiamo sperimentato la didattica in natura e i benefici di fare scuola all’aperto, per la prima volta abbiamo assaporato il piacere di fare scuola oltre le mura vivendo il mondo e non guardandolo da dietro i vetri delle finestre delle nostre aule, per la prima volta ci è sembrato di aver realmente investito sulla felicità dei nostri piccoli. Dall’anno scolastico successivo, questa esperienza è diventata sistematica.
La vendemmia
Abbiamo creato un raccordo col territorio, convenzioni con orti e parchi; accordi con enti pubblici, privati e aziende; abbiamo stipulato un patto con le famiglie che ci hanno garantito il loro pieno sostegno e stanno contribuendo in maniera fondamentale alla realizzazione di questo progetto: portare la scuola fuori dalle aule e dentro la società, rendendo i nostri piccoli alunni protagonisti attivi del proprio apprendimento, soggetti che osservano, che contribuiscono, che partecipano, che offrono la loro creatività, la loro intelligenza e la loro fantasia per migliorare la vita sociale, che la colorano, la impregnano della loro vivacità e del loro colore, della loro sensibilità e della loro freschezza e spontaneità.
Il Portale
La scuola elfica è dunque un progetto di “scuola statale diffusa” che si pone quale alternativa all’istituzione scolastica tradizionale. All’apprendimento della scuola d’aula, mira ad affiancareun apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere rimettendo bambini e bambine in circolazione nella società che, a sua volta, assume in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo. La scuola elfica aiuta i bambini a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipareattivamente per offrire il proprio contributo alla società trasformando il territorio in una grande risorsa.
La strada
Il progetto nasce altresì dal desiderio di poter far vivere i benefici del vivere in natura, valorizzando tali esperienze in qualità di momenti di crescita personale e di gruppo, ricchi di concetti e metafore riconducibili alle tematiche e agli argomenti svolti in sezione attraverso la didattica esperienziale all’aria aperta, una metodica capace di coadiuvare e valorizzare i programmi tradizionali della scuola. Grazie alla grande ricchezza di stimoli e sensazioni, essere educati nella natura è fonte di innumerevoli benefici per i bambini, sia dal punto di vista fisico sia dello sviluppo cognitivo e psicologico. Ma la scuola elfica si gioca anche dentro le aule, ambienti accoglienti, caldi, colorati che abbiamo adattato ai corpi dinamici dei bambini, una base dove riunirsi per partire, per poi rivedersi per condividere, rielaborare e approfondire, sono le nostre tane, quelle in cui ci rifugiamo, riflettiamo, ci sentiamo protetti, perché “l’elfitudine” non è solo un modo alternativo di fare scuola, è una filosofia, un modo di intendere l’educazione e la formazione dei bambini che mira a creare piccoli cittadini autonomi, che offre ai bambini la possibilità di confrontarsi con il mondo circostante, permette loro di acquisire maggior responsabilità e la possibilità di conoscere meglio sé stessi.
La base
Attraverso l’ampliamento del raggio delle proprie attività, i bambini possono sperimentare contesti relazionali nuovi e sono sempre chiamati a dare prova di sé e delle proprie abilità e competenze e del proprio livello di autonomia. E’ a partire dalla rinnovata presenza dei bambini nei nostri spazi comuni, e non più solo confinati in luoghi fittizi e separati, che il mondo può diventare di nuovo organico, affettivo, a misura di tutti. Attraverso il progetto elfico, la scuola finalmente esce dall’aula, entra in società per far parte di una vera comunità educante.Il ruolo di noi maestre è quello di osservatrici che, quando serve, intervengono come mediatrici e accompagnatrici che mettono a disposizione dei bambini le informazioni e le esperienze che possiedono. Siamo “basi sicure”, un riferimento a cui tornare e a cui rivolgersi quando i bambini ne hanno bisogno. Il modo di interagire con i bambini non può quindi essere direttivo, ma deve instaurare un dialogo continuo in cui una parte impara dall’altra.
Il Castello
E i risultati? Li vedi dagli occhi dei bambini, dall’entusiasmo per un’esperienza nuova, dalla gioia per una nuova conquista; li vedi dagli sguardi dei genitori che ti affidano con fiducia il loro bene più prezioso in virtù di quel patto sotteso che la scuola elfica esige, di quella condivisione di intenti, in quel rispetto dei ruoli equamente importanti per la crescita armonica dei nostri bimbi. Questa è la nostra scommessa, ciò per cui lottiamo ogni giorno nella perfetta convinzione che la scuola elfica stia fornendo un validissimo contributo alla FIL (felicità intera lorda).
L’ Orto Botanico
Maestra Stefania (Stefania Piras): Ho modificato molte volte il mio modo di insegnare, ma la svolta maggiore è avvenuta cinque anni fa, quando nella scuola Satta abbiamo iniziato, in maniera sperimentale, l’avventura elfica e ci siamo cimentati in una modalità differente di fare scuola.All’inizio non è stato facile. L’abitudine ad avere tutto esattamente sotto controllo è dura a morire. Poi in realtà ho scoperto che, con i dovuti modi, condurre i bambini nelle loro esperienze, lasciandogli il giusto spazio, è la carta vincente. Sanno sorprenderci, se diamo loro fiducia, se li rendiamo indipendenti, e in grado di gestire i propri bisogni e le proprie esigenze. Ho imparato a lasciare ai bimbi la libertà di provare, di osare, stando distante, ma non troppo, vicina, ma non troppo, presente, ma non troppo. Ed è stato un successo. Anche nella didattica ho cambiato atteggiamenti: via le schede e i lavori preconfezionati, spazio aperto alla creatività, indirizzando dove occorre, e dando spunti, appassionando e interessando, scoprendo che ai bambini si può veramente insegnare di tutto, se si insegna divertendo.
Simo, Maestra felice (Simona Buzzi):La scuola elfica è un mondo. Un mondo di colori, di curiosità, di creatività, di scoperta, ma soprattutto di stupore. La scuola elfica è libertà di pensiero e di azione, di consapevolezza del proprio corpo, dei nostri limiti e delle nostre capacità. Ogni esperienza elfica rivoluziona il nostro modo di fare scuola, sia fuori che dentro le mura di un ambiente scolastico, perché non segna una strada da seguire, ma accompagna i bambini e le maestre nel meraviglioso viaggio della vita. Non sei elfico solo a scuola, ma in ogni scelta del quotidiano, contagi chi ti sta vicino e non puoi più tornare indietro, perché senti di aver fatto la scelta giusta per te e per i tuoi alunni. La scuola elfica è fortemente consigliata, ma, attenzione, dà dipendenza!
Gli Elfi nei pressi della loro “base” vicino alla Piazza del Carmine
Dalla scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo Satta-Spano-De Amicis l’educazione esperienziale, come già detto all’inizio dell’articolo, si sta affacciando anche al segmento della primaria e si gioverà di un apposito patto già sottoscritto tra scuola e famiglie di cui vi riporto dei brani significativi:
Promuovere e attuare scelte metodologiche alternative a quelle classiche attraverso pratiche di educazione diffusa con esperienze concrete di vita reale
Scoprire e valorizzare talenti e abilità di ciascuno studente
Sostenere le scelte metodologiche di educazione diffusa con un’informativa sistematica e puntuale, attraverso una comunicazione diretta e con l’utilizzo di tutti i canali istituzionali
Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali per ripensare, riprogettare e valorizzare il territorio, attraverso la conoscenza dello stesso, per tornare a prendersene cura e proporre eventuali suggerimenti per renderlo migliore, a partire dalle osservazioni e dalle analisi di bambini e bambine
Creare connessioni e coinvolgere dinamicamente la comunità nel processo educativo, rendendola parte viva, attiva e collaborativa
Far riscoprire la bellezza dello stare insieme collaborando per un fine comune.
Favorire percorsi che permettano ai corpi dei bambini di muoversi autonomamente in spazi ampi e diversi dalle aule o dai giardini/cortili scolastici, favorendo il movimento per migliorare la stima di sé, controllare le emozioni e scaricare le tensioni
Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione che promuova l’emersione dei sentimenti profondi dei bambini
Favorire esperienze di cittadinanza attiva e solidale
Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città
I luoghi della città e del territorio teatri delle ricorrenti uscite dalla “base” sono quelli delle esperienze educative, anche incidentali, oltre che organizzate senza rigidezze. L’orto botanico, l’azienda agricola, la bottega, la piazza, la strada, la spiaggia. La natura, gli spazi urbani, gli edifici emergenti sono le scene dove si svolgono le ricerche, le scoperte attraverso le attività non in modo occasionale ma continuo e integrato in tutto il percorso educativo. La vita caratterizza la pedagogia stessa e in qualche modo la supera, come direbbe Colin Ward, con l’esperienza prima che con l’astrazione, provocando gli chocs educativi che inducono curiosità, osservazione, ritenzione e solido apprendimento. Questi bambini sicuramente avranno “anticorpi” potenti ed efficaci per resistere da ragazzi e adolescenti anche a certe perniciose influenze presenti durante il loro percorso scolastico futuro.
Il Mare
Durante i nostri incontri di formazione siamo venuti a conoscenza di tante esperienze fuori dal coro, magari più timide ma da ritenere comunque decisamente affini quando non esplicitamente ispirate all’educazione diffusa. Far conoscere e diffondere quanto più possibile queste esperienze sparse per l’Italia e a volte nascoste al grande pubblico e farle dialogare tra loro è di vitale importanza per sensibilizzare le persone e i gruppi verso un’idea sicuramente più libera ed efficace di educazione, anche allo scopo di organizzare, dopo i tanti incontri in giro per l’Italia, nuovi eventi ricchi di testimonianze e racconti approfittando anche dell’imminente uscita di un testo sul Sistema dell’Educazione Diffusa.
Tutte le iniziative citate rappresentano infatti le eccezionali avanguardie di un progetto che varrebbe la pena mettere in rete ed estendere per quanto possibile in forma sperimentale nella cosiddetta scuola pubblica, utilizzando anche le strade offerte dalle norme poco e malamente utilizzate sull’autonomia didattica ed organizzativa delle scuole nella loro attuale configurazione sistemica. Un enorme grazie dunque ai territori educativi che si sono già coraggiosamente messi in gioco!
L’imago storica dell’educazione diffusa (2016)
20 Febbraio 2023
A cura di Giuseppe Campagnoli
con il preziosissimo contributo delle maestre “elfiche”: Cicci Della Calce, Simona Buzzi e StefaniaPiras
Oggi la confusione artefatta, in mala fede o in buona ignoranza delle cose più elementari regna e si diffonde. Prendono slancio idee pericolose perché aristocratiche e settarie ed è utile ribadirne l’essenza. Non vedo nulla di libertario e collettivo in certe posizioni sulla scienza, sulla natura, sull’educazione e su una generica resistenza. Mi ripeto non a caso perché le citazioni e i post che riportano detti e contraddetti di taluni personaggi che hanno fatto dell’ambiguità e del dogmatismo insieme il loro leit motiv si stanno moltiplicando in queste settimane. Tante consorterie, erano e sono decisamente contro la libertà perché usano la violenza e intendono sostituire un potere con un’altro e vengono regolarmente strumentalizzate dal potere di turno esattamente come avvenne nei cosiddetti “anni di piombo” durante i quali molti ne fecero le terribili spese, per ragioni diverse ma sempre stigmatizzatili, come Giuseppe Pinelli o il commissario Calabresi
Ascoltando e leggendo i media affannati o scatenati di questi giorni sull’affaire Cospito mi preme far riflettere seriamente sull’essenza del vero anarchismo che non può essere assolutamente violento per sua natura intrinseca.
Non viene in mente a nessuno il tempo buio dei finti anarchici provocatori fascisti infiltrati come Mario Merlino?
Condivido pienamente e riporto per intero lo scritto di CARLO CROSATO nel 2020 sul Manifesto:
«Gli anarchici li han sempre bastonati», cantava Guccini nel 1976, riassumendo la storia travagliata di un movimento i cui membri sono sempre stati malvisti, perseguitati, fucilati. Se per vittoria si intende l’imporsi definitivo di un obiettivo, perseguendo l’eliminazione di ogni forma di dominio, l’anarchismo ha sempre perso. Rappresentando una sorta di coscienza critica e intransigente del vivere civile, gli anarchici hanno infastidito il quieto scorrere della storia al punto da meritare la peggior fama, sia essa dovuta a effettive esperienze controverse sia essa dovuta alla diffidenza derivante dall’ignoranza. Va assolutamente superato il pregiudizio sul legame presunto fra anarchia, violenza e caos. L’anarchia, anzi, nell’espressione di massima coerenza, si lega all’elaborazione filosofica della nonviolenza, in un arricchimento reciproco volto a sradicare non solo il dominio istituito con la violenza, ma anche il dominio che la violenza stessa rappresenta, fosse anche transitoria e funzionale a un fine più alto. Eppure tale pregiudizio permane, a legittimare l’esclusione dell’istanza critica che l’anarchismo anima collocandosi sul margine esterno di ogni realtà istituzionale, spesso scoprendola poggiata sul puro abbandono fideistico. L’anarchico chiede conto della coerenza tra principi e strumenti con cui essi vengono perseguiti: per questo non può accettare la contraddizione di una convivenza pacifica raggiunta e conservata mediante la coercizione, fuori e dentro lo Stato. Quella anarchica è una ricerca critica e autocritica di coerenza così pervicace da portare a una paradossale diversità di declinazioni di pensiero, prodotti di un dialogo incessante possibile proprio per l’assenza di punti insindacabili da difendere, che non sia quello della liberazione dal dominio e dalla coercizione. L’anarchico non ha un’immagine irenica dell’uomo, ma rappresenta la convivenza pacifica di liberi ed eguali come un intenso lavoro sulla realtà collettiva e individuale. Decenni di riflessione anarchica hanno saputo elaborare proposte concretissime e interessanti senza ricorrere per nulla a forme violente che caratterizzano invece frange di falsa e provocatoria identificazione con il vero pensiero anarchico che guarda caso mette invece sempre il fondamento della sua azione nell’ educazione.”
Sarà un caso che il pensiero anarchico è stato ed è osteggiato dal fascismo, dal massimalismo comunista, dal liberalesimo e dal capitalismo? Sarà un caso che gli unici a stigmatizzare pubblicamente le violenze di Putin aggressore e degli oligarchi russi ed ucraini ognuno per via sua parte, siano stati proprio gli anarchici russi? Una cosa è certa comunque: a mio avviso Cospito, gli sparuti violenti nelle piazze e tutti i loro affini sono tutto fuorché anarchici. Credo siano decisamente il contrario. Proprio come ai tempi delle stragi di Stato o delle storiche vicende europee dei secoli scorsi.
Restando nel campo realmente libertario è utile rammentare questa nota in Lezioni di Anarchia Edicola 518: “Si rinunci all’ingenuità ma anche alla mera speranza: perché la ribellione è un fatto istintivo, mentre l’anarchia è una squisita questione progettuale che si fonda sul mutuo appoggio”.
Oltre ad invitare i lettori e la pubblica opinione ad approfondire il tema in termini storici seri è utile ricordare che molti intellettuali ed artisti, in campi diversi, nella storia anche recente, hanno mostrato molte e profonde affinità per il pensiero anarchico. Nel campo della letteratura possono essere ricordati Samuel Coleridge, William Blake, William Morris (autore del romanzo utopico News from Nowhere: «Notizie da nessun luogo», 1891), Oscar Wilde, Lev Tolstoj, Franz Kafka, Henri Miller, Albert Camus. Nel campo delle arti figurative vanno citati Camille Pissarro, Carlo Carrà, André Breton, Enrico Baj. Nella musica la lista è molto lunga, tra i più significativi troviamo Fabrizio De André, John Cage, Piero Ciampi, Léo Ferré, Georges Brassens. Nel cinema ricordiamo di Jean Vigo e Luis Buñuel. Nel teatro meritano una menzione gli esponenti del Living Theatre e poi Dario Fo, i Teatri-Offesi, ecc. Nell’urbanistica: Lewis Mumford, Carlo Doglio, Giancarlo De Carlo. Nell’antropologia: Pierre Clastres, Marc Augé, David Graeber.Più recentemente sono apparsi diversi pensatori che hanno provato a ridare nuova linfa all’anarchismo. Tra questi possono essere citati Murray Bookchin, Daniel Guérin, Colin Ward e Noam Chomsky.
L’ elenco non si esaurisce qui. Tutti impenitenti violenti?
Per chiudere ricordiamo che cosa scrisse il grande artista Camille Pisarro mentre dipingeva i suoi paesaggi sociali urbani e rurali:
« Il primo disegno rappresenta un povero vecchio filosofo che, dopo aver creduto che era giunto il momento, guarda ironicamente la grande città che dorme; vede il sole sorgere radioso e, fissandolo molto attentamente, vede scritta in lettere luminose la parola “anarchia”; la Tour Eiffel cerca di nascondere il sole allo sguardo del filosofo, ma non è ancora abbastanza alta e abbastanza larga per celare l’astro che c’illumina.Questo filosofo rappresenta il tempo, poiché ha una clessidra presso di sé, che sarà ben presto vuota e che egli s’accinge a rigirare per iniziare una nuova era. Vedi che è del simbolismo!…
La descrizione immaginaria dei luoghi dell’educazione diffusa.
Fin dal lontano 2009 mi sono divertito ad accompagnare, da architetto naïf assolutamente anomalo e dissidente, le ricerche, gli studi, gli articoli, i saggi e i libri dedicati all’idea di educazione diffusa con grafici, schizzi e disegni, per rendere visibile una utopia sempre più vicina ad una realtà.
Per riprendere in una specie di antologia questo fil rouge che intende rappresentare, con il disegno, il colore, la prospettiva e la fantasia, un’idea di educazione e un’idea di città, ho raccolto in una specie di album gli elaborati più significativi, a partire da quelli a corredo dell’esordio antesignano di questo nuovo rapporto tra educazione e territorio che insieme all’amico architetto Stanislao Biondo abbiamo pensato nel 2009 per un concorso internazionale di architettura dedicato proprio alla scuola.
Il piccolo catalogo, intitolato I disegni dell’educazione diffusa è già disponibile nelle librerie e in rete e può aiutare a percorrere visivamente la strada che ci ha condotto a costruire, passo dopo passo, un vero e proprio sistema dell’educazione diffusa alternativo ad una scuola obsoleta, classista, mercantile e classificatoria.
Qui sotto una selezione di immagini dal volumetto datate dal 2009 al 2023.
Scrivevo in un recente articolo apparso anche sul sito di Comune-info osservando ciò che sta accadendo nella scuola secondaria di primo ma soprattutto di secondo grado: “Gli stessi insegnanti di questo segmento finale dell’istruzione sono in qualche modo condizionati pesantemente dagli stereotipi, dalla loro formazione o meglio non-formazione pregressa di cui non hanno comunque alcuna colpa.Sono vincolati da una organizzazione rigida e incapace di accogliere e contenere il difficile mondo di quelle età della vita e costretti dalle regole a volte necessarie in luoghi e contesti semireclusori. Si vedono pertanto diretti ad agire in due direzioni principali: la nozione e la meritocrazia, la rendicontazione e la disciplina da un lato e quella che io chiamo la maledetta progettite dall’altro. Parlo della pletora di progetti ed eventi del bricolage sedicente pedagogico ma in realtà solo didattico pensato per una finta innovazione che non fa altro che indorare pillole su pillole (la motivazione, i giuochi di ruolo, il team teaching, la peer education, il learning by doing..) con tante parolacce spesso di chiara origine anglosassone nelle teorie e nelle applicazioni. La didattica cosiddetta alternativa è solo un altro strumento ipocrita per migliorare un modello di scuola che mantiene comunque i suoi parametri fondamentali e si esplica prevalentemente nella gestione spesso obbligata da realtà difficili e complicate, come se si fosse dei secondini che controllano gruppi in gran parte affatto interessati (per diversi motivi: familiari, sociali, di moda del momento) all’indirizzo di studi o alle cosiddette discipline che niente e nessuno potrà mai indurre ad amare in quei luoghi e in quel sistema complessivo. Il fatto che scuole ad indirizzo artistico fossero in qualche modo un’eccezione anche se timida a questa diffusa regola (ma solo per metà delle cosiddette materie, non a caso) è perché erano (prima di essere omologate ai percorsi liceali) un insieme di esperienze e indirizzi di studio, per la maggior parte dei casi scelte per forte vocazione che coinvolgevano le città, la vita, i territori mentre il luogo denominato scuola era una specie di portale ante litteram per muoversi verso le attività molto spesso spostate fuori e non solo in prossimità.”
Ciò che si legge e si vede sempre di più nei media è un mix improntato a confusione, violenza, obblighi insensati, regole di convivenza civile inesistenti o solo formali, demotivazione totale, inutili sforzi di salvataggio di una scuola irrimediabilmente persa da decenni. Dagli insegnanti che vessano gli studenti e viceversa (con punte estreme sempre più diffuse di intolleranza, assenza di rispetto reciproco fino anche alla violenza) fino alla mancanza di indirizzi pedagogici o di spunti realmente innovativi in campo educativo. Molte competenze pedagogiche e applicazioni coraggiose si perdono già dalla fine della scuola primaria, costringendo gli insegnanti ad essere prevalentemente degli addestratori e classificatori. Oltre ai contesti familiari e sociali sempre più disconnessi tra loro, quando non in palese conflitto, oltre all’influenza, sempre più pervasiva e recante dipendenza, dei social, condivisa ahinoi sia dalle famiglie che dai loro figli ,si rileva come sia determinante ciò che si è fatto o non si è fatto negli undici anni di “scuola” che precedono, così come nell’insieme dei contesti sociali e familiari. Il più delle volte i danni pregressi sono decisamente incalcolabili e irrecuperabili se coniugati con l’essere degli studenti nel pieno dell’adolescenza. Riflettiamo anche su come si è alfabetizzata e formata, nella scuola e fuori, la generazione (anni 70 e 80) di gran parte dei genitori dei ragazzi, degli adolescenti di oggi e (perché no?) anche dei docenti.
Ricevo tanti, troppi racconti di “prof” delle superiori disperati di fronte all’impossibilità di motivare, anche con gli strumenti di quello che ho chiamato spesso “bricolage pedagogico”, i giovani presi da tutt’altri interessi in quanto spesso costretti a scelte di percorsi che da soli non avrebbero mai intrapreso. Dai racconti si deduce anche una certa impotenza attribuibile ad una scarsa preparazione dei docenti stessi il più delle volte tutta incentrata sulle discipline, sulla persistente triade tutta utilitaristica e addestrativa delle Conoscenze, Competenze e Capacità. Questa sacra trimurti dell’istruzione è coniugata con inserti di pseudo innovazione tratti dalle ” pedagogie e didattiche” di gran moda che induce ad un gioco continuo e pericoloso tra il mantenimento della cosiddetta disciplina e le attività didattiche che si barcamenano a cavallo tra le indicazioni nazionali, che impongono il raggiungimento di determinati obbiettivi, e l’invito sempre più invadente a progettare improbabili sequenze, unità didattiche, moduli… Il tutto sfocia inevitabilmente nella misurazione numerica sempre inattendibile e limitata alla sommatoria delle anacronistiche “prove oggettive” mitigate dall’introduzione spuria di risibili e spesso inutili giochetti pedagogici in genere tesi a creare un surrogato di esperienza. Lo studente che si impegna e partecipa a questa specie di “dialogo educativo” lo fa per una sorta di remissione ad un destino quasi inoppugnabile oppure perché succube, fin dai percorsi scolastici e familiari precedenti, della competizione e della gara ai voti più alti nonché della rendicontazione familiare. In certi indirizzi di studio l’insegnante è costretto suo malgrado ad una lotta continua e sofferta tesa a mantenere le relazioni in classe ad un livello minimo di civile convivenza mentre solo in determinati contesti e a certe condizioni si riesce a fare delle prove efficaci di pedagogia e didattica, quando il docente (rarissimamente) ne possegga almeno qualche essenziale e applicabile cognizione.
Cito come chiosa e invito a leggere qui di seguito uno scambio surreale di battute vere nei social tra due prof. che ho chiamato “DIALOGO TRA UN VIAGGIATORE SCOLASTICO STRESSATO E UN VENDITORE DI ALMANACCHI EDUCATIVI“(mediatico sedicente filosofo e pedagogista rampante e pontificante)
Venditore di almanacchi educativi: “Il diritto di educare non è scontato. Non l’ho per aver superato un concorso. L’educazione è nella relazione; e nessuno ha il diritto di educare nessuno se non è disposto a costruire una relazione vera. Una relazione di potere non è una relazione vera. Non hai diritto di lamentarti di nessuno studente se non sei sceso dalla cattedra e non lo hai guardato negli occhi.”
Viaggiatore scolastico stressato: “Sono tante volte sceso dalla cattedra e ho provato a guardare negli occhi come dici tu ricevendo solo sputi e sberleffi, spesso non solo metaforici. Ma forse non sei mai stato in una classe-riformatorio (spiace chiamarla così ma tant’è) di una periferia metropolitana dove nessuna, nessuna, dico nessuna strategia è possibile se non il laissez faire, tacere e lasciar trascorrere il tempo sperando che non succeda nulla mentre per tutto il tempo escono a frotte, flirtano, si menano, urlano, insultano, chattano e non ti permettono neppure di dire una parola, di proporre attività, pure fuori dall’aula o dall’edificio! Forse sei in una bella scuolina liceale di provincia dove certe cose non accadono quasi mai? Comunque sia non hai per nulla detto come faresti concretamente se non ti consentissero di fare una beneamata cippa, se non sperare che non accada nulla di irreparabile aspettando con ansia la fine dell’ora. Anche in una relazione non di potere possono accadere certe cose se manca del tutto, per consuetudine consolidata, il rispetto reciproco e quando questo è impossibile da ricostruire. La mia conclusione è comunque sempre la stessa: questa “scuola” che obbliga tutti a stare per ore chiusi in una stanza a fare cose che non interessano punto, con pochissime palliative vie d’uscita va chiusa. Solo poche eccezioni confermano questa orribile regola. Oggi poi ancor di più.”
ll fatto è che oggi ad ogni piè sospinto la cronaca riporta episodi di violenze non solo verbali, intimidazioni, continue provocazioni pesanti e dileggi nei confronti degli insegnanti, anche quelli che tentano tutte le strade per un dialogo educativo più avanzato per quello che è possibile essendo quasi nulla la preparazione offerta dai crediti universitari (solo storie di teorie e niente tirocini sul campo) o dal pochissimo tempo e dalle spurie e confuse risorse per prepararsi ai grotteschi concorsi. Per non parlare del ridicolo “periodo di prova” cui sono sottoposti identicamente coloro che hanno già anni di esperienza come coloro che sono all’esordio assoluto. Qui il diritto alla formazione vera e sul campo dei neofiti è quasi assente o malamente e burocraticamente realizzata. Le scuole, dai racconti in diretta, appaiono come un coacervo di omertà, di “ha da passà a nuttata“, di dirigenti ponziopilati e/o burocrati, di famiglie assenti e che delegano le loro enormi problematiche ad una istituzione di fatto inadeguata ed impotente. Non esistono nella maggior parte dei casi, come qualcuno blatera, insegnanti più o meno bravi. Sono dilaganti invece situazioni che né i cosiddetti bravi né i non bravi sarebbero in grado neppure di immaginare di poter gestire. Quando ci provano sbattono contro i soliti muri di pietra o di gomma a seconda dei casi e ne soffrono emotivamente e professionalmente spesso venendo grottescamente e vilmente anche accusati di non saper coinvolgere, motivare, interessare. Nessuno si pone il problema che in certe realtà “ad impossibilia nemo tenetur”? Molti studenti adolescenti non vorrebbero per nessun motivo essere lì dove vengono collocati a forza e senza effettiva scelta. Per questo cercano solo un modo per non annoiarsi e per sbarcare il lunario anche arrivando a creare climi simili a quelli di tante mini “arancia meccanica”. L’unica strada proprio per questo è quella che si propone: cambiare radicalmente tutto prima che diventi una vera e propria “guerra scolastica” come in tanti paesi che ci hanno drammaticamente preceduto in simili scenari (USA, Sudamerica e Francia per esempio).
Le risibili prove di scuole senza zaini, senza voti, classi ribaltate, giochini pedagogici inutili, stanno nascondendo il fatto che questa scuola pubblica che ha raggiunto, anche dopo la tristissima esperienza pandemica, punte inopinate di esasperazione, di violenza e di inutilità prevalentemente nel suo segmento “secondario”, andrebbe chiusa immediatamente oppure sostituita rapidamente e “da dentro” con un sistema diverso, operando come in un trapianto multiplo di organi o del corpo intero stesso. Molti docenti che per paura dichiarano schernendosi che le loro classi, per carità, sono tranquille, rispettose e non danno alcun problema, lo fanno perché hanno rinunciato a tutto, compresi i tentativi di approcci alternativi e lasciano i ragazzi a cuocersi nei loro brodi di coltura senza chiedere nulla e senza dare nulla, facendo decisamente più danni rispetto a quelli gravi già presenti e diffusi fuori e dentro i reclusori scolastici. Gli psicologi imperversano da tempo con mille teorie senza mai entrare nelle realtà concrete e senza un repertorio di praticabili soluzioni ma senza, soprattutto, riuscire a definire le situazioni estreme e pericolose e suggerirne i rimedi. Ho letto saggi di tutti i tipi sulla gestione di gruppi, classi, tribù. Non fanno altro che sciorinare giaculatorie, parole chiave, miracolosi suggerimenti e linee guida superficiali e astratte che appaiono del tutto sconnesse dai fatti reali che stanno accadendo e dalle mille tipologie di situazioni che solo una radicale mutazione del sistema supererebbe d’incanto.
Sarebbe tutto diverso se ci fosse continuità tra un percorso precedente (infanzia, primaria e secondaria di primo grado) improntato anche solo ad una sperimentazione di educazione diffusa che aiutasse, insieme ad iniziative solide e continue di formazione ad hoc degli insegnanti , a ridefinire in senso decisamente innovativo il concetto di educazione, per il momento in modalità sperimentale, anche nell’ultimo tratto del percorso educativo tradizionale.
Importante sottolineare il fatto che comunque, anche nel tratto di vita prossimo alla fine del percorso educativo canonico, quando determinate conoscenze siano di fatto indispensabili e fondamentali indipendentemente dalla motivazione, la modalità esperienziale induttiva debba essere considerata imprescindibile. Non è un caso che proprio poco tempo fa, estendendo il campo a tutto il sapere e non solo a quello scientifico, il nostro fisico Giorgio Parisi abbia voluto sottolineare l’importanza di far precedere l’esperienza all’astrazione.
In una possibile ipotesi di riconfigurazione del percorso educativo complessivo si potrebbe cambiare finalmente strada e contemperare in modo decisamente rivoluzionario le esigenze di preparazione che definiamo universitaria o professionale con la consapevolezza delle scelte fatte e quindi l’induzione di interesse e partecipazione certamente in un ambiente (o una serie di ambienti) fisico e relazionale decisamente opposto a quello attuale, con la costante di una ineluttabile integrazione virtuosa attraverso le esperienze vive, dell’accezione naturale, sociale, familiare, urbana. Si comprenderebbe allora a pieno, non considerandola più noiosa e inutile, perfino l’esigenza, come nella musica, in determinati momenti, del classico “solfeggio” accanto all’esecuzione creativa ed appassionata frutto di improvvisazioni e incidentalità.
Una strada che ritengo però al momento improponibile, per il segmento di età tra i 14 e i 18 anni, visto il contesto attuale che comprende l’organizzazione degli istituti e il modo di lavorare di dirigenti e docenti oltre all’humus studentesco, sarebbe proprio quella di una sperimentazione del tutto improvvisata e avulsa dal percorso precedente perché resterebbe un’isola estemporanea e condizionata dai pregiudizi e dai tabù propri di gran parte del corpo docente della secondaria di secondo grado formata e reclutata anche oggi più da addestratore disciplinare, che da educatore e costretta da una terribile realtà sempre più spesso ad una funzione di badante quando non di secondino o guardiano dei cellulari! Sarebbe utile invece e indispensabile concentrarsi su una preventiva solida formazione degli insegnanti e dei dirigenti per affrontare successivamente percorsi sperimentali in gruppi o classi a partire dal primo anno avendo assunto informazioni e testimonianze sulle caratteristiche del loro percorso negli anni precedenti.
In vista di auspicabili radicali cambiamenti che oltrepassino e sostituiscano l’intero sistema educativo attuale , come ipotizzato nell’articolo La scuola pubblica si chiude ancor di più su sé stessa, si può pensare, nel frattempo, ad un sistema cooperativo in rete di esperienze e progetti di educazione diffusa per cicli completi accanto agli esperimenti possibili (oggi ahinoi sempre meno) nella scuola pubblica promossi e gestiti dai docenti e dalle associazioni che si sono o si saranno già formati in diverse occasioni.
Non è di conforto comunque l’osservazione dei progetti di svendita della scuola pubblica al privato ed all’aziendalismo governativi, accanto alle risibili proposte della cosiddetta “sinistra” avanzata o timida, che auspica nient’altro che più risorse per il personale, l’abolizione delle classi pollaio, il tempo pieno e prolungato, il potenziamento delle scuole nelle realtà più fragili e la diffusione ad libitum di forme di bricolage pedagogico e didattico. Tutto ciò viene definito come una controffensiva valida per riformare la scuola pubblica. Ricordo ancora una volta come non si possa rimodellare nessuna forma con una materia prima da buttare.
Giuseppe Campagnoli Febbraio 2023
NOTE
Giuseppe Campagnoli, architetto ricercatore e saggista operante nel campo dell’educazione, dell’architettura per l’educazione e la cultura. Già docente e direttore di scuole artistiche a Macerata, Cagli, Pesaro e Riccione. Responsabile dal 2000 al 2006 dell’Ufficio Studi e Ricerche presso la Direzione Scolastica Regionale per le Marche del MIUR. Fino al 2012 nella lista degli esperti dell’ Education, Audiovisual and Culture Executive Agency della Commissione Europea e dell’UNESCO nel campo della cultura dell’education e della creatività.Fondatore e Amministratore nel 2013 del Blog multidisciplinare ReseArt.com dove scrive di scuola, architettura, arte, politica e varia umanità.Coredattore fin dal 2016 e firma del “Manifesto della educazione diffusa” pubblicato nel 2018.Numerose le pubblicazioni in campo educativo e sui luoghi dell’apprendere. Collaboratore, tra le altre, della rivista on line Comune-info.net, della Rivista dell’istruzione, Education2.0, Terra Nuova, Innovatio educativa, Le Télémaque.
L’Educazione diffusa è un progetto educativo nato con la pubblicazione nel 2017 del Manifesto dell’educazione diffusa, seguito da diversi volumi e articoli a firma di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli nonché seminari, incontri, iniziative e progetti sperimentali in Italia e anche all’estero che hanno coinvolto anche le Università di Milano, Macerata, Parma e Caen (Francia). E’ stato oggetto anche di audizione presso la Commissione parlamentare Istruzione e Cultura nel 2020. Le ultime pubblicazioni sull’argomento sono: una specie di racconto giocoso (“La commedia della città educante”) dedicato alle traversie burocratiche delle sperimentazioni dell’educazione diffusa, un libro di Paolo Mottana intitolato “I tabù dell’educazione” e un saggio in una prestigiosa rivista francese di filosofia dell’educazione: Le Télémaque dell’Università di Caen intitolato “L’educazione diffusa e la città educante”.Uscita a dicembre 2023 un‘antologia di scritti di Giuseppe Campagnoli sull‘architettura della città e l‘educazione. Prossimamente un libro di Paolo Mottana dedicato alla costruzione di un “Sistema dell‘educazione diffusa“.
Articolo di Libération del 7 Febbraio 2023. Traduzione di Giuseppe Campagnoli.
“Da un’educazione ottenuta dopo una dura lotta in Italia alla fine dell’Ottocento, al coinvolgimento nel fascismo, da cui finì per fuggire passando per l’India, la vita della pedagogista ha conosciuto molte svolte inopinate, spesso nascoste dal grande successo del metodo che porta il suo nome.
DI CAMILLE PACE
Dal metodo Montessori alle idee di educazione affini. Un testo significativo e illuminante.
Quello che sappiamo di Maria Montessori è inversamente proporzionale alla fama del suo nome, e le immagini di cubi colorati che il suo nome evocano faticano a cogliere la complessità del personaggio. Poco male, visto che i fumetti sembrano essere diventati il mezzo privilegiato della sua biografia, il caso ha fatto sì che negli ultimi mesi due diverse pubblicazioni si siano concentrati sul personaggio: la Casa dei bambini, dell’illustratrice italiana operante in Francia Caterina Zandonella insieme all’autrice Halima Steinkis in uno scenario romanzato, e Maria Montessori, la scuola di vita, di Caroline Lepeu e Jérôme Mondolini. Due opere che evidenziano le zone d’ombra altrettanto affascinanti quanto quelle luminose della storia ufficiale.
Maria Montessori nacque il 31 agosto 1870 da una famiglia borghese a Chiaravalle, nell’Italia orientale. A priori, il suo ingresso nella vita ha tutto dalla storia perfetta della determinazione femminista, quella dell’ostinata self made woman: lei vuole studiare, non suo padre, che cerca di metterle i bastoni tra le ruote anche se avesse scelto di essere un’insegnante di scuola elementare. Sfortunatamente si è infatuata della biologia e insiste. Oltre al padre, deve superare molti ostacoli: il Ministro dell’Educazione Nazionale che non vuole nemmeno una donna a medicina, i banchi universitari dove certi corsi le sono vietati e dove si ritrova sola la notte, unica modo per lei di praticare le dissezioni…
DRAMMA PERSONALE
Una delle prime italiane a laurearsi in medicina, Maria Montessori pose le basi per quella che sarebbe diventata la lotta di una vita in un istituto psichiatrico a Roma. Chiamata ad accudire i bambini “ritardati mentali”, è scioccata nel vedere che non sono separati dagli adulti e sono totalmente poco stimolati: sono messi lì per trattenerli e controllarli, non per curarli. La dottoressa riesce a isolarli e verifica ciò che sospettava: i giochi e le interazioni tra bambini sono elementi essenziali del loro sviluppo. Maria Montessori si pone sullo stesso piano del bambino, lo osserva, lo lascia fare liberamente. Un metodo di apprendimento in autogestione che presto estanderà oltre i cosiddetti “bambini difficili” aprendo la sua prima scuola romana, la Casa dei bambini. Così Maria Montessori diventa pedagogista. Nel frattempo, il suo dramma personale si sviluppa in silenzio. Incinta fuori dal matrimonio, Maria Montessori deve scegliere tra la sua carriera pagata a caro prezzo e la nascita di suo figlio. Lo affida a una famiglia di contadini. Mario Montesano, divenuto poi Mario Montessori, ha ritrovato sua madre solo quando era adolescente. Sarà il suo braccio destro, il suo segretario personale, e non la lascerà mai. Ma le sono mancati quei primi anni con lui, gli anni che considerava così importanti.
BAMBINI IN CAMICIA NERA
Maria Montessori ha una visione e delle ambizioni e non si fermerà davanti a nulla per metterle in pratica. Anche Benito Mussolini si appassiona al suo metodo perché vi vede un ottimo modo per mettere in pratica il fascismo a scuola. Così colei che si definiva apolitica e pacifista finì socia onoraria del Partito Fascista, con bimbi in camicia nera nelle sue classi. La situazione si era evoluta decisamente al di fuori del suo controllo finché non si dimise nel 1933 e fuggì dal paese con suo figlio un anno dopo. Benito Mussolini volta pagina sull’educazione Montessori, ma non sarà per niente facile la sua fondatrice. Braccata in Spagna, Maria Montessori si stabilì infine nei Paesi Bassi, dove nel 1929 creò la sua organizzazione, l’Associazione Internazionale Montessori, ancora attiva e fiorente quasi cento anni dopo.
Maria Montessori visse da lontano la seconda guerra mondiale, esiliata in India (NDR: grazie anche alla sua adesione alla Società Teosofica e comunque in domicilio coatto in quanto cittadina di un paese nemico) dove inizialmente sarebbe dovuta rimanere solo tre mesi. Le ci vorranno ancora sei anni pieni prima di rientrare e trovare un continente distrutto. Consolidò fino alla fine con studi, pubblicazioni e conferenze la sua influenza di superstar planetaria della pedagogia, costruttrice di un impero che oggi rivendica 25.000 scuole nel mondo (ma poco più di 200 in Italia ndr )”
Questo articolo, che di fatto è una recensione scarna di due volumi recenti sull’argomento, spinge ad alcune riflessioni che incuriosiscono e forse invitano ad approfondire leggendo le due singolari pubblicazioni.Io lo farò e cercherò di fare a mia volta una recensione.Ma alcune domande provocatorie, assai provocatorie, per inciso, mi sorgono spontanee: come mai Mussolini era così interessato al metodo Montessori?Che significato ha la sua adesione alla Società Teosofica?Quali e di quale tipo i rapporti con Rudolf Steiner capo dal 1902 della sezione tedesca fino alla secessione antroposofica del 1912 e sicuramente in parte contiguo con il nazismo ed il fascismo?”
Dopo un decennio di impegni e studi, oltre che prove sul campo, dell’educazione diffusa, passando per l’esordio nel 2018 dell’omonimo Manifesto anticipato dalla pubblicazione nel 2017 per i tipi di Asterios editore di Trieste del volume “La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa”, risultati dell’incontro e degli studi congiunti di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli e della collaborazione attiva di tanti amici pedagogisti, insegnanti, associazioni dedicate all’educazione e gente di scuola, propongo una selezione di articoli e saggi sullo specifico argomento dell’architettura declinata come idea dei luoghi dell’educazione, un messaggio ancora difficile da far passare e che ancora si presta a tanti equivoci e a tanti atteggiamenti conservatori o falsamente innovatori. Pensiamo a come da tempo si parli anche di museo diffuso, albergo diffuso, biblioteca diffusa o ancora meglio “ospedale diffuso”.
Finisce il tempo dei monumenti da “bianche galere” simboli più spesso di potere e controllo che di uso collettivo o cura. I due ambiti culturali di riferimento sono quelli della contro-educazione di cui tanto ha trattato il mio amico Paolo Mottana e dell’ultra-architettura da me coniato ed esplicato in seno all’articolo recente sulla rivista di filosofia dell’educazione Le Télémaque:
Ogni luogo è atto all’educazione purché se ne esalti il significato didascalico e di formazione collettiva seguendo un filo rosso tra interessi individuali e necessità collettive. L’ultrarchitettura e la scuola diffusa è andare oltre la funzione codificata dei manufatti – scuole, musei, botteghe, teatri… – e dei luoghi – piazze, strade, radure, boschi… – per renderli virtuosamente eclettici, sottratti al mercato e restituiti alla collettività anche in funzione educante.
L’ e-book e il cartaceo sono già disponibili in rete.